John Maynard Keynes nel 1944 alla Conferenza Monetaria Internazionale di Bretton Woods, nel New Hampshire. Fotografia: Hulton Archive The Hulton Archive
Da quando Giorgio Napolitano ha aperto le porte di Palazzo Chigi a Matteo Renzi su volontà anglo-americana e col placet dei declinanti potentati locali (galassia Fiat, De Benedetti, Fininvest, etc. ), si è a lungo discusso sull’affiliazione o vicinanza dell’ex-sindaco di Firenze alla massoneria: cominciò il cantante Piero Pelù, sostenendo che il padre di Matteo Renzi fosse uno dei grandi capi della massoneria toscana; proseguì l’ormai celebre Gioele Magaldi, Gran Maestro del movimento massonico “Grande Oriente Democratico”, che attribuì a Renzi padre semplici entrature nella massoneria locale e velleità di massone “internazionale” al rampante figlio; concluse il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, che con un celebre editoriale del 24 settembre 2014 tacciò il “Patto del Nazareno” tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi di “stantio odore di massoneria”. Riprendendo il pensiero di Gioele Magaldi, il suddetto editoriale sarebbe stato scritto dal “paramassone” De Bortoli su ispirazione del Venerabilissimo Maestro Mario Draghi, sospettoso, come gli altri massimi esponenti della massoneria euro-atlantica, degli accordi stipulati tra l’arrembante premier e l’ex-Cavaliere.
Negare che la massoneria abbia giocato un importante ruolo in alcuni periodi e continui tutt’ora a giocarlo non è solo riduttivo ma persino anti-storico: massone era buona parte della classe dirigente francese animati da odi anti-tedeschi nel 1914; di stampo massonico era la neonata Società delle Nazioni divenute poi Nazioni Unite; simpatizzanti od iscritti alla massoneria erano Altiero Spinelli (fondatore dell’Istituto per gli Affari Internazionali italiani, filiale indigena della Chatham House/Council on Foreign Relations) e gli altri padri nobili “dell’Europa Unita”; ad un soggetto massonico, la P2, fecero capo tutte le operazioni della rete Stay-Behind in Italia dal 1970 in avanti; massone, infine, sarebbe anche l’ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affiliato alla fratellanza partenopea di rito scozzese come lo fu già il padre.
Nella storia economica italiana è costante poi la dialettica finanza laica (alias massonica) versus finanza bianca (alias cattolica): come un fiume carsico la sfida parte dall’unità d’Italia ed arriva fino ad oggi, talvolta emergendo, talvolta interrandosi per poi riaffiorare.
Il tempio della finanza massonica per antonomasia è Mediobanca, fondata nel 1946 da “don” Raffaele Mattioli e poi sviluppata da Enrico Cuccia avvalendosi dei grandi gruppi finanziari internazionali (Lazard, Lehman Brothers, Jp Morgan, etc.). La finanza bianca si innestava invece sul connubio tra politica (Democrazia Cristiana) e consigli d’amministrazione degli istituti bancari, reso possibile per tutto il dopoguerra dalla natura pubblica delle Banche di Interesse Nazionale. La finanza bianca patì pesantemente la fine del mondo bipolare e la volontà degli anglo-americani di plasmare il mondo post-Guerra Fredda a loro immagine e somiglianza: nel 1990 la legge Amato trasformò le BIN in società per azioni rendendole formalmente indipendenti dalla politica; quindi le inchieste di Tangentopoli supervisionate da Washington spazzarono via la DC; nel 2005 infine la finanza bianca perse la guida di Banca d’Italia con le dimissioni di Antonio Fazio, costretto a ritirarsi per lo scandalo Unipol-BNL e poi assolto nel 2013 dalla Corte di Appello di Milano “perché il fatto non sussiste”.
Le dimissioni di Antonio Fazio furono però provvidenziali per l’insediamento a Palazzo Koch di Mario Draghi, fresco di una vicepresidenza in Goldman Sachs ed intimo della massoneria anglosassone dai tempi della sua gita sul Britannia.
Gli unici scogli cui la finanza cattolica poté rimanere aggrappata sono le fondazioni (la Cariplo di Giuseppe Guzzetti che controlla Banca Intesa-SanPaolo, nel cui Consiglio di Sorveglianza siede Giovanni Bazoli, ultimo grande erede della finanza cattolica) e le banche popolari. Il vuoto lasciato dalla finanza bianca fu prontamente riempito da quella “laica” dove, secondo il banchiere Cesare Geronzi autore del libro Confiteor, la massoneria legata al mondo anglosassone conta più di quanto non si immagini ed i suoi affiliati pullulano ovunque [1].
In questi ultimi giorni è stato lanciato un attacco in grande stile contro la finanza cattolica, per espugnare gli ultimi fortini dove è arroccata. Il 20 gennaio il Consiglio dei Ministri ha varato un decreto legge con requisito d’urgenza, cui è stato appioppato la solita dicitura inglese di “Investment Compact”, col quale sono aboliti/modificati gli articoli 29-32 del Testo Unico Bancario che disciplinano le banche popolari.
In sostanza per tutti gli istituti con un patrimonio superiore agli 8 mld è cancellato il voto capitario (una testa, un voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute); è abrogato il limite dell’1% del capitale per il possesso di ogni singolo socio; sono fissati 18 mesi di tempo affinché le popolari si trasformino in S.p.a.; è prevista la possibilità per Banca d’Italia di vietare il diritto di recesso dei soci che volessero uscire nella fase di trasformazione degli istituti. Gli istituti interessati sarebbero dieci: tutte le banche popolari quotate più Veneto banca, Popolare di Vicenza e Popolare di Bari.
Saranno senza dubbio soddisfatti al Fondo Monetario Internazionale, dove avevano sollecitato la riforma già a settembre, e nella City di Londra, da dove sono partiti buona parte degli ordini d’acquisto che hanno spinto al rialzo i titoli delle popolati quotate, ora contendibili. Ma qual è la ratio del decreto? Cosa si propone di ottenere la finanza anglo-americana che ha piazzato Matteo Renzi a Palazzo Chigi con questo provvedimento?
La versione offerta da Matteo Renzi oscilla, come sempre, tra il bullismo e le fesserie: “Abbiamo troppi banchieri e facciamo troppo credito”. Dal mondo accademico a quello bancario, passando per la minoranza del PD ed alcuni partiti di opposizione , è stato fatto notare come le banche popolari, uscite discretamente dagli stress test della BCE, siano quelle più legate al mondo della piccola e media impresa e quelle che hanno stretto meno i cordoni della borsa in questi anni di crisi di liquidità, a differenza delle grandi S.p.a.
La versione semi-ufficiale vuole invece che la trasformazione delle banche popolari in S.p.a. favorirebbe i classici processi di fusione ed acquisizione tanto cari alla City di Londra, con un particolare pensiero a Monte dei Paschi di Siena e Banca Carige, entrambe in pessime acque ed in cerca di un cavaliere bianco.
Il ragionamento fatica però a decollare: per salvare due S.p.A., le cui criticità consiglierebbero la nazionalizzazione/liquidazione, si costringerebbero le maggiori banche popolari, sane e capitalizzate, a trasformarsi in società per azioni e ad accollarsi due buchi neri del credito italiano. Filippo Sensi, braccio destro di Matteo Renzi, se la cava citando un documento di Reuters (agenzia d’informazione della City di Londra per antonomasia) che recita: “vendere una banca quotata a una popolare, l’unica vera opzione, sarebbe una cattiva pubblicità”! Molto meglio quindi trasformare le popolari in società per azioni per renderle fondibili o scalabili secondo i dettami di Reuters!
In verità il provvedimento si incardina sulla lotta fra finanza anglosassone/massonica di cui il governo Matteo Renzi è un’espressione e la finanza cattolica che, privata delle banche popolari, perderebbe uno degli ultimi bracci operativi. Il panorama creditizio ne uscirebbe impoverito con la scomparsa di una tipologia di istituti che perseguono finalità non solo economiche ma anche sociali, aspirando a quell’economia sociale di mercato alternativa al capitalismo anglosassone.
L’Investment Compact di Matteo Renzi si incanala sul binario che partendo dallo privatizzazioni degli anni ’90, prosegue con l’approdo a Civitavecchia del Britannia e la liquidazione dell’IRI e termina con la svendita del residuo patrimonio industriale/finanziario italiano grazie all’austerità prodotta dall’euro,“il Reagan europeo” come è definito dall’economista Robert Mundell [2].
Alla vendita di grandi marchi del lusso, dell’alimentare, dell’industria e dell’energia, si aggiungerebbe quindi ora il passaggio in mano straniera delle ex-popolari, le cui attuali quotazioni borsistiche depresse ne consentirebbero la scalata con poche decine di miliardi: l’esito sarebbe la desertificazione della finanza italiana, ridotta ad una manciata di operatori, ed il suo completo assoggettamento ai centri finanziari di Londra a New York, già avviato con la vendita di Borsa Italiana S.p.a. al London Stock Exchange.
L’economista Giulio Sapelli evidenzia in un’intervista ad Avvenire [3], giornale non a caso della Conferenza Episcopale Italiana, come solo un regime sudamericano modificherebbe gli statuti delle banche popolari con lo strumento della decretazione d’urgenza, senza alcun dibattito parlamentare ed in un momento per di più di vacatio istituzionale al Quirinale. Ad animare la scelta del governo Renzi che agisce su ispirazione della BCE, continua Sapelli, è l’odio verso la tradizione cattolica ed il riformismo socialità, nonché la volontà di svendere agli stranieri quel poco che rimane del patrimonio industriale e finanziario italiano.
Noi non abbiamo paura nell’essere più espliciti e nell’affermare che la linea del governo è stata dettata da quell’ambiente massonico anglosassone, cui Matteo Renzi deve tutto, desideroso di assestare un colpo letale alla finanza cattolica ed al sistema economico nazionale. È ormai chiaro che le riforme strutturali proposte dalla BCE di Mario Draghi, da quella del lavoro alle banche popolari, nascono nei circoli finanziari/massonici atlantici grazie cui il banchiere italiano, proprio come l’ex-sindaco di Firenze, ha fatto carriera: prima ottenendo la presidenza di Palazzo Koch al posto del cattolico Antonio Fazio e poi la presidenza della banca di Francoforte.
Le opposizioni hanno promesso la guerriglia in aula per la conversione in legge del decreto Investment Compact: il precedente sulla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia non invita però all’ottimismo.
gennaio 27, 2015