Jamil El Sadi
Intervista esclusiva al professore esperto di criminalità organizzata, 17 anni dopo la strage mafiosa in Germania
È la notte tra il 14 e il 15 agosto 2007. Marco Marmo, Francesco Pergola, Tommaso Venturi, Marco Pergola, Francesco Giorni e Sebastiano Strangio escono dal ristorante italiano “Da Bruno” a Duisburg, città extracircondariale che si affaccia sul Reno, in Germania. All’improvviso vengono travolti da una raffica di proiettili che li falcia uno ad uno. Sono le 02:24. Questo momento segnerà per sempre la Germania.
La strage maturò nell’ambito della faida di San Luca tra il gruppo dei Nirta-Strangio e il contrapposto schieramento dei Pelle-Vottari-Romeo al quale appartenevano le vittime. Quell’eccidio, infatti, fu la risposta all’omicidio di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato indirizzato in realtà al marito della donna, Giovanni Luca Nirta, e a Francesco Colorisi, rimasto ferito in quell’occasione insieme al minorenne Domenico Nirta. Secondo gli investigatori, pur di vendicarsi, la ‘ndrina sacrifica il tacito accordo di non alzare troppa polvere nei fatti interni alle cosche, rompendo quella che fino ad allora è stata una tradizione: Pelle-Vottari-Romeo da una parte e Nirta-Strangio dall’altra lasciano morti ammazzati con una certa discrezione. E non risparmiano nemmeno i giorni di festa. Anzi, si commettono crimini in occasioni speciali proprio per lasciare indelebile il ricordo della tragedia.
La violenza esplosa quella notte ha rivelato al mondo intero quanto fosse radicata e pervasiva la presenza della ‘Ndrangheta anche in paesi apparentemente lontani dal loro epicentro criminale. La Germania, conosciuta per la sua stabilità e sicurezza, si è ritrovata improvvisamente a fare i conti con una realtà scomoda: la presenza di una rete criminale potente e organizzata, capace di colpire con ferocia inaudita anche fuori dai confini italiani.
A diciassette anni di distanza, la memoria di quella notte infernale rimane un monito potente di come la ‘Ndrangheta si sia permeata anche al di fuori dell’Italia. Per analizzare la strage di Duisburg e l’evoluzione criminale della ‘Ndrangheta abbiamo intervistato il professore Antonio Nicaso: uno dei massimi esperti a livello internazionale del fenomeno criminale, nonché co-autore di decine di libri sulla ‘Ndrangheta assieme al procuratore Nicola Gratteri.
Professore, la strage di Duisburg accese i riflettori sull’infiltrazione della ‘Ndrangheta in Germania. E segnò anche l’apice della faida di San Luca tra le opposte consorterie dei Nirta-Strangio e dei Pelle-Vottari. A 17 anni di distanza cos’è cambiato?
La ‘Ndrangheta, dopo la strage di Duisburg, è diventata più cauta, più attenta. Si è reso conto che esportare in Germania una faida che aveva radici nel cuore di pietra dell’Aspromonte non è stata una decisione molto saggia. Basta consultare Google per capire come la ‘Ndrangheta dopo Duisburg sia diventata più visibile agli occhi del mondo. Prima, era sempre stata lungamente sottovalutata, come se fosse una mafia meno importante, radicata essenzialmente in Calabria. Duisburg l’ha in qualche modo “sdoganata”, tanto che è possibile sostenere senza tema di smentita che c’è un “prima” e un “dopo” Duisburg, almeno per quanto riguarda la percezione del fenomeno fuori dall’Italia. Oggi la ‘Ndrangheta è un’organizzazione criminale presente in almeno 50 Paesi, sempre più coinvolta nel traffico internazionale di droga e pronta ad esplorare le nuove frontiere del mondo digitale.
Nel suo ultimo libro, scritto assieme al Procuratore di Napoli Nicola Gratteri – “Il Grifone” (ed. Mondadori) -, racconta l’evoluzione delle mafie nell’era del cyberspazio. Come ha fatto la ‘Ndrangheta a conciliare la tradizione delle organizzazioni mafiose con l’innovazione tecnologica?
Ha sempre avuta una grande capacità di adattamento alle nuove situazioni ed ha sempre conciliato tradizione e innovazione. Ma devo dire che non mi aspettavo un adattamento così repentino nel mondo dell’innovazione tecnologica. Non mi aspettavo il trasferimento in Calabria di pirati informatici in grado di minare criptovalute e di investire enormi somme di denaro su piattaforme clandestine di trading. Ricordo ancora un’affermazione registrata dalle forze dell’ordine in un Paese del comasco, in cui un esponente di una famiglia di ‘Ndrangheta avvertiva contro l’uso dei telefonini, sostenendo che fossero come avere un Carabiniere in tasca.
A differenza di Cosa nostra, la ‘Ndrangheta ha subìto molto meno il fenomeno dei collaboratori di giustizia. Perché? E quando sono importanti per contrastare le organizzazioni mafiose?
Negli ultimi tempi anche nella ‘Ndrangheta ci sono state defezioni importanti, alcuni figli di boss hanno deciso di collaborare con la giustizia. C’è un bel libro di Arcangelo Badolati dal titolo “Figli traditori” (Pellegrini Editore) che racconta molto bene questa importante evoluzione. Storicamente, però, ci sono stati molto meno collaboratori di giustizia rispetto alle altre organizzazioni criminali, quasi certamente a causa della particolare struttura familistica della ‘Ndrangheta. Tradire il proprio sangue non è mai facile. Ritengo che le defezioni degli ultimi anni siano segnali incoraggianti che andrebbero valorizzando attraverso politiche tese a liberare i territori dalla paura e dal bisogno.
La ‘Ndrangheta continua a essere “player” mondiale nel traffico di droga. Se gli affari crescono, evidentemente c’è una forte domanda. Che idea s’è fatto?
Il volume del traffico di droga è tornato ai livelli pre-pandemici. C’è una domanda di cocaina senza precedenti e stanno prendendo piede le droghe sintetiche che sono molto più pericolose e tossiche rispetto a quelle convenzionali. C’è evidentemente una domanda crescente e si fa poco per scoraggiarla con politiche di prevenzione e di informazione. Oltre ad essere computati nel Pil, i soldi della droga entrano con una facilità impressionante nell’economia legale.
L’Italia per molti anni ha rappresentato un modello di riferimento nell’azione di contrasto alle mafie. Che opinione ha dell’attuale governo sul punto? Pensa che stia sbagliando direzione? Se sì, cosa dovrebbe fare?
Restiamo ancora un punto di riferimento assoluto nella lotta alla criminalità organizzata, ma i segnali che lancia questo governo non sono per niente incoraggianti. A preoccupare di più è l’inefficienza nella lotta alla corruzione. L’abolizione dell’abuso d’ufficio, per esempio, crea vuoti di tutela censurabili sia rispetto al diritto dell’Unione Europea, sia al principio costituzionale di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione. C’è il rischio che la Consulta possa giudicare incostituzionale l’abolizione dell’abuso d’ufficio per violazione degli obblighi internazionali d’incriminazione, come è successo nel 2022 con il blocco del referendum sulla droga. Comunque, sono il sintomo di una inadeguatezza che rasenta l’ignoranza. Speriamo che non vengano toccate quelle norme fortemente volute da Falcone, prima che venisse ucciso, come l’ergastolo ostativo e il 41bis. Mi chiede che cosa si dovrebbe fare? Bisognerebbe sedersi attorno a un tavolo e decidere da che parte stare: se dalla parte dell’ambiguità o da quella della fermezza. Con le mafie non è possibile convivere. Non basta partecipare alle commemorazioni ufficiali. Il tempo delle parole è finito. Ma ancora non riusciamo a rendercene conto.
Chi indaga sulla mafia spesso riceve minacce o condanne a morte da parte della stessa. Basti pensare a magistrati come Nicola Gratteri e Nino Di Matteo che da anni vivono sotto scorta. Nei giorni scorsi sono arrivate nuove minacce al procuratore capo di Prato Luca Tescaroli – che da poco ha lasciato la procura di Firenze – con un esplicito riferimento all’utilizzo del “tritolo”. “Finiremo ciò che abbiamo iniziato”, era scritto nella missiva. È possibile che ci sia un ritorno allo stragismo mafioso?
Non penso che si possa tornare allo stragismo, ma non bisogna assolutamente sottovalutare le minacce che vengono rivolte a magistrati che si battono da tempo in prima linea nella lotta alle mafie. Penso che le mafie abbiano compreso la necessità di tornare alle vecchie abitudini, quelle che scoraggiavano lo scontro frontale con lo Stato, prediligendo tattiche meno invasive ma altrettanto convincenti.