“Dalla crisi del dopoguerra e dall’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti alla scissione di Livorno, all’orizzonte teorico e politico ordinovista dal 1919 agli anni 70-80.
Angelo Ruggeri
1. DALLA SECONDA ALLA TERZA INTERNAZIONALE
La cosa che più colpisce, tra i tanti che cercano politicamente di “fornicare” e “lucrare” sull’anniversario della fondazione del Partito comunista d’Italia, è la lamentela per quella scissione avvenuta a Livorno 100 anni fa, per rompere con il PSI degli opportunisti e dei massimalisti-parolai e con quella II internazionale, che tradendo il proletariato e aderendo e sostenendo la guerra imperialista, aveva mandato al massacro, gli uni contro gli altri, popoli e lavoratori di tutto il mondo.
Dei nemici e traditori del PCI vale a dire degli ex-post-anti-comunisti del PD, composto da coloro che hanno suicidato il PCI e dagli ex democristiani, non serve parlare più di tanto, avendo chiaro che il loro approdo è persino più deludente e squalificante di quello che ebbero i Kautsky e i socialdemocratici, tanto da essere ormai abbarbicati sul vuoto e ingannevole liberismo e un europeismo assunto come ideologica banderuola del cosmopolitismo, che come tale nega la sovranità nazionale, statale, democratica e Costituzionale, rinnegando con ciò l’internazionalismo che si fonda sul pieno riconoscimento della nazionalità, della sovranità costituzionale, democratica e del territorio sociale nazionale in cui vivono e lottano lavoratori e popoli.
Alla pari dei “voltagabbana” della “sinistra della destra”del PD, si trovano quelli della parimenti borghesia di “sinistra”, più o meno“riformista”e della capitalista pseudo sinistra ”radicale”, che assieme agli anticomunisti Ezio Mauro e Galli della Loggia, Mario Sorgi e Marcello Flores, (ecc.), senza molte distinzioni, concordano tutti che tale scissione “non sveva da fare”. Testimoniando e quasi per esorcizzare la paura che fa ancora oggi, a distanza di 100 anni, la nascita del Partito comunista. Per contrastare tutto questo non si può sperare in quei gruppetti che si auto-proclamano partito comunista o comunisti senza avere alcun legame ne di massa ne di classe.
Va detto, anche, che se per ogni svolta verificatasi nella lunga storia del partito comunista, si dovesse ricorre alla categoria della rifondazione, come taluni fanno ad esempio per il partito nuovo che nel secondo dopoguerra, allora in tale categoria potrebbe farsi rientrare anche le Tesi e il Congresso di Lione di vera e propria fondazione perché è definì una nuova fisionomia del partito di tipo nuovo. Sicché il momento della scissione e della sua fondazione di Livorno, risulta essere l’inizio di un processo di costruzione e di lotte, che l’avanguardia più cosciente della classe operaia, rompendo con l’opportunismo, il riformismo e il massimalismo parolaio che determinavano la paralisi e l’inadeguatezza teorica e pratica del PSI, ha sviluppato in tutti gli anni successivi, fino a realizzare, esattamente 5 anni dopo Livorno, quella costituzione marxista e leninista del partito di tipo nuovo delle “Tesi di Lione sulla situazione italiano (3° Congresso-gennaio 1926)” che inizia così: “La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie l’avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può considerare nel momento presente come il compito fondamentale della Internazionale comunista” .
In verità , se si pensa che la Rivoluzione d’Ottobre avvenne quando i bolscevichi avevano alle spalle un lavoro iniziato fin dal 1912, va detto che la scissione di Livorno e la fondazione del Partito Comunista, semmai, è avvenuta in ritardo e che da ben prima si sarebbe dovuta realizzarla. Del resto lo stesso Gramsci stesso ebbe ad affermare che “La scissione di Livorno avrebbe dovuto avvenire almeno un anno prima”, per far si che i comunisti avessero il tempo di dare alla classe operaia l’organizzazione propria del periodo rivoluzionario che stava attraversando. Invece “I socialisti non hanno compreso come da qualunque incentivo, in qualunque momento la lotta delle classi si possa convertire in guerra aperta, la quale non può finire che con la presa del potere da parte del proletariato”.
Infatti, al momento della nascita del PCD’I la fase rivoluzionaria era in grande misura già alle spalle, occasione sprecata a causa proprio del PSI e delle sue componenti riformista e massimalista, che tra loro unite dominavano il PSI e i suoi congressi.
Ciò nonostante la scissione di Livorno era nella realtà assolutamente inevitabile, indispensabile e necessaria.
1.1. Per comprendere questo, la prima cosa che si deve vedere, è come il formarsi del Partito Comunista d’Italia si collochi nella crisi della seconda Internazionale e in particolare nella crisi del Partito Socialista Italiano.
Questo già solo è tema estremamente complesso, che meriterebbe un discorso assai lungo ed approfondito, anche perché a me pare che l’analisi di questa crisi della seconda Internazionale e dei partiti socialisti sia uno dei problemi più difficili di storia e tra i più seducenti.
Dalla storiografia di derivazione staliniana, ed in modo particolare da quella lettura che Stalin indirizzo nel 1931 a Proletaskaja Revolutzia, è venuta a noi una impostazione secondo la quale quello della seconda Internazionale è in sostanza un periodo nero o pressappoco, dominato dall’opportunismo, sicché la terza Internazionale si sarebbe riallacciata direttamente alla prima Internazionale, scavalcano quasi la seconda, Lenin direttamente a Marx e ad Engels, come se non fossero esistiti ne Plekanov, ne Kautski, ne altri. In questo modo evitando in certo senso, di fare i conti fino in fondo con quella che poi è diventata la deriva opportunista e persino traditrice da parte della seconda Internazionale, col rischio che alla fin fine, non facendo i conti fino in fondo, ci si dimentichi o si ignori (o si finga di ignorare), cosa è stata e la gravità di tale degenerazione della seconda Internazionale e della socialdemocrazia: cosi che capita ancora oggi che taluni storici appiattendo la storia, finiscono con l’assimilare il PCI e il secondo dopoguerra alla socialdemocrazia e al primo dopoguerra, ignorando quanto e perché siano tra loro irriducibili.
Oltre a Plekanov e Kautsky, anche Rosa Luxemburg viene sostanzialmente emarginata da un rapido accenno, quasi sprezzante, contenuto in quella lettera di Stalin. In sostanza la terza Internazionale avrebbe continuato pari pari un discorso rivoluzionario iniziato da Marx ed Engels ed interrotto dalla seconda Internazionale. In tal modo, si può e si arriva, quindi, a parlare di marxismo-leninismo come un tutto compatto, con un rapporto diretto di Lenin con Marx ed Engels espungendo quasi del tutto il periodo anche iniziale della seconda Internazionale.
Va detto- e questo ormai ritengo la si possa fare tranquillamente -che questa è una colossale falsificazione della storia, mossa da evidenti ragioni ideologiche e politiche, non tutte sbagliate, ovviamente. Storicamente però la cosa la cosa è insostenibile. Prima di tutto perché non si può dimenticare che la seconda Internazionale, quando sorge, nel 1889, raccoglie le forze di partiti socialisti con basi nazionali ormai esistenti e con relativa consistenza rispetto ai tempi, ed accompagna la vita di questi partiti. E’ questo il periodo in cui la classe operaia si dà, in una serie di paesi, una organizzazione politica, in cui si diffonde la concezione del socialismo ed in cui il marxismo diventa la concezione che guida coloro che lottano per il socialismo.
Del resto anche dopo il tradimento del 1914 da parte della socialdemocrazia tedesca, anche quando la polemica di Lenin con la seconda Internazionale divenne di estrema asprezza, egli non giudicò mai la seconda Internazionale, da un punto di vista storico complessivo, come un fatto puramente negativo, ma indicò la funzione positiva che essa aveva svolto ed al tempo stesso i suoi limiti, gli errori, le deformazioni.
Inoltre bisogna dire che, sino al 1914, nonostante una serie di dissensi che Lenin aveva avuto con la seconda Internazionale, sopratutto in relazione al rapporto con i menscevichi, nonostante alcuni giudizi suoi abbastanza severi su determinati momenti di vita del Partito Socialdemocratico Tedesco ed alcuni dissensi con il “rinnegato Kautsky”, sulla questine della concezione del partito, Lenin è perché i bolscevichi ed i socialdemocratici russi operino nella seconda Internazionale. Vuole conquistare ai bolscevichi pieno diritto di cittadinanza nella Internazionale, alla pari dei menscevichi e ritiene che la lotta all’opportunismo debba essere condotta e possa vincere all’interno dell’organizzazione.
E’ la crisi del 1914, cioè la capitolazione della seconda Internazionale di fronte alla guerra imperialista, che dà a Lenin coscienza precisa del fatto che ormai l’opportunismo non si vince all’interno della seconda, ma con una lotta frontale contro di essa e contro i suoi partiti.
1.2 Il problema è di vedere le radici e le ragioni della crisi della seconda Internazionale.
Il tema è di estrema difficoltà e qui vi possiamo solo accennare. E’ certo che la seconda Internazionale si sviluppa in un periodo che lo stesso Lenin definisce “relativamente pacifico” della vita europea (e dobbiamo comprendere bene il significato di quel “relativamente”, che vuol dire in parte anche apparentemente).
E’ una fase di sviluppo economico ed in cui si verificano, per il movimento operaio, conquiste economiche e politiche, nel senso della libertà di associazione, di sciopero, ecc. di una certa consistenza; un periodo di questo genere, espansione democratica, si ha anche in Germania dopo la sconfitta delle leggi antisocialiste di Bismarck.
Schematizzando si può forse dire che viene predominando nella seconda Internazionale una visione del passaggio dal capitalismo al socialismo fondato essenzialmente sul processo economico, donde il determinismo e l’economicismo, poi cosi duramente denunciato e criticato poi anche da Gramsci, più che sulla piena coscienza delle contraddizioni di classe e politiche che sono destinate ad acutizzarsi.
Un passaggio che viene inteso in modo meccanicistico e che è si fondato sullo sviluppo delle forze produttive ma senza comprendere che questo rende necessarie, oggettivamente, una vigorosa lotta, condotta contemporaneamente sul piano politico e sociale (come accadrà solo nel secondo dopoguerra col PCI “partito nuovo”) per radicali riforme di struttura e sovrastruttura, per riforme economiche, sociali e istituzionali radicali, solo le quali accompagnano, condizionano e allora possono determinare la trasformazione in senso socialista della società.
Lo sviluppo delle forze produttive comporta poi – ecco qui una visione semplicistica da parte delle forze socialiste e socialdemocratiche dello sviluppo economico-sociale – il formarsi di una maggioranza operaia della popolazione che per ciò stesso costituirà – ed anche questa è una semplificazione – la base sociale della maggioranza elettorale dei partiti operai.
Nella concezione socialista e socialdemocratica di cui sopra, opera e domina profondamente la influenza del positivismo e della sua concezione evolutiva dello sviluppo naturale e sociale, opera, cioè, una deformazione del marxismo di cui gli uomini della seconda Internazionale non si rendono conto ma risultano pienamente colpevoli.
E’ quello un periodo, come dicevo, non caratterizzato dalle convulsioni del 1848 o del 1870-71, è un periodo che offre più spazio allo sviluppo democratico ed all’affermarsi delle rivendicazioni sindacali e di riforme spicciole e immediate. E’ quindi un periodo che presenta nuovi problemi e richiederebbe la capacità di nuovi compiti di elaborazione strategica e tattica del movimento operaio.
Ma questi nuovi compiti o non vengono affrontati o lo sono senza un adeguamento delle teoria rivoluzionaria alla prassi politica che in quel momento si deve affrontare. Resta cosi uno spazio vuoto (un vuoto che, anche in questo, non si verificherà nel secondo dopoguerra col PCI), tra una prassi politica che va avanti con un certo empirismo e la teoria rivoluzionaria. Questo distacco tra pratica e teoria lascia uno spazio vuoto in cui, a un certo punto, si insinuano – siamo nel 1895-96 – il revisionismo e Bernstein.
Senza stare a descrivere le posizioni di Bernstein , dico semplicemente che con questi si rende esplicita, dichiarata, voluta la deformazione della concezione del marxismo. Bernstein attacca direttamente, esplicitamente la concezione dialettica, ritiene che la dialettica debba essere abbandonata dal marxismo; abbandonare la dialettica significa abbandonare la coscienza della contraddizione e della contraddizione interna al capitalismo, non vedere più la storia svilupparsi attraverso la contraddizione delle classi, ma svilupparsi in senso evolutivo, senza profonde rotture, in modo irenico, pacioso, senza salti.
Una visone evolutiva in cui lo sviluppo economico diventa tutto e l’obbiettivo diventa insignificante e giunge sino ad un certo recupero, addirittura, del liberalismo ((da considerare e verificare se questo dello sviluppo economico che diventa tutto e l’obbiettivo diventa insignificante, con un recupero del liberalismo, non sia parte prevalente o componente primaria anche della concezione dell’attuale Partito comunista cinese ….) .
Ora, le posizioni di Bernstein vengono, sì, formalmente respinte dalla seconda Internazionale, sia pure, come osservo Lenin, con alcune cautele diplomatiche di Kuatsky che risponde riaffermando la concezione di Marx nei suoi termini essenziali, ma non affrontando i compiti nuovi che di fatto si ponevano al movimento operaio in quella fase, tanto diversa dal 1848, tanto diversa dal 1870.
In realtà le posizioni di Bernstein, respinte sul piano programmatico e teorico, penetrano nella prassi della seconda Internazionale., anzi quelle posizioni vennero fuori proprio perché avevano una loro radice nella prassi della seconda Internazionale.
Noi sappiamo che Lenin volle dare una spiegazione storica, concreta, fondata sulla struttura di classe, della degenerazione opportunistica della seconda Internazionale, e quella spiegazione la diede ricorrendo al concetto della aristocrazia operaia, cioè del formarsi di uno strato di operai privilegiati, dal punto di vista salariale e sociale, alle cui rivendicazioni sostanzialmente obbediva la seconda Internazionale (qualcosa di simile con quanto accadeva negli Stati Uniti con l’aristocrazia del sindacalismo di mestiere del AFL di Gompers …), e che costituivano la base della deformazione opportunistica.
E questo è un concetto da considerare e valutare, perché Lenin sottolineò sempre che poi questo strato di aristocrazia operaia era assai ristretta. Anche se è vero che forniva i quadri, e i quadri sono sempre elemento decisivo dell’orientamento di un movimento, ma oggi vale la pena di interrogarci se basta questa nozione di aristocrazia operaia per spiegare il fenomeno cosi ampio e cosi profondo che si ebbe allora.
Il fatto è, però, che questa tale concezione deterministica del passaggio dal capitalismo al socialismo si determina e si afferma nel movimento operaio proprio quando il capitalismo sta passando ad una nuova fase storica, sta cioè, passando alla fase monopolistica, e quando si gettano, quindi, le basi dell’imperialismo, come spiegherà Lenin con la sua grande forza di analisi. Vale a dire che questa concezione si afferma proprio quando si va verso l’acutizzazione dei contrasti sociali e a livello delle nazioni e a livello internazionale, e si va al conflitto mondiale del 1914.
Si verifica, quindi, in quegli anni, una divaricazione crescente tra la concezione che guida i partiti della Internazionale e la realtà storica effettiva, e quindi una vera incapacità di quella politica di adeguarsi ai nuovi sviluppi della storia .
Certo, nella seconda Internazionale si parla dell’imperialismo, Hilferding scrive, nel 1908, “Il Capitale finanziario”, che servirà di base a Lenin per scrivere “L’Imperialismo”, Senza Hilferding non si può ben capire Lenin. Ma nel libro di Hilferding non si tirano poi le conseguenze politiche effettive dell’analisi che si fa.
Anche Kautsky parla dell’imperialismo, ma per lui l’imperialismo è essenzialmente l’occupazione dei territori agrari da parte dei paesi capitalisticamente sviluppati, è essenzialmente una deviazione dello sviluppo capitalistico, e non invece una fase oggettivamente necessitata, dello sviluppo capitalistico.
Vale a dire che la seconda Internazionale si trova, di fronte ai processi imperialistici che provocano la guerra del ’14, impreparati a cogliere la sostanza imperialistica di questa guerra.
Il solo che sa cogliere con lucidità, con chiarezza, la caratteristica imperialistica di questa guerra è Lenin. Anche se la nozione di imperialismo in lui si incontra per la prima volta nel 1912, mentre il suo famoso libro è del 1916.
Ecco quindi la radice, sommariamente accennata, della crisi della seconda Internazionale.
2. Il PARTITO SOCIALISTA ITALIANO
Nel Partito Socialista Italiano pesano quelle caratteristiche della nostra società nazionale: il minore peso della classe operaia, il maggior peso della piccola borghesia, il minor livello culturale, e cosi via.
Il PSI riesce senza dubbio a guidare la classe operaia a significative conquiste sindacali, di libertà di associazione e di libertà di sciopero, a diffondere l’ideale del socialismo, ma pesa, da noi più che negli altri Paesi, la minore omogeneità della classe che sta alla base del partito, pesa una assimilazione molto confusa, eclettica, superficiale, del marxismo. Abbiamo un oscillare, prima, tra lo integralismo e l’incapacità di definire una precisa autonomia della classe operaia verso la politica borghese e giolittiana poi. Un oscillare tra riformismo e massimalismo che è il dramma del PSI; perché i riformisti individuano una qualche riforma per le quali però bisognerebbe battersi ( ma non sono però le nostre riforme di struttura del PCI, che costituiscono la strategia indicata nella Costituzione del 1948, nella convergenza tra Dossetti e Togliatti – senza il quale va detto non ci sarebbe mai stata la nostra Costituzione cosiddetta “più bella del mondo” – per realizzare e attuare la democrazia sociale, e non già il cosiddetto “stato sociale” del cosiddetto “stato di diritto” di cui cianciano i liberali e gli ex-post e anti-comunisti e i pseudo-sinistri), mentre invece i socialisti di allora perdono il senso del nesso tra gli obbiettivi di “riforma” e l’obbiettivo del potere, l’obbiettivo del socialismo.
Il massimalismo indica l’obbiettivo socialista, ma non riesce ad individuare il processo concreto, le rivendicazioni immediate dalle quali bisogna partire, cioè quel nesso che invece è proprio l’architrave su cui si reggerà e si innesterà la crescente forza del PCI nel secondo dopoguerra – e basta già solo questo per comprendere l’irriducibilità del partito nuovo e della strategia e politica di lotta del PCI, al cosiddetto “gradualismo” riformista di socialisti e socialdemocratici.
Nel partito socialista di allora tutto il nesso, quindi, rivendicazioni immediate, riforme, obbiettivo del potere operaio, del socialismo, non viene colto da nessuna delle componenti del PSI.
In fondo,le critiche di Labriola e le ragioni del distacco di Labriola dall’attività pratica di partito sono il risultato del fatto che egli avverte questa incapacità del partito di darsi una fisionomia coerente, una serietà culturale e teorica. Non di più, perché in Labriola non c’è ancora una concezione del partito rivoluzionario in senso proprio.
Direi, però, che vi è un terreno su cui più di un altro si misura l’incapacità di dare una reale autonomia politica alla classe operaia, da parte del Partito Socialista: la mancante coscienza della questione meridionale. Non cogliere questa questione significa non avere colto la sostanza dell’egemonia borghese, del blocco di potere borghese, cioè il blocco che Gramsci chiamerà, più tardi, industriale agrario.
Trascurare, sottovalutare, non vedere questa questione, in realtà, significa incapacità di contrapporre un disegno di alleanze, la visione organica di un blocco storico alternativo, all’egemonia della borghesia, e significa quindi restare sia nelle posizioni del riformismo turatiano che nelle posizioni del massimalismo serratiano, in una posizione subalterna alla politica borghese.
Così il PSI che utilizza la nuova situazione che si crea con la politica di Giolitti, riesce, in quella fase, a realizzare determinate conquiste per i lavoratori, ma resta nel quadro della politica giolittiana. L’occupazione delle fabbriche riconfermerà questa incapacità nella maniera più eclatante.
Possiamo anche allargare il giudizio dicendo che il PSI non ha visto nemmeno la questione contadina. Ha continuato in realtà, quella che era l’incapacità del Partito d’Azione di Mazzini si fronte alla egemonia dei liberali moderati: come i mazziniani non compresero la questione della terra, cosi non la comprende il Partito socialista, non coglie cioè, questo punto nodale della rivoluzione democratico-borghese in Italia e questa contraddizione decisiva che, se viene afferrata, può mettere in crisi l’egemonia della borghesia,il suo rapporto con le masse più vaste, piccolo borghesi, delle campagne.
Cero, il PSI non capitala di fronte alla guerra imperialista come invece il partito socialista francese e il partito socialdemocratico tedesco. Non dirà: siamo prima tedeschi e poi socialisti, prima francesi e poi socialisti, non voterà i crediti di guerra a favore dei governi borghesi (aiutato in questo anche dal fatto che l’Italia non intervenne subito nella guerra).
Lenin dirà che il PSI costituisce nella seconda Internazionale “una felice eccezione” . Ma è pur vero che la sua posizione era sostanziata da una crescente sfiducia in se stessi e nella possibilità di un successo. Ne tanto meno individuò una parola d’ordine all’alternativa all’ingresso in guerra, com’è, per Lenin, in quel momento, la parola d’ordine “trasformare la guerra imperialistica in guerra civile”.
La parola d’ordine che PSI diede durante la guerra, “non aiutare e non sabotare la guerra”, non era una parola d’ordine di capitolazione e di tradimento, ma era una parola d’ordine di impotenza e senza prospettiva, che votava i lavoratori stessi all’impotenza. Era in realtà, una parola d’ordine che manteneva la classe operaia in una posizione subalterna: (La politica, la assunzione delle responsabilità nazionali, spetta alla borghesia”, e questo si continuerà a dire anche dopo la fine della guerra per non agire contro le violenze e le repressioni lasciando la responsabilità al governo e agli apparati dello stato borghese).
E’,quindi, comprensibile come nel corso della guerra si approfondisca la crisi del partito socialista.
Del resto di fronte a questo atteggiamento del PSI, dei giovani, anzi giovanissimi socialisti di allora, Gramsci e Togliatti, manifestano in qualche modo la loro inquietudine. Gramsci con un articolo in cui si parla di “neutralità attiva”. In questa posizione nebulosa e criticabile, vi è, però, la sensazione che c’è qualche cosa di passivo, di impotente nell’atteggiamento del PSI: Togliatti, in quel momento appena entrato nel Partito Socialista, se ne distaccò per qualche anno, proprio per quelle posizioni, per poi ritornare ad esso.
Durante la guerra si approfondisce la crisi.
Nel dopoguerra, noi ci troviamo di fronte a questo paradosso; mentre tutta la crisi della società italiana si fa profondissima, mentre si sviluppano con una potenza prima sconosciuta le lotte operaie, mentre si moltiplicano gli iscritti alla CGIL, al PSI, i suffragi al Partito Socialista, proprio in quel momento, diventa, più evidente la sua incapacità di guida. Ne sarà segno l’atteggiamento e del Partito e della CGIL di fronte allo “sciopero delle lancette” nell’aprile del 1920, a Torino e all’occupazione delle fabbriche poi nel settembre dello stesso anno, quando entrambe le organizzazioni seguirono essenzialmente la preoccupazione di mantenere il movimento in margini sindacali, di impedirne gli sviluppi politici e poi di chiudere la faccenda.
3. LE ORIGINI DEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA
In questo quadro si pone una questione: come agisce la Rivoluzione d’Ottobre in tutta la crisi del dopoguerra, nel movimento operaio italiano?
Non vi è dubbio che la Rivoluzione d’Ottobre ha, sulle masse lavoratrici popolari italiane, una conseguenza enorme che il Partito Socialista avverte, tant’è che nel ’19, al Congresso di Bologna, la maggioranza del Partito dichiara la sua adesione alla terza Internazionale.
La posizione più interessante è, in quel momento, quella di Gramsci, quella del giovanissimo Gramsci che, sul finire del ’17 scrive quel famoso articolo “La rivoluzione contro il Capitale”, intendendo per “Capitale” , il Capitale di Carlo Marx.
Vi sono, nei giudizi che Gramsci allora esprimeva in quell’articolo, certo, anche molti elementi di immaturità e non accettabili. Gramsci però coglie la sostanza, il fatto che la Rivoluzione d’Ottobre mette in crisi irreparabilmente, definitivamente, una concezione evolutiva e meccanicistica del marxismo, mette in crisi una falsa interpretazione del Capitale di Carlo Marx: quella interpretazione secondo la quale, sino a che non si sono pienamente sviluppate le forze produttive, e quindi il capitalismo, non si può passare alla fase successiva. E’ una concezione che sottovaluta il momento della crisi politica, dell’intervento politico, dell’azione del Partito ecc.
Io direi che è già in quel momento che Gramsci comincia ad apparire, sia pure in un modo ancora acerbo, come un socialista di tipo nuovo, che poi maturerà nel 19-20, col movimento dell’Ordine nuovo, per diventare il comunista maturo tra il 1923 e il 1926.
Nasce di qui una caratteristica che in Gramsci non si perderà mai: cioè l’attenzione al momento politico, l’attenzione al momento soggettivo, cioè al momento dell’intervento del soggetto rivoluzionario, del Partito, e quindi un’interpretazione del marxismo che si rifà ad Antonio Labriola e che respinge vigorosamente ogni deformazione di tipo meccanicistico, evolutivo, di materialismo volgare e di “economismo” (da valutare se in qualche Partito comunista sopravvivano ancora oggi elementi di questo genere, che in una visione evolutiva ed economicistica , puntano a realizzare un pieno sviluppo delle forze produttive capitalistiche perché solo cosi si arriverebbe al socialismo ….).
Si forma, nella crisi del primo dopoguerra, una sinistra del Partito socialista, che non si limita ad essere solidale con la Rivoluzione d’Ottobre, ma cerca di realizzarne nel modo più immediato la esperienza. Del resto, già durante la guerra, le posizioni di Bordiga avevano preparato, nel PSI, precocemente la formazione di una tale ala di sinistra. Direi che le reazioni fondamentali alla Rivoluzione d’Ottobre nella ala sinistra del Partito socialista, quella che subito si chiama comunista, sono sostanzialmente due: per Bordiga la Rivoluzione d’Ottobre è l’indicazione della grande crisi fatale del capitalismo alla quale bisogna prepararsi rifiutando tutto ciò che può contaminare la purezza della posizione rivoluzionaria dell’avanguardia operaia, e quindi rifiutandosi ad alleanze, ad obbiettivi intermedi, a compromessi politici, all’azione parlamentare. Il nucleo rivoluzionario deve mantenere intatta questa sua saldezza perché il meccanismo dello sviluppo è tale che la crisi del capitalismo sta per giungere.
Quello di Bordiga non è altro che un determinismo meccanicistico rovesciato, applicato a parole d’ordine estremistiche, anziché ad atteggiamenti opportunistici quali quelli dei riformisti PSI.
L’Ordine nuovo , invece, sorge da una domanda esemplare: esiste a Torino un embrione di Soviet, una velleità, una timidezza di Soviet? La risposta è sì, ci sono le Commissioni interne; questa è la realtà esistente. Il problema (che si pose anche alla fine degli ’60 ) è di allargare l’esperienza delle Commissioni Interne, rinnovarla, far scaturire dal movimento delle Commissioni interne qualche cosa di ben più ampio, di ben più rilevante politicamente: i Consigli di fabbrica, non solo come istituti unitari del movimento operaio, iscritti e non iscritti al Sindacato, ma già come istituto rivoluzionario di potere all’interno della fabbrica.
La cosa interessante, che distingue subito l‘Ordine nuovo da Bordiga, è che l’Ordine nuovo si rifà al movimento reale, e concepisce la rivoluzione come un processo, un processo che bisogna cogliere nella sua base, su cui bisogna intervenire, che bisogna sviluppare, che bisogna indirizzare a determinati obbiettivi.
La rivoluzione non è il risultato di un automatismo, è il risultato di un processo economico sociale di classe (la processualità, che sarà la cifra, nel secondo dopoguerra, della strategia del PCI da Togliatti in poi fino a quando con la “uccisione” di Berlinguer prevarranno le destre napolitaniana e cossuttiana…), di cui è decisivo l’intervento del momento cosciente, del momento unificante, della sintesi politica, anche se essa non si presenta ancora chiaramente come sintesi politica del partito.
E’ come la prova del nove del significato della posizione dell’Ordine nuovo, la polemica di Bordiga contro le posizioni degli ordinovisti.
Per Bordiga non ha senso parlare di potere in fabbrica prima che la classe operaia non abbia conquistato il potere statale.
L’Ordine nuovo si pone invece il problema di come giungere al potere statale, chiedendosi attraverso quel processo ? e per l’Ordine nuovo il processo parte dal basso, parte da quello che è il cuore della lotta di classe, dove l’operaio prende coscienza del meccanismo capitalistico di produzione, il suo funzionamento e l’organizzazione del lavoro, forma quindi la sua coscienza politica, organizza i suoi istituti di potere di base come base del potere ascendente e quindi matura la sua capacità di classe dirigente dello stato, manda avanti il processo che poi dalle fabbriche deve dilatarsi e investire tutta la società. Non è difficile cogliere una similitudine di tutto ciò, con la fase della grande crescita della democrazia sociale, del sapere operaio e della coscienza che si ebbe negli anni 68-75 quando partire dal basso e dalla fabbrica, il potere operaio e il potere sociale in generale,si sono poi estesi al territorio e alla società , creando e anche inventando istituti di potere nuovi come le USSL e della classe operaia, del sociale territoriale, non solo i Consigli di fabbrica ma, anche collegati ad essi, tutta una rete di organismi sociali collettivi come una varietà di Comitati territoriali impegnati nei vari campi economici e sociali e Consigli nel territori: dai Consigli di zona a quelli di quartiere di zona, ecc. insomma: una rete di istituti delle democrazia organizzata come istituti del potere dal basso, del potere ascendente, dal basso verso l’alto che si chiama democrazia, che, come da Art. 49.C., dal sociale territoriale deve risalire verso l’alto . A partire e tramite i Comuni, che non sono una articolazioni dello stato ma organi della Repubblica: organi del potere dal basso della Repubblica delle autonomie, in cui ciò a cui si deve guardare e che conta è la freccia direzionale che dal territorio sociale punta verso il Comune e che da questo punta verso la Provincia e da questa, che deve trasmettere le decisioni del territorio, verso la Regione che – all’opposto dell’oggi – deve proiettare le decisioni del territorio fino al Nazionale dove si concorre a determinare la politica nazionale schema che non c’entra nulla col cosiddetto decentramento che anzi è l’opposto perché come dice la stessa parola si decentra dall’alto in basso e ciò che si decentra sono le funzioni non poteri. E’ in tal modo opposto all’attuale decentramento “federalistico” dal centro alle regioni che, viceversa si attua il potere dal basso verso l’alto (cosi concepito anche dall’Ordine nuovo), che dal territorio sociale perviene e concorre a decidere le scelte economiche e sociale nazionali, secondo lo schema della programmazione democratica- sociale e dell’art. 49 che vale anche per l‘organizzazione interna dei partiti. Partiti in cui deve comandare la base , con potere dal basso verso l’alto, e non viceversa, secondo appunto la stessa concezione ordinovista e poi la concezione gramsciana del partito e dello stato. E chiaro che tutto ciò è qualcosa a cui nessun altro partito comunista è pervenuto: ne nell’URSS post leninista, ne in Cina (che dovrebbe trarre molto dalle concezioni del PCI sul potere, sul partito e sullo stato), ne in Occidente sicché non solo non deve sorprendere una rottura anche “con moltissimi partiti comunisti occidentali” (si lamenta un articolo su La città futura) ma la si deve ritenere necessaria e coerente stante l’essere il PCI diverso sia dalla socialdemocrazia che da tutti gli altri partiti comunisti (donde il ricorso a paragoni e similitudini come quelli che hanno assimilato il PCI ad una Giraffa). Questo per molti è di difficile comprensione perché secondo uno schema mentale chiuso e consolidato se non si è comunisti come altri allora si è socialdemocratici e viceversa. Il che vale la pena ricordare che Lenin sosteneva che sono le masse che nel corso del processo di lotta ed esperienze determinano le e anche inventano nuove forme di organizzazione, nuove istituzioni e forme di potere. Come in Italia, nel corso del processo di lotta le masse hanno inventato le USSL, un organismo non previsto da nessun testo giuridico borghese. Dopo di che in forza dell’ideologia giuridica borghese propria a tutti i giuristi di destra o di “sinistra”(sic), non sapendo come collocarle non essendo ne un Ente ne una Azienda, per poterle collocare nello schema ideologico prefissato le hanno trasformate in un Ente in alcune regioni, e in Aziende in altre. Similmente sembra accadere al PCI, che essendo diverso non potendo assimilarlo ad altri PC allora lo si classifica come socialdemocrazia.
4. L’ispirazione ordinovista del Partito come parte della classe operaia e non sovrapposto ad essa e di un Partito e uno Stato non dominanti sopra la società, fondati sui poteri dal basso della base e del sociale, che continuerà ad operare nel profondo con Togliatti, Longo e Berlinguer.
Prima di considerare e di chiederci quale fosse la posizione dell’Ordine nuovo verso il partito socialista nel ’19, se la posizione fosse quella di chi vuole rigenerare il Partito socialista, attraverso un movimento che parta dal basso, che porti a un nuovo livello la coscienza di classe del proletariato, formando nei Consigli di fabbrica una serie di quadri nuovi del movimento operaio, insomma se volesse rigenerare oppure semplicemente buttarsi al di là, scavalcare, rompere il Partito Socialista, a me pare che preliminarmente, anche per comprendere gli sviluppi futuri che si avranno col PCI di Togliatti, come ad es. il rapporto tra democrazia e socialismo, anche in base alla peculiarità dell’analisi togliattiana sul fascismo e la riflessione critica sulla sconfitta in Italia e in Germania, da cui muoverà Gramsci per la sua idea della Costituente e Togliatti per partecipare alla correzione dell’errore sul social-fascismo e da qui la rivalorizzazione dell’idea di “rivoluzione democratica”, si deve andare all’ispirazione originaria, al momento della formazione di quel gruppo di giovani intellettuali e operai dell’Ordine Nuovo.
Cosa questa, da tenere sempre presente anche per il futuro, perché riguarda quella che in futuro sarà la diversità della concezione del Partito comunista italiano rispetto a quella di tutti gli altri partiti comunisti del mondo, compresi quelli dell’Est Europa e della Cina; diversità che ha consentito al PCI di essere l’unico partito comunista, in Europa e nel mondo, non solo di partecipare ma di essere principale protagonisti della fondazione della democrazia e della Repubblica e della Costituzione, in quanto partito della classe operaia promotore del processo che, dagli scioperi del marzo 43 alla Costituzione, va sotto il nome di fase costituente.
Occorre cioè tenere presente che ai giovani dell’Ordine Nuovo, la grande rivoluzione socialista d’Ottobre, è apparsa primariamente sotto il segno dei Soviet, dei Consigli dei soldati e degli operaio e dei contadini poveri: è solo in un secondo tempo, che si svilupperà il tema della egemonia del Partito, della funzione non solo determinante, ma dominate dell’avanguardia che si ritiene consapevole, del partito che si sostituisce alla classe e che, sopratutto con Stalin, si verrà ristabilendo il ruolo di una rinata differenza tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti . Epperò va detto che tra questi due momenti non vi è stata unicamente continuità o rotture, ma un intreccio.
Le difficoltà e il relativamente rapido tramonto dei Soviet in quanto organismi di direzione effettiva non ha significato la loro nullificazione totale e la loro scomparsa dall’orizzonte teorico. Cosi come la funzione determinante del Partito non acquisterà immediatamente – neppure nell’Unione sovietica – il significato di un dominio sopra la società. Nella battaglia ordinovista per i Consigli, nelle prime teorizzazioni sul governo dei produttori, ma anche nell’idea del Partito come parte della classe e non come corpo a se stante che ad essa si sovrapponga, vi è una ispirazione che continuerà ad operare nel profondo, che continuerà a riemergere e a differenziare profondamente il PCI sia da tutti i partiti comunisti del mondo, sia dalla socialdemocrazia e dai partiti socialisti.
Una ispirazione che, ad es., riemerse nel rapporto di Togliatti al Comintern a proposito della situazione che trova nella Spagna Repubblicana del 37-39 e del pericolo che egli vede nella fragilità della vita democratica spagnola.
“La cosa che più salta agli occhi è l’assenza di quelle forme democratiche che permettono alle vaste masse di partecipare alla vita del Paese …il Parlamento non rappresenta quasi nessuno …I consigli municipali sono stati eletti dall’alto, dai governatori che distribuiscono i posti fra i vari partiti …I comitati di fronte popolare (quanto di più simile ai Soviet, n.d.r.) che erano stati creati ovunque e avevano assunto funzioni governative, poi dovettero passare questa attività ai consigli comunali (eletti dall’alto, n.d.r.). Da allora i comitati di fronte popolare hanno cessato di esistere … Nei sindacati, che sono divenuti una potente organizzazione economica, c’è pochissima democrazia …i Partiti politici svolgono un’attività politica molto debole fra i loro iscritti …La vita politica del Paese si svolge al di fuori del controllo delle masse. Le questioni politiche sono decise in sedute, discussioni, macchinazioni, nella lotta tra i differenti “comitati” dei partiti e dei sindacati”
Vi è qui una sintesi più chiara e indicativa di ogni affermazione teorica intorno alla riflessione che Togliatti è venuto compiendo non solo intorno alle cause della debolezza del fronte popolare spagnolo, ma dei motivi di fondo della sconfitta che anche in Italia tanti anni prima vi era stata. Insomma, come era nell’ispirazione ordinovista, anticipando concetti che porterà nell’Assemblea Costituente e nella Costituzione, la democrazia ha da essere per Togliatti l’esistenza di istituzioni effettivamente rappresentative e di partecipazione di massa, attraverso un articolato tessuto organizzato, attraverso i Partiti e un PCI come parte della classe operaia che non si sovrappone ad essa. E i cardini su cui si è eretta e retta la Repubblica italiana sono stati appunto quelli che Togliatti ha pensato come determinanti: a partire dai partiti come forma di organizzazione della democrazia, il patto antifascista anche dopo la sua rottura, il compromesso istituzionale tra le grandi componenti di ispirazione marxista,socialista e comunista, e di ispirazione solidaristica cristiana. E se non ci si fa raggirare dalle distorte letture letture del cosiddetto “compromesso storico” (formula che, viste le distorsioni, fu quasi subito ripudiata da Berlinguer ), fatte congiuntamente dalla destra PCI e della stampa borghese (che l’hanno persino degradato a “formula di governo” …), è a tale togliattiano “compromesso istituzionale” fondativo della democrazia e della Costituzione ciò a cui si è rifatto Berlinguer nel 1973, in forza di una riflessione approfondita e di ampio raggio anche storico sulla democrazia italiana, indotta anche dal golpe cileno. Ovvero, in concreto, per rilanciare la strategia delle riforme sociali per attuare la democrazia sociale prefigurata dalla Costituzione del 1948, nella convergenza politico-culturale di Dossetti e Togliatti per la programmazione democratica e il controllo sociale dell’economia, dal cui abbandono – ha ben visto con anticipo Berlinguer – derivava quella corruzione dei compiti dei partiti, cioè dei partiti “veri”, divenuta poi, conseguentemente anche corruzione gestionale penalmente perseguibile.
Solo chi da una lettura puramente “politicista” e “governativista” del costituzionale compromesso rilanciato da Berlinguer, ignora l’abbandono di tale strategia è derivato dalla gravemente contraddittoria idea che per respingere l’atomismo dei singoli, il corporativismo sociale e il plebiscitarismo politico (populistico anch’esso) fosse sufficiente quello a cui si opponeva Berlinguer già nel ’73 e ancor più con e dopo il fortemente anticapitalistica svolta del ’79: cioè affidare ai partiti il compito di un indirizzo politico di responsabilizzazione e di integrazione nel sistema, con l’obbiettivo di ridurre la conflittualità, anche a rischio di evocare un cosiddetto “fascismo pulito”. Ed è proprio contro il rischio una integrazione nel sistema (a cui portava la destra interna ) e per mantenere alta la conflittualità altissima e senza eguali in alcuna altra parte d’Europa e del mondo, che nel 1973 Berlinguer si è mosso.
Chi considera e ha scritto che con Berlinguer sia iniziato “il percorso verso la socialdemocratizzazione e dunque lo snaturamento del PCI” e la sua fine col Pds, da una lato sottovaluta il rischio di uno sbocco di tipo autoritario nonostante o proprio perché la lotta e la classe operaia era talmente forte e per la prima volta nella storia talmente unita dalla marxiana teoria della prassi comunista del PCI, da non solo spaventare la borghesia (si ipotizzò persino l’abbandono della Fiat da parte di Agnelli coautore dell’autoritario Piano Trilateral del 1973 – stesso anno del “compromesso” di Berlinguer – di “limitazione della democrazia”, cioè del suo superamento tout court), ma da indurla a sovvertire la Costituzione e la democrazia agendo sia sul piano parlamentare, con una c.d. “grande riforma” istituzionale, sia sul piano occulto: ci si dimentica che il Piano P2 è del 1975 fatto, come spiegò Gelli “perché i comunisti stanno vincendo con la democrazia” : prospettiva nefasta sia per l’America e i filo americani sia per i “sovietici” e i filo sovietici. Donde le convergenze affatto parallele tra loro e contro il PCI e Berlinguer considerato da Kissinger “il comunista più pericoloso del mondo”: concetto pubblicamente ribadito dal nuovo ambasciatore USA con intervista sul Corsera appena arrivato in Italia 6 mesi prima del rapimento Moro. Dall’altra sottovalutano gravemente la valenza e la portata rivoluzionaria della svolta del ’79 di cui è solo un’espressione l’immagine di Berlinguer ai cancelli della Fiat: cioè in un momento in cui non è affatto vero quanto scritto in modo deterministico, che la “mutazione genetica” fosse in una fase avanzata tale da rendere più che scontata “sancita” la prevalenza delle destre napolitaniana e cossuttiana e del craxismo interno ed esterno al PCI: quando, viceversa, senza l’intervenuta “uccisione” di Berlinguer si sarebbe alla fine arrivati ad altra soluzione, compresa la scissione o espulsione della destra napolitaniana dal PCI di Berlinguer. Di certo con la svolta del 79 si accentua una lotta di massa dentro e fuori il PCI contro il craxismo e la destra filocraxiana e quella filosovietica interne al PCI, entrambe da quel momento impegnate non solo a criticare ma a “massacrare” (letteralmente) Berlinguer anche sul piano personale, fino alla sua “morte”.
BERLINGUER E LA POLITICA DI RILANCIO DEL TOGLIATTIANO COMPORMESSO COSTITUZIONALE.
Berlinguer colse nel ’73, la necessità di riprendere il discorso interrotto e il patto costituzionale tra i grandi partiti di massa, con cui il sistema sociale e politico era stato avviato ad un processo di democratizzazione e socializzazione, che nel solco della gramsciana concezione processuale, andavano ripresi per prevenire e curare l’avviata degenerazione dei partiti che consisteva nell’abbandono delle motivazioni ideali e programmatiche (un leitmotiv di Berlinguer) che sono state sia all’origine della storia dei partiti – prima socialista e cattolico, poi anche comunista – sia allo svolgersi della loro dialettica, per rispondere ai problemi aperti, in Italia e in Europa, della “questione sociale”. Berlinguer colse tale degenerazione dei partiti , successivamente denunciata non come moralista “questione morale”, bensì come “occupazione dello stato” da parte dei partiti contro le cui prevaricazioni si è formulata la suggestione, già allora di tipo “populista, circa la necessità di rafforzare le istituzioni di vertice dello stato. Ora che questo trova gli intellettuali accademici – ora di parte non solo “borghese” ma anche “comunista” – disponibili a condividere idee forza della “gerarchia” tra le forze sociali, dell’economicità nell’uso delle risorse, della efficienza nell’organizzazione privata e pubblica, della governabilità delle istituzioni politico- amministrative.
Idee forza molte delle quali si riconoscono nelle stesse forme della “governabilità” del brezneviano statalismo gerarchico sovietico, di fronte del quale era quanto meno inevitabile da parte di Berlinguer, fare un’opera di verità, annotando ciò che era scontato da tempo, ossia l’avvenuto “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre” : asserire che “sia da questo momento che inizia il percorso verso la socialdemocratizzazione – e dunque lo snaturamento – del Pci”,
ci sembra apparentemente incomprensibile.
A meno che si voglia deviare l’attenzione dalla crisi del c.d. “socialismo reale” e quindi, l’obbligo che ne derivava ai comunisti di arricchire la critica anticapitalistica: l’asserzione sulla fine della spinta propulsiva è infatti stata accompagnata da un rilancio di una critica e una lotta senza precedenti contro il capitalismo e l’imperialismo. Se in proposito si parla di snaturamento significa che occorre ancora superare analisi distorte che rinunziano – talora in nome di un marxismo “puro”, che limita la questione dei rapporti diretti tra capitale e lavoro i termini reali della questione sociale – a cogliere la dialettica complessiva che esiste tra problemi della democrazia politica e della democrazia economica e sociale, stante l’intima coerenza che – nella separazione “costruita” dalla cultura borghese tra le questioni dello stato, le questioni dell’economia e le questioni dello stato sociale – esiste tra l’ideologia del potere dell’impresa capitalistica multinazionale, e l’ideologia del potere dei vertici internazionali e nazionali delle istituzioni politiche e burocratiche. Sembra quindi che sia in forza di tali analisi distorte, di un marxismo che limita la dialettica di classe solo ai rapporti diretti tra capitale e lavoro, ignorando quelli più complessivi del rapporto della struttura con la sovrastruttura, cosi che si finisce per intendere come “snaturamento socialdemocratico” (sic) l’arricchimento della analisi critica e il rilancio della lotta anticapitalistica anche sul terreno istituzionale, per la democrazia sociale, certo molto diverso da quello dello stato sovietico e o Cinese.
Forse per quel che si rivela anche in questa occasione è quello che specie gli intellettuali comunisti, interni o esterni al PCI hanno perseguito nel tempo: la doppia verità. Questa e la questione delle questioni, che ha finito con alimentare la polemica sulla “doppiezza” interessante mente distorta dalle forze culturali e politiche anticomuniste, che definivano “doppiezza” la necessaria dialettica tra la società e le istituzioni, tra la lotta sul piano sociale e la lotta sul piano politico e istituzionale quale era appunto condotta sui due piani dal PCI.
LA QUESTIONE DELLE QUESTIONI DELLA DOPIA VERITA’
La questione delle questioni è invece quella della doppia verità che intellettuali comunisti e gli ad essi coevi “gruppi dirigenti” di partito (nel PCI i c.d. “filosovietici”, come nel PCUS e nel PC cinese), hanno alimentato intorno alla critica del capitalismo e alla critica del socialismo (tacendo delle forme autoritarie assunte dallo stato capitalistico …). Sicché all’interno del partito comunista, in URSS come in Cina, ed entro una parte del PCI, hanno prevalso forme e posizioni di neo assolutismo, esattamente contrarie a quelle per cui ci si batte per democratizzare l’organizzazione della società e dello stato. Ma mentre l’impegno quotidiano della lotta sociale e politica per attuare la costituzione ha finito per “invadere” l’organizzazione di base del PCI con la pulizia mentale dei militanti – donde le contraddizioni introdotte dal 68 studentesco ed operaio, mal sopportato dall’ala destra del PCI – al contrario sul terreno dei paesi dell’Est e sopratutto dell’URSS e ora della Cina (con cui sembra si stia ripetendo verso il post-maoista PC cinese la doppiezza e gli errori commessi verso il PCUS) il rovesciamento dei principi è stata ed è tale da provocare una doppiezza (dispiace che i compagni e amici di “La Città futura”, si prestino a questo qualificando come “snaturamento” il dire la verità rispetto l’URSS anche nella fase del breznevismo, ma anche partecipando a filo-sovietica-cossuttiana e ad un sedicente “segretario del PCI”, a celebrazioni acritiche di circoli filo-cinesi assieme a fautori della doppia verità già rispetto all’URSS e oggi rispetta ad una Cina che si configura con un Partito e uno Stato del tutto opposti alla nostra elaborazione e a quella marxiana di Gramsci e Togliatti, oltre che della nostra Costituzione) . Una doppiezza catastrofica nella capacità di analisi dei sistemi costruiti e realizzati in tali Paesi e dopo le rivoluzioni, tale da aver facilitato letture approssimative sulle cause del “crollo” dell’URSS, inducendo all’abbandono e alla rimozione di quelle esperienze dopo tanta enfasi e genuflessione (che ci pare oggi rivolta alla Cina post-maoista), piuttosto che una ricerca che è essenziale per capire come mai oggi si lascia concludere che il “comunismo è morto”, sia per capire come mai si sia parlato di “rifondare” o di “rinnovamento” della prospettiva” comunista.
Ciò è tanto più grave se tra tali ambienti di ieri e quelli di oggi che si incontrano “per una riflessione sul socialismo con caratteristiche del socialismo cinese” , rientrano anche quelli di ispirazione marxista e a militanza comunista (oltre quelli di tradizione filo-sovietica-cossuttiana e di un sedicente “segretario del PCI”) , e segnatamente il “ceto” degli intellettuali e di coloro che esitano ad ammettere l‘essenzialità teorica della questione dello stato – letta riduttivamente come questione “formale” e “giuridica” anziché come parte integrante della questione reale del socialismo : cosi che poi si fanno trascinare in modo silente dal collasso del PCUS e dello stato sovietico o in modo acritico rispetto al neo assolutismo dello stato e del partito cinesi per altro a base strutturale capitalistica, del tutto l’opposto di tutto quella democratizzazione e socializzazione e organizzazione del potere dal basso che dall’Ordine nuovo al partito nuovo, da Gramsci a Togliatti e cosi via, segna e caratterizza la lotta per il socialismo in Italia, mirante a trasformazioni radicali anche rispetto allo stato autoritario proprio della tradizione borghese e dell’istituto fondante del capitalismo, cioè la proprietà privata che in quanto tale fonda il capitalismo e non si può dire, con la consueta doppiezza, che essa fonda il “socialismo” (con qualsivoglia caratteristiche).
“SOCIALISMO REALE”, “SOCIALISMO CINESE” e “CASO ITALIANO”
Il nodo, pertanto, riguarda sia nell’analisi del paesi del “socialismo reale” e oggi stesso del “socialismo” cinese sia nell’analisi del caso italiano, il fondamento della critica alla proprietà e all’impresa, sia privata che statale: la statalizzazione non determina una socializzazione dei mezzi di produzione, tanto che lo statalismo è stato anche del fascismo. La critica alla proprietà e all’impresa sia privata che statale, è per le ragioni che richiedono una critica differenziale tra un regime sociale e un regime statale della formazione statale del socialismo, allo scopo di costruire sulle basi della teoria marxista dei rapporti di classe e dello stato l’ipotesi di un regime di transizione che mantenga la prospettiva del comunismo in quanto sistema di principi mai storicamente realizzati in nessuna parte e Paese del mondo. Un regime di transizione, cioè, che si deve specificare alla luce di tutte le forme di esperienza, compresa quella italiana ovunque tralasciata e scordata – dall’URSS alla Cina, a Cuba, ecc. – per specificare le qualità formali e sostanziali di tutte le esperienze, in base al primato dei valori dell’autogoverno dei popoli e dell’autogestione sociale delle classi, secondo PRINCIPI di democrazia politica, economica e sociale che mirino al controllo della proprietà e dell’impresa, in una visione antigerarchica di ogni rapporto sociale e quindi sia in fabbrica che nello stato. Visione antigerarchica che non si riscontra realizzata in nessuna delle esperienze di “socialismo” orientale o occidentale, tutte improntate sul primato del potere dall’alto, e su un forte potere gerarchico sia in fabbrica che nello stato.
Donde che dichiarare la “fine della spinta propulsiva delle rivoluzione d’Ottobre” non solo non ha dato inizio ad alcun snaturamento ma semmai ha avviato l’assunzione rinnovata posizione volta ad un rilancio dei principi di ispirazione marxista e ordinovista per realizzare la democrazia nei luoghi di lavoro e nella divisione del lavoro e, quindi, contro una concezione “manageriale” delle imprese e nelle istituzioni messa in atto nei sopra nominati paesi “socialisti”. Ha dato inizio ad un rilancio – anche contro le avveratesi future abiure – proprio del marxismo e dell’esperienza italiana, a partire dalla messa in discussione delle cause decisive del prevalere della gerarchizzazione nella società e nello stato, quali la nozione o pseduo-nozione di “gruppo dirigente”, che si configura come dato ideologico equivalente a quello denunciato da Gramsci rispetto il fascismo, con riguardo allo stato proprio della cultura borghese, col ruolo di intellettuali “tradizionali” e “accademici”, e dei governanti annidati tutti negli apparati di partito, di sindacato, delle imprese private e di stato, nelle pubbliche amministrazioni, che contribuisco a realizzare una subalternità delle forze sociali tanto più alienate e sfruttate con le nuove tecniche sofisticate della cosiddetta “democrazia informatizzata”.
Quella che (su La Città futura) è stata classificata come snaturamento in realtà era un’azione volta a superare la doppia verità di intellettuali e gruppi dirigenti, per realizzare un rilancio coerente e su nuove basi della critica e della lotta contro il capitalismo e le sue forme di potere dello stato e dell’impresa.
PER NON ESSERE PECORE NELLE MANI DI QUALCHE UOMO
DELLA PROVVIDENZA
Un rilancio indispensabile. Per non rischiare di essere pecore nelle mani di qualche uomo della provvidenza (come accadrebbe oggi con un eventuale governo Draghi, già coautore della stangata economica e del golpe tecnico contro il Parlamento col governo Amato del ’92), e dopo che aver subito dalla destra sindacale e comunista di Lama la c.d. “svolta dell’EUR” (attribuirla a Berlinguer significa non sapere che in tutta quella fase e anche dopo era in minoranza nella segreteria e nella direzione …), occorreva attivarsi come con la svolta del ’79, che sotto il profilo dei rapporti tra struttura e sovrastruttura portava e rilanciava il convincimento che si trattava di ampliare la democrazia, riformando radicalmente i partiti non la Costituzione che, invece, anche sul punto dei partiti come “libera associazione dei cittadini” che devono a loro garantire di “concorrere” dal territorio “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, deve essere attuata e rilanciata. Questo anche per poter attuare ovvero anticipare all’interno dei partiti le forme di un nuovo diritto e di un potere nuovo e antigerarchico dello Stato, coerente, in modo sostanziale e non solo formale, con la sovranità popolare. Donde che è fondamentale imparare e sapere – e insegnare ai partiti comunisti al potere – che la teoria del Partito di Gramsci è teoria marxista dello stato, incompatibili con la forma partito e la forma stato prevalse in URSS e attualmente in Cina.
Quello che si tende a fare attribuendo ad una presunta “mutazione genetica” del PCI sulla base di alcune dichiarazioni e alla politica svolta dal ’73 da Berlinguer, è una personalizzazione che non sa considerare che il segretario del PCI era sotto attacco continuo all’interno del gruppo dirigente: tanto che, poi, la svolta del ’79 la dovette realizzare col sostegno diretto delle base, nei congressi del ’79 e del ’83 (dove Berlinguer aveva contro anche Ingrao proprio mentre stava dando attuazione a quanto Ingrao aveva solo enunciato in “Masse e potere”), nelle sezioni e nelle fabbriche. Avendo però contro la maggioranza del gruppo dirigente del partito e dalle CGIL del Lama dell’Euro (che in un libro lamentò che Berlinguer desse più retta alla base che a Lui …). Ecco dunque che risolversi ad attribuire a Berlinguer e ai suoi presunti cedimenti, i prodromi, la causa originaria di quello che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, significa sia ignorare, tacere e quindi “assolvere” quella che è stata pianificata da forze internazionali e interne, occulte e quelle palesi anche interne al PCI, come la “soluzione finale della questione comunista in Italia”; sia trascurare il problema di fondo che si poneva da prima di allora e che si pone ancora oggi. Perché coloro che in modo deterministico risolve le questione trattando Berlinguer come la “causa” di tutto, come se la Reichlinlotta non fosse pienamente in corso dopo la svolta del ’79, proprio come facevano, persino insultandolo, le destre napolitaniane e cossuttiane (e dopo la sua morte i prezzolati ex ingraiani o ex manifesto, quali, ad es., Reichlin, Castellina e la loro prole), di fatto costoro ignorano almeno due problemi fondamentali: degli intellettuali di cui si tacciono le responsabilità, da un lato; e del partito e del potere, dall’altro. Tale insufficienza non riguarda i limiti della teoria marxista della politica, dello stato e del diritto – ad onta di chi si rifà alla cultura liberalsocialista di Bobbio – , ma attiene al persistere di una contraddizione “organizzata” tra una teorizzazione che è valsa ad armare masse estese di militanti sopratutto in Europa occidentale _ ma assai poco in Europa orientale – e una prassi che è stata ed è smentita sopratutto dagli intellettuali – che poi segna anche i gruppi dirigenti – che vengono classificati come “organici” solo per una questione di soggettiva collocazione e che in tale ruolo elaborano interpretazioni idonee a rafforzare i “governanti” contro i “governati”, stante che loro stessi sono parte dei primi.
Conseguenza deleteria di tale stato di cose e che sempre più assume rilievo in una analisi marxista, è il giudizio critico del ruolo svolto dagli intellettuali comunisti (specie dopo Berlinguer) e dai “gruppi dirigenti” (craxiani e filo-craxiani interni ed esterni al PCI) ad essi collegati, che trova acconce le categorie di analisi con cui Gramsci ebbe a qualificare i rapporti tra la borghesia e il fascismo, stante l’indubbio carattere di classe e degli intellettuali menzionati e dei gruppi dirigenti abiuranti interni al PCI, che hanno conclamato una inesistente “sconfitta operaia”, per coprire la reale sconfitta delle loro strategia che sostenevano in contrasto violento contro un Berlinguer che era proteso a rilanciare , nel fuoco di una un’estesa, capillare battaglia economico-sociale, una battaglia ideale, una “rivoluzione culturale” volta a ripristinare un nesso tra teoria e prassi, contro i soggetti dell’accoppiata intellettuali-gruppi dirigenti abiuranti che, dalla svolta di Berlinguer nel ’79 e dopo la sua morte, hanno scelto di contrapporsi all’autonomia delle forze sociali e dei governati, provocando ulteriormente il logoramento delle masse, abituatesi a loro volta, sempre di più e in progressione, a non usare gli strumenti delle democrazia sul terreno economico-sociale, constato che anche quelli della democrazia politica “interna” (cioè di partiti e sindacato) e quelli della democrazia politica “nazionale” (europea, statale,, regionale e locale), hanno perso sempre più valore. Problemi, quindi, ben più complessi del semplicemente attribuire “colpa” al tentativo berlingueriano di rilanciare il compromesso costituzionale sia per garantire il quadro democratico in cui continuare la lotta di classe, sia per perseguire obbiettivi di teoria e prassi per una “transizione al socialismo”. Perseguendo tale obbiettivo, anche tramite quegli “spezzoni” di riforme o “elementi di socialismo” conseguiti proprio negli anni della conduzione berlingueriana, dove l’opposizione delle destre neo-liberiste interne ed esterne, ha portato a realizzare degli “spezzoni” che testimoniano una conquista espressiva sia della durezza della lotta che dei contrasti con cui ci si doveva misurare su due fronti e di cui non si tiene conto. Tacere o sottovalutare che con Berlinguer si aveva a che fare anche con gli avversari, che era in corso uno scontro durissimo esterno e interno al PCI, una lotta con forti forze anticomuniste, rende difficilmente comprensibile come si sia univocamente parlato di “riforma della società e dello stato” in attuazione della Costituzione con crescente intensità negli 60-70 proprio con Berlinguer, mentre poi negli anni 90 e dopo Berlinguer, si siano invece invocate più genericamente delle “riforme” – costituzionali e non – all’insegna di una transizione ad una “seconda repubblica” segnata dalla loggia massonica P2.
Insomma se si riduce tutto ad una presunta “deriva” del PCI dal ’73 in poi, si finisce in un appiattimento storico, anzi in una fine della storia in cui tutto ciò che avviene dopo il 73 non conta più nulla o è deterministicamente scontato.
Attribuendo con soggettivismo e con determinismo gli esisti della fine del PCI alla fase precedente la svolta del ’79 di Berlinguer, ci si rifugia in giudizi sommari senza condannare le deviazioni e il soggettivismo di intellettuali e “pezzi” di gruppi dirigenti veri responsabili, senza indicare nessuna traccia necessaria per argomentare ciò che è avvenuto nel duro e lungo scontro interno al gruppo dirigente, mentre per capirlo e discernere appare indispensabile istituire uno stretto collegamento tra i problemi teorici riguardanti il potere: nel partito e nei movimenti di massa in generale; nell’organizzazione della società, con particolare riguardo ai rapporti economici, nell’organizzazione dello stato, nelle sue varie articolazioni centrali e territoriali.
Donde che è importante capire come spesso non accade, ribadiamo, che la teoria del partito, di Gramsci, è teoria marxista dello stato e del diritto.
Infatti in una corretta analisi marxista risulta che esiste una stretta interrelazione tra i problemi di democrazia da risolvere nel partito, nell’economia e nello stato, mentre nella tradizione dei gruppi dirigenti comunisti, la questione del partito è posta come terminale di una analisi sociale e politica, che viceversa richiede di essere posta come premessa che assicuri come il soggetto della rivoluzione democratica, abbia predisposto le condizioni “interne” della sua asserita disponibilità a passare da una fase di capitalismo maturo ad una fase di transizione al socialismo, a cui corrispondano forme reali di trasformazioni dello stato, trasformazione delle “casematte” del potere borghese-capitalistico che, in termini normativi ed istituzionali, nelle forme dello stato e del diritto borghese, si riassumono nelle garanzie fornite agli istituti economici e giuridici della proprietà e dell’impresa capitalistica, quali vengono fornite anche nella Cina attuale. Questo avviene nella mancanza di considerazione e a dispetto dei Principi innovatori della nostra Costituzione di democrazia sociale nata dalla Resistenza, ma mai nemmeno presi in considerazione da nessuna delle rivoluzioni attuate in Oriente e in Occidente, tutte sostanzialmente rivolte a riprodurre il presidenzialismo, forma del potere autoritario borghese, sia nello stato che dentro il partito. Invece di un potere non più dei vertici e non più fondato sulla ossessione del controllo e del primato dell’organizzazione burocratica degli apparati di partito sulla base e degli apparati di stato sulla società, ma un potere fondato sul primato della organizzazione della democrazia di base, cioè sociale, per altro fondativa dello “stato di democrazia sociale” quale è quello definito dalla nostra Costituzione.
Quello che intendo sottolineare con tutto ciò, è la necessita – che non troviamo negli articoli celebrativi dei 100 anni del PCI – di riflettere sul perché la critica ad una politica che era il prodotto del gruppo dirigente del PCI e della sua lotta interna, è stata soggettivizzata e caricata in capo solo al segretario del PCI, cosa dovuta ad un “centralismo democratico” su cui si dovrebbe riflettere su quali modifiche apportare.
L’importanza, la valenza e la portata di ciò che Berlinguer ha proposto in modo coerente nel ’73 e nel ’79, col togliattiano “compromesso istituzionale”, si misurano bene alla luce di quanto avvenuto nel dopo Berlinguer e avviene oggi.
Si intende che, nel ’73 come nella svolta del ’79, non si può pensare che nel togliattiano Berlinguer ci fosse una estraniazione da una processualità tipicamente marxiana e comunista in cui, mutatis mutandis, si collocano l’opera iniziata con la svolta di Salerno e le idee animatrici del rinnovamento costituzionale, che non sono e non rappresentano mai – ne sarebbe in alcun modo possibile – una illuminazione improvvisa di breve momento.
Ognuna delle svolte si collocano in un disegno che viene da lontano, ispirato dalla longevità della riflessione ordinovista e da quella sulla storia d’Italia, cioè sulla storia reale di un paese che fu sconfitto dal fascismo e distrutto dalla guerra, un Paese, l’Italia, che come disse Togliatti “ha bisogno non di ‘ricostruire’ una democrazia ma di ‘fondarla’”, per la prima volta nella sua storia.
Per ciò s’intende bene perché Togliatti al X Congresso del 1962, rivendicherà le lontane radici della “via nazionale”, ricordando – cosa in lui assai rara – propri lontani scritti e discorsi che fin dal 1944 disegnano un cammino di lotta per il socialismo in Italia, del tutto diversa da quella seguita in Russia e in Cina. E’ la risposta proprio a chi dentro e fuori il Partito sostiene la tesi di una conversione o di una sorta di mutamento genetico e repentino – come quello che mutatis mutandis si tende ad attribuire a Berlinguer – rispetto ad un corso che sarebbe stato tutto ispirato al modello sovietico.
Sulla scia del pensiero gramsciano, al X congresso del PCI, con molta chiarezza Togliatti affermava:
“L’avanzata verso il socialismo … nei paesi a capitalismo sviluppato non è compito facile, perché … si deve compiere in condizioni diverse da ciò che è avvenuto in paesi la cui economia era ancora prevalentemente agricola e la cui struttura politica ignorava, spesso, le istituzioni democratiche. Sono necessarie quindi una ricerca e una linea d’azione che comportano non soltanto una applicazione ma uno sviluppo, un arricchimento della nostra dottrina”
La critica ordinovista dell’economicismo proprio della seconda Internazionale e della socialdemocrazia ma anche, ancor oggi, di partiti comunisti al potere, è stata mantenuta senza interruzioni. Ad es., parlando al Comitato centrale del 25-27 febbraio 1963, Togliatti ha sottolineato l’emergere, nel cuore stesso della società di domande che andavano oltre lo sviluppo economico e sociale e poneva esigenze “di un nuovo tipo, di nuova qualità, di nuovo contenuto”: e l’orizzonte teorico della battaglia ordinovista tornava ad emergere nel tema di una nuova qualità dello sviluppo, svolto dal segretario del PCI nel famoso discorso di Bergamo, Il destino dell’uomo.
In quel discorso più che mai sembra profilarsi il grande orizzonte ordinovista con l’aggiornamento di un confronto e incontro col mondo cattolico non più soltanto per un impegno comune per la difesa e il consolidamento della democrazia, ma il tema era la lotta contro una “artificiale uniformità”, per l’affermazione della “libertà di scelta e di sviluppo”. Era la denuncia della “solitudine dell’uomo, che anche quando può disporre di tutti i beni della terra pure non riesce più a comunicare con gli altri uomini, si sente chiuso in un carcere dal quale non può uscire”.
E quindi l’immagine del socialismo che Togliatti prospettava come obbiettivo per il superamento di tale situazione era ben lontana dalle società di c.d. “socialismo reale”, ma richiamava piuttosto la grande utopia marxiana della società comunista, maturata già nell’esperienza ordinovista. L’immagine di una società in cui “l’uomo non è più solo, e l’umanità diventa davvero una vivente unità, attraverso il molteplice sviluppo delle persone di tutti gli uomini e la loro continua organica partecipazione a un opera comune”.
Era una espressione più avanzata della riflessione di Togliatti sui problemi di una trasformazione nella direzione del socialismo dei paesi dell’Occidente più sviluppato: vale a dire, con una formulazione tipica del movimento operaio di derivazione marxiana, “nei punti più alti del sistema”, quale era anche nelle aspirazioni e promozione teorica, politica e culturale dell’Ordine Nuovo e poi della elaborazione dei Quaderni di Gramsci.
5. A questo punto possiamo riprendere la domanda di quale era, ad esempio, la posizione dell’Ordine nuovo nel 1919 rispetto al Partito socialista. Non era ancora, ci pare, la posizione di chi vuole rompere: e questa sarà una delle ragioni per cui il Partito nascerà sotto l’egemonia di Bordiga.
La posizione dell’Ordine era quella di vuole rigenerare il Partito socialista, attraverso un movimento che parta dal basso, portando ad un livello più elevato la coscienza di classe del proletariato tramite i Consigli di fabbrica come matrice formatrice di una serie di quadri nuovi del movimento operaio. Insomma si vuole rigenerare e non semplicemente buttarsi al di là, scavalcare, rompere il Partito Socialista.
Su quale sia la posizione dell’Ordine nuovo rispetto al PSI, la scelta di rompere va chiarendosi sempre più nel 1920, e sopratutto, dopo l’occupazione delle fabbriche, quando la sconfitta del movimento operaio nell’occupazione delle fabbriche mostra, da un lato, i limiti del movimento dei Consigli di fabbrica, privo di sostegno politico, e dall’altra parte rende clamorosa l’incapacità, l’inconsistenza di direzione del Partito socialista.
E allora che si si pone più chiaramente il problema del partito e il movimento dei consigli appara come la base della costruzione di un nuovo partito rivoluzionario. E’ di questo momento, settembre-ottobre, 1920, la critica di Gramsci al Partito Socialista come un conglomerato di partiti che non riesce a darsi unità, disciplina, coerenza d’azione, che segue il movimento delle masse invece di guidarlo, che è educato dalle masse ma non da un contributo per essere anche lui educatore, che non ha coesione di teoria rivoluzionaria e di strategie, e quindi capacità vera di collegarsi alle direttive della terza Internazionale.
Qui si può forse dire che Gramsci si avvicina alla concezione leninista del Partito, si avvicina alla concezione del Partito come superamento della spontaneità, come la conquista della coscienza, come forma di unificazione, su base critica, del movimento delle masse.
L’altro problema o interrogativo che sorge è: fino a che punto fu presente nel ’19-’20, nel movimento dell’Ordine nuovo, una precisa coscienza del problema del Partito e di cosa deve essere il partito rivoluzionario?
E’ certo che gli uomini dell’Ordine nuovo si sono sempre fatti, direi, una autocritica, cioè l’autocritica per avere lavorato soltanto su sede locale, soltanto a Torino, in Piemonte, senza essersi preoccupati di una azione di frazione nel Partito socialista. Del resto, essi ripugnavano dal frazionismo a tutte le beghe interne, alle manovre di correnti che erano all’ordine del giorno, il pane quotidiano della vita del Partito socialista.
Questa ripugnanza per il parlamentarismo deteriore del Partito socialista contribui a tenerli lontani da un tal tipo di attività. Poi riconobbero però, che la mancanza di tale lavoro pesò negativamente.
Ora, non aver fatto questo lavoro potrebbe indicare che vi fu una certa sottovalutazione della funzione del Partito e un certo privilegiamento del movimento.
L’interrogativo va però posto con cautela perché, in realtà, se si leggono gli articoli di Gramsci su l’Ordine nuovo, si può vedere, sopratutto dal ’20 in poi, che sempre il discorso sui Consigli si lega al discorso sul Partito, alla rigenerazione del Partito, alla critica al Partito socialista.
Questo nesso c’è. Si pone cioè il problema se esso si presentasse già in tutta la sua maturità o meno, e con la precisione che esso doveva assumere.
E’ a questo proposito che si innesta allora un’altra questione. La questine del rapporto tra l’Ordine nuovo con Sorel e con le teorie dell’anarco-sindacalismo.
Ci fu un’influenza soreliana reale ? Quello che è certo è che i giovani dell’Ordine nuovo lo leggevano con attenzione, lo leggevano con interesse, a quanto pare.
A me pare , però, che si possa dire in modo abbastanza persuasivo – anche se comunque da verificare -la risposta che ebbe a dare Paggi a tale questione, nel suo libro: “Antonio Gramsci e il moderno principe”.
Paggi dice, cioè, che la lettura che l’Ordine nuova fa di Sorel è assai diversa da quella degli anarco-sindacalisti italiani. Quello che viene accolto di Sorel non è il prevalere della lotta economica, non è il privilegiamento dello sciopero, come forza decisiva di lotta rivoluzionaria, non è l’esaltazione dello sciopero violento, che in Sorel c’è (lo sciopero è tanto più rivoluzionario se è violento; perché debba essere violento, in che modo, verso quali obbiettivi, non è chiarito; ma questo ci dice quanti elementi di sorelismo magari in certi inconsapevole, sono tornati nei decenni più recenti e anche oggi, dove e quando non si sa sempre capire e distinguere tra “duro” o “più avanzato”, dove spesso essere “duri” non significa per forza essere “più avanzati” nei contenuti; e spesso ci sono state lotte durissime ma per contenuti arretrati o minimalisti – come spesso nei paesi laburisti o socialdemocratici -, mentre da noi in Italia, negli anni 60-70, le lotte più avanzate nei contenuti si sviluppano con lotte e forme di sciopero articolate e di varia natura , che prolungavano il movimento di lotta anziché concludersi dopo scioperi “duri” ad oltranza, che come in altri paesi finivano sconfitti anche dopo poco tempo: un esempio è anche il 68 francese, durato il mese di maggio, e quello italiana che si può dire, durò tutto il decennio successivo e in cui per 10 anni i contenuti sono stati più avanzati che non in tutti gli altri Paesi d’Europa: es. utile anche per far intendere la diversità di contenuti, ma anche l’inventiva con cui la classe operaia italiana ha saputo realizzare forme di sciopero anche generali ma mai ad oltranza, sempre preceduti e poi dopo proseguiti ancora nei territori, in fabbrica, in forme articolate, o anche a scacchiera o anche solo di una linea produttiva che però fermava tutta la produzione, scioperi bianchi e cosi via: ciò che conta di più non è la “durezza” della forma ma la natura più avanzata dei contenuti e degli obbiettivi per cui si lotta.)
Quello che l’Ordine nuovo sembra accogliere è l’indicazione, che da Sorel viene, della necessità di rendersi coscienti del processo produttivo e la indicazione del rapporto che l’intellettuale deve stabilire con la classe operaia e che deve diventare un rapporto organico, proprio in quanto lo stesso intellettuale partecipa con i lavoratori a questa presa di coscienza del processo produttivo e della funzione che la classe operaia assume in esso, intellettuale organico quale è l’operaio che acquista nozioni e formazione teoriche.
Comunque, questa influenza del sorelismo sull’Ordine nuovo è un tema di indagine e di dibattito.
Un altro punto da considerare è che la costituzione del Partito comunista d’Italia obbedisce a due spinte: una che viene dalla terzi Internazionale; l’altra che consiste nel fatto che i comunisti ordinovisti e bordighiani sono guidati da una comune persuasione, nella diversità della loro concezione, mentalità, atteggiamento, e cioè che col Partito socialista in sostanza non c’è più niente da fare; questo è, sostanzialmente, un partito perduto per la rivoluzione.
Sia la terza Internazionale che i comunisti italiani obbediscono alla convinzione che la situazione italiana è rivoluzionaria. Cosa discutibile e su questa affermazione vale soffermare un poco l’attenzione.
Lenin aveva concepito la Rivoluzione Russa prima che avvenisse e appena era avvenuta, cioè nel primo anno della Rivoluzione (18-19), come l’immediato preludio di una rivoluzione che avrebbe dovuto dilagare almeno nell’Europa e almeno nei Paesi più importanti capitalisticamente a cominciare dalla Germania..
Ancore nel 1920 egli si muove in questo modo, ma con più cautela, già vedendo che il processo in Europa è più complesso e difficile.
Nel ’21 continua a ritenere che la situazione europea sia rivoluzionaria, ma ormai afferma già che il processo sarà molto più lento, molto più difficile e più complesso del previsto. Il giudizio generale divenne poi questo:immediatamente dopo la rivoluzione sopratutto c’è, in Lenin, una grande riserva a pensare che la rivoluzione possa reggersi da sola in Russia. A questo possibilità sembrerebbe avvicinarsi solo negli ultimi anni ma in modo poco convinto, come si vede nel ’23, in “Meglio meno, ma meglio”. Vi è in Lenin il senso della drammatica urgenza dello sviluppo della rivoluzione in Europa, sia per i destini della Rivoluzione Russa che per i destini della rivoluzione proletaria in generale. Avverte però, che in Europa non esiste il partito capace di guidare la rivoluzione.
Nel ’19 scrive: “La più grande sventura e il più grave pericolo per l’Europa sta nell’assenza (sottolineatura sua) di un partito rivoluzionario. Ci sono i partiti dei traditori (cioè i socialdemocratici) ma non c’è un partito rivoluzionario. Naturalmente il possente movimento rivoluzionario delle masse può correggere questo difetto, ma esso rimane una grave sventura e un grave pericolo”.
Egli avverte che le radici ben più profonde che la socialdemocrazia ha nel movimento operaio, rispetto a quelle che erano le radici dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari in Russia, sono precisamente le ragioni della difficoltà del formarsi di un partito veramente rivoluzionario nei Paesi dell’Europa Occidentale.
Da questa visione di una situazione che gli appare rivoluzionaria nel suo insieme, e quindi dell’estrema urgenza che la rivoluzione si sviluppi e di questo ritardo della organizzazione delle forze soggettive rivoluzionarie, deriva forse una fretta con cui Lenin sospinge il movimento, e il modo in cui organizza con Zinoviev il primo Congresso della terza Internazionale (col senno del poi) sembra fatto un po’ alla garibaldina, riunendo chi si può, non tenendo conto dell’obbiezione della formazione comunista più importante e autorevole, fuori da quella russa, cioè quella tedesca, che era contraria a costituire in quel momento la terza Internazionale, ritenendo che la cosa non fosse matura.
Lenin insomma accelera estremamente i tempi. E anche nel ’20, al secondo Congresso della terza Internazionale, cioè al Congresso che definisce la fisionomia della organizzazione, i capisaldi della sua impostazione, egli, non aiutato da Zinoviev (usava dire che l’unico errore commesso da Lenin è stato scegliere Zinoviev …), ha fretta di delimitare, definire bene che tipo di adesione alla terza Internazionale è necessaria perché possa essere una adesione veramente rivoluzionaria.
I comunisti italiani si muovono cosi nella stessa convinzione, ovvero ritenendo che la situazione è veramente rivoluzionaria, e che il Partito socialista è incapace di guidarla – e su questo non ci sono dubbi – ma anche che non c’è speranza non solo di guidare la rivoluzione ma anche di far fronte alla situazione finché si resta nel Partito socialista, specie dopo il tradimento consumato rispetto alla occupazione delle fabbriche.
Quindi anche ora , si aprono discussioni per stabilire se era o non era una una situazione veramente rivoluzionaria quella di allora.
Penso però che tali discussioni rischiano di essere o diventare fortemente scolastiche e astratte.. La questione è però importante perché il giudizio sulla situazione fu un elemento sostanziale che distinse l’atteggiamento di Serrati, per esempio, che guidava i massimalisti, da quello dei comunisti: Serrati appariva molto più riservato e dubbioso nell’affermare che la situazione fosse ancora rivoluzionaria socialisti.
Qui però serve una avvertenza metodologica perché quando noi analizziamo quella situazione, compiamo inevitabilmente un’analisi storica, ed esprimiamo un giudizio storico.
Gli uomini di allora non esprimevano un giudizio storico, esprimevano un giudizio politico, cioè individuavano il carattere di un processo che era in corso e cercavano di individuare il modo in intervenire nel processo per mandarlo avanti. E affermare che la situazione era rivoluzionaria era un modo per mandarla avanti e renderla tale, di svilupparla come tale, cioè di intervenire e agire essa in tale senso. Il giudizio storico si esprime a processo relativamente terminato, il giudizio politico a processo in corso, per i fini immediati dell’azione.
Il giudizio di allora era e doveva essere necessariamente un giudizio politico. E sta di fatto che allora la situazione era, come minimo,, certamente di ribellione della classe operaia al dominio borghese. Ed era una situazione in cui pale4se era l’incapacità dei governi di governare.
Sono questi due elementi indiscutibili di quella situazione, in cui vi erano comunque delle potenzialità rivoluzionarie, sulle quali si doveva e bisognava intervenire. Questo anche se certo tale giudizio si applica sopratutto alla situazione del 1919-1920: per questo abbiamo detto che la scissione semmai si sarebbe dovuta farla ancora prima. Anzi, a quanto pare, secondo Togliatti, la fase culminante delle lotte operaie si ebbe nell’aprile del 1920, con lo sciopero delle lancette, che era uno sciopero per difendere i diritti del Consiglio di fabbrica, eminentemente politico, di potere, e che già l’occupazione delle fabbriche era, secondo lui, un momento difensivo
Quindi quello che sembrò il più avanzato e clamoroso episodio di lotta era già, in realtà, un momento difensivo del movimento operaio. Sono differenze tra apparenza e realtà che talvolta si ripetono nella storia, come ad es. c’è chi vede nella conquista della prima e unica grande riforma amministrativa, democratica e sociale dello Stato, la Riforma sanitaria del 1978, come la fase più alta e avanzata del movimento di lotta iniziato nel 68-69, mentre in verità la fase ascendente e di lotta più alta e avanzata, era stata toccata nel 1975, mentre nel 77-78 si era già in una fase di stasi, le conquiste erano frutto dell’inerzia di una spinta in fase calante e di inizio di un riflusso.
Nel 1921, quando il Partito si costituisce a Livorno, siamo già nel riflusso del movimento operaio. Ma ciò allora non era chiaro. Ma quando diciamo questo, non significa per nulla sminuire la necessità della costituzione di un partito rivoluzionario, perché il partito rivoluzionario non è necessario solo nelle fasi ascendenti del movimento, ma è necessario sempre, è una necessità storica. La situazione può essere più favorevole alla sua costituzione nei momenti di ascesa di un processo, di ascesa del processo rivoluzionario. Ma anche nella fase di una stasi o del riflusso, che non è più facile da dirigere della fase di avanzata, si pone la necessità del partito rivoluzionario. Anche in una fase stasi come quella della conquista della riforma sanitaria dello stato, serviva continuare ed accentare la lotta sia per applicare tale riforma di cui la legge era solo un inizio, sia per conquistare altre riforme, invece si ritenne che con la sua conquista ormai si doveva solo gestire (si disse proprio cosi), in tal modo aprendo la strada al sabotaggio sia della Riforma sanitaria che di tutta la strategia delle riforme di struttura.
Nel 1921, poi, direi che la costituzione del partito rivoluzionario nasce ed è necessaria storicamente proprio in base alla riflessione sulle responsabilità delle sconfitte, cioè sulle responsabilità del Partito socialista e della CGIL diretta dai “riformisti”.
Un’altra questione che si può porre è se i comunisti italiani andavano a Livorno nello stesso modo con cui guardava a Livorno la terza Internazionale.
Parrebbe di no. A me sembra invece, che la terza Internazionale (e in particolare il segretario Zinoviev), ritenesse che il Partito socialista si poteva trasformare in un partito rivoluzionario, purché si espellessero i riformisti e applicando in modo coerente la piattaforma del secondo Congresso. Con ciò equivocando o interpretando benignamente il ruolo in realtà nefasto dei massimalisti e il loro estremismo puramente parolaio, tanto che alla fin fine nei Congressi si alleavano con i riformisti turatiani e sempre rifiutavano di espellerli dal PSI.
Nei comunisti, invece, prevaleva giustamente la convinzione che per creare un partito rivoluzionario, la rottura con i socialisti, massimalisti e riformisti, era in realtà inevitabile. La differenza veniva poi confermata dalla discussione, con la terza Internazionale, a proposito dell’unità d’azione con i socialisti e poi a proposito della fusione dei due partiti. L’indicazione di Lenin, infatti, era quella che diceva: rompete con Turati e poi fate l’unità d’azione con lui. Rompete con i socialisti, datevi un’autonomia rivoluzionaria e poi fate l’unità d’azione con loro. Ed era quanto i comunisti italiani non accettavano.
6.IL CONGRESSO DI LIVORNO.
Su Livorno si possono fare due osservazioni. Ciò che colpisce a rileggere gli atti è che il fuoco è concentrato sui massimalisti. Un’altra cosa che colpisce e che ci dice come il giudizio sulla situazione non fosse aggiornato, che qualche cosa di grosso sfuggisse, che il Partito fosse molto chiuso in se stesso, è il fatto che praticamente non si dice quasi nulla sul fascismo.. L’unico tentativo di accennare alla questione si è avuto nell’intervento di Kabacev, che è il bulgaro delegato dalla terza Internazionale a seguire il Congresso.
In Terracini vi è un accenno: “la reazione si organizza”, ma del resto anche Kabacev parla di “guardie bianche”, fa quindi una analogia più con esperienze del passato in russia. E quella è la fase del fascismo montante ormai, del fascismo che nel 1920 ha cominciato a conquistare delle basi di massa, perché ha dalla sua parte gli agrari e, con gli agrari, una certa base nei contadini piccoli proprietari.
Ora, quindi, il modo con cui si condusse il Congresso fa pensare che i compagni dell’Ordine nuovo, cosi diversi dai bordighiani, per formazione mentale, per serietà e rigore culturale, per attenzione al processo e per il modo con cui cominciavano a vedere la questine contadina, la questione del rapporto con gli intellettuali (si pensi al rapporto con Gobetti); sulla questione dei socialisti fossero poi anche loro parecchio vicini, quasi all’unisono, con i bordighiani. E questa è una della ragioni per cui il Partito nasce sotto l’egemonia di Bordiga.. E questo si legava ad una necessità, alla necessità di reagire a quello che Gramsci chiamava il Circo Barnum, il partito socialista, la confusione, l’impotenza politica, ecc. Ma a quel punto, la cosa era inevitabile: o il partito si faceva sotto l’egemonia di Bordiga o non si faceva.
L’ordine nuovo non era riuscito a lavorare su un’area nazionale, gli aderenti al Congresso di Livorno l’Ordine nuovo erano circa 5.000 contro i 45.000 di orientamento bordighista, rappresentavano quindi il 10 % dell’ala comunista. E Bordiga era il più autorevole dell’ala sinistra.
Una cosa che colpisce alla lettura del verbale è questa: tutto il Congresso si è svolge in una rissa continua. L’unico che viene ascoltato con attenzione è Bordiga, e solo alla fine abbiamo tre brevi interruzioni polemiche del suo discorso, ma fino alla fine, fino alla penultima pagina del verbale, il discorso di Bordiga fila tutto diritto, ascoltato come neanche lo fu Serrati.
E’ certo che nell’unificazione con Bordiga, l’Ordine nuovo rinuncia a molte istanze sue,e vi rinuncia, io credo, anche molto consapevolmente.
Il Partito, quindi, nasce a Livorno contrassegnato da un ritardo sulla situazione e contrassegnato dal mondo in cui si compie la scissione, settariamente.
Il giudizio dato dagli uomini dell’Ordine nuovo è un giudizio estremamente responsabile sulla scissione. Gramsci ne parlerà dopo come un trionfo della reazione, trionfo della reazione di cui la responsabilità è dei massimalisti, che, col loro atteggiamento, hanno reso inevitabile la scissione che si poteva evitare escludendo i riformisti.
Il fatto, però, che la scissione rappresenti un momento difficile, di travaglio, è presente nei compagni dell’Ordine nuovo. Del resto, alle elezioni immediatamente successive, il Partito comunista avrà solo 300.000 voti, il che indicherà quanto sia difficile la strada e come le masse sono riluttanti ad accogliere un atto di divisione, di cui non capiscono tutti i significati, tutta la portata e tutte le vere, insuperabili ragioni.
Accennando brevemente alle vicende successive, si può dire che confermano un determinato taglio, dato alla vita del Partito.
Intanto, il secondo Congresso del Partito, si tiene nel marzo del 1922 a Roma 8 si badi bene: pochi mesi prima della marcia su Roma). Le tesi di tattica che Bordiga propone sono di una assoluta chiusura; si afferma anche che non vi è possibilità in Italia di un colpo di Stato fascista.
Gramsci non è d’accordo con questo giudizio, e su questo punto si distingue nettamente dalla posizione bordighiana. Nel gruppo dell’Ordine nuovo, però, prevale la preoccupazione delle posizioni di destra di Tasca, che sono poi le posizioni di chi non comprende le ragioni profonde della scissione di Livorno.
Gramsci resta legato alle posizioni di Bordiga, anche se c’è da pensare che le sue riserve cominciassero a farsi abbastanza precise, e resta legato anche perché non vi è in quel momento – lo dirà poi Togliatti nel suo scritto sulla formazione del gruppo dirigente – una alternativa seria, possibile, alla direzione di Bordiga.
Mentre la terza Internazionale, come ho già ricordato, diceva : dividetevi e poi fate l’unità d’azione. Naturalmente la cosa non era semplice, perché una scissione implica tali rotture, non solo politiche ma personali, che poi fare l’unità d’azione è veramente una difficoltà molto grande.
Ma anche se conteneva qualche cosa che semplificava i compiti, l’indicazione della terza Internazionale, nella sua spregiudicatezza era certamente politicamente giusta.
A questa indicazione, però, si oppongono i comunisti, e tanto si oppone l’ala bordighiana quanto si oppongono gli uomini che vengono dall’Ordine nuovo.
Dopo il Congresso Socialista dell’ottobre del ’22, in cui i socialisti escludono dal partito i riformisti, e confermano quindi la giustezza dell’operazione fatta a Livorno – la fanno anche loro, vedono che bisogna farla, che non si può non farla – la terza Internazionale da una indicazione: la ragione che vi ha diviso a Livorno, è venuta meno, i riformisti sono stati esclusi dal Partito socialista. Niente più quindi, si oppone a che comunisti e socialisti massimalisti si riunifichino nel Partito Comunista.
UNA STRATEGIA PER L’OCCIDENTE DIVERSA DA QUELLA DELL’ORIENTE
Questa indicazione obbedisce a una visione più strategica, più generale della terza Internazionale, e obbedisce alla politica del fronte unico, che Lenin propone in modo preciso, sopratutto al quarto Congresso della terza Internazionale, nel ’21.
Lenin, cioè, ha di fronte due fatti: primo: nell’Europa Occidentale la democrazia fa partecipare alla vita politica i cittadini, e questa è una grande diversità rispetto alla Russia dei tempi della rivoluzione; secondo, osserva che in Europa tutti gli operai sono organizzati in qualche modo, o nel Sindacato e nelle cooperative o nel Partito; altra sostanziale diversità rispetto alla Russia dei tempi della rivoluzione. Questa situazione dà alla socialdemocrazia, in occidente, la possibilità di avere radici, nella classe operaia, molto più profonde di quelle che non avessero i menscevichi o i socialisti rivoluzionari russi. Ciò rende molto più complesso il compito di scalzare l’influenza socialdemocratica nelle file operaie (ciò che, anche nel secondo dopoguerra, avverrà solo col PCI e solo in Italia ), di quanto non fosse stato in Russia, tanto più che in Russia si era nel quadro di una catastrofe militare, statale che travolgeva tutto, mentre qui la guerra era finita.
Vi è quindi in Lenin l’intuizione di una linea politica diversa da quella russa, che va intrapresa in Occidente: tema su cui però egli non potrà lavorare, a causa della malattia e della morte.
Sappiamo che Gramsci parte di qui, forse attribuendo un contenuto anche maggiore a quella posizione di Lenin sul fronte unico, ma sviluppandola in un modo geniale, quando parla della guerra di movimento e della guerra di posizione. Afferma : mentre in Oriente fu possibile la guerra di movimento, cioè il grande scontro frontale di classe rapidamente risolutivo, perché lì lo Stato era tutto e la società civile era gelatinosa; in Occidente, invece, dietro al tremolare dello Stato, alla crisi dello Stato, si intravedono le robuste strutture della società civile e un sistema di “casematte”, trincee, fortezze – che si devono quindi conquistare una per una con una guerra di posizione.
Gramsci non indica affatto, come erroneamente a volte si dice, una tattica difensiva, indica invece una diversa strategia.
Questa è l’indicazione che viene dalla terza Internazionale ai comunisti italiani, anche negli anni in cui Gramsci si trova a Mosca: la politica del fronte unico, mossa dalla coscienza che la rivoluzione non è per domani in Europa, come si pensava nel 1918, che il processo sarà più lungo, più difficile. Per noi è stato facile cominciare, è difficile andare avanti, in Europa sarà più facile andare avanti ma è difficile cominciare, dice Lenin.
FUSIONE CON I MASSIMALISTI
Ora, la delegazione dei comunisti e dei socialisti massimalisti che vanno al terzo Congresso della terza Internazionale, si trova di fronte alla discussione sulla fusione. Abbiamo una opposizione intransigente di Bordiga e una sostanziale riluttanza degli ordinovisti, anche di Gramsci.
I comunisti, però, accettano, alla fine, questa impostazione. Sarà poi Nenni a farla saltare, prendendo con un colpo di mano vero e proprio, in assenza di Serrati, la direzione de l’”Avanti!”, e poi, approfittando dell’incarceramento di Serrati.
E’ certo, però, che la sostanziale riluttanza dei comunisti aiuta il disegno di Nenni, o non lo ostacola, come sarebbe stato necessario.
Si verifica, quindi, questo paradosso, che quella parte dei comunisti che è d’accordo con la terza Internazionale, è l’ala destra, è Tasca.
Qui però, occorre porsi la questione se invece non bisogna andare molto più a fondo, perché la questione dei riformisti non era che l’ultima espressione, la più evidente espressione di una differenza tra comunisti e socialisti anche massimalisti, che investiva ben altro, che investiva il giudizio sulla situazione, il modo di concepire il processo rivoluzionario, il modo di concepire il Partito, il modo di concepire i rapporti con la terza Internazionale, e quindi l’internazionalismo., ecc.
Ora, a quanto ci sembra, vi era nei comunisti, anche nel gruppo dell’Ordine nuovo, la percezione che se si faceva una rifusione con i massimalisti, più numerosi, con dirigenti più popolari e più autorevoli, il Partito sarebbe ricaduto sotto la direzione dei socialisti massimalisti e si tornava al Partito socialista di un tempo.
I comunisti non hanno poi argomentato questa loro percezione in un modo adeguato, sicché, la loro risposta alla terza Internazionale è stata di tipo settario, e a questa è seguita un’accettazione solo formale delle indicazioni della terza Internazionale.
La verità, però, è che Tasca era facilmente d’accordo con la terza Internazionale perchè il suo accordo per la scissione, cioè il suo accordo col secondo Congresso della terza Internazionale, era stato, in realtà, un accordo molto superficiale, perché egli non aveva avvertito tutte le profonde ragioni che rendevano necessaria, inevitabile comunque, la scissione di Livorno.
Sappiamo che Bordiga era disposto ad arrivare alla rottura aperta con la terza Internazionale su questa questione. Togliatti ci da testimonianza, attraverso le lettere pubblicate nell’archivio della Feltrinelli e poi pubblicate in volume dagli Editori Riuniti. Togliatti, cioè, avverte che non si può rompere con la terza Internazionale, che questo sarebbe un suicidio, la fine del Partito. Al tempo stesso é più d’accordo con Bordiga sulla questione che non con la terza Internazionale. E Togliatti dice espressamente in quel so libro come la sua posizione fosse in realtà senza vie di uscita, senza sbocchi.
E’ in questo travaglio che Gramsci rompe gli indugi, e giunge ad una critica aperta con la direzione di Bordiga. La terza Internazionale, avvalendosi di una nuova facoltà statutaria, nomina Gramsci, nel 1923, segretario del Partito. E intorno a Gramsci si forma faticosamente il nuovo gruppo dirigente.