Karim El Sadi
L’ex ‘primula nera’ al processo sulla strage di Bologna: “Andai in Sicilia per salvare i giudici su preciso mandato del presidente della Repubblica”
L’ex terrorista Paolo Bellini sarebbe stato mandato in Sicilia dal Quirinale per trattare con Cosa nostra negli anni delle stragi. A raccontarlo è Bellini stesso durante l’ultima udienza del processo d’appello sulla strage di Bologna, per la quale l’ex primula nera di Avanguardia Nazionale è stato condannato all’ergastolo in primo grado. Bellini aveva chiesto di rendere dichiarazioni spontanee per rispondere a una serie di accuse mosse contro di lui, a partire dalle minacce che avrebbe rivolto al giudice Francesco Maria Caruso che lo ha condannato e all’ex moglie Maurizia Bonini, per le quali è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Spoleto. Nello spiegare i motivi per cui l’ex terrorista non è tipo da intimidazioni (“io posso dire ‘moh ti faccio vedere io e scriverti due-trecento commenti sui giornali o sul webbe’”, si è giustificato), l’imputato ha aggiunto una seconda motivazione per la quale l’accusa di minacce, specialmente quelle rivolte al giudice, a suo dire non avrebbe senso. Ed è in questo frangente – racchiuso nelle quasi due ore di dichiarazioni fiume in aula – che Bellini ha affermato quanto segue.
“Io non minaccio i magistrati. Non posso minacciare i giudici, perché sono andato in Sicilia nel 1992, dopo la morte di Falcone e Borsellino, per salvare i giudici. Io vi ho salvato in Sicilia”, ha esclamato rivolgendosi alla Corte. “Io – ha aggiunto – ho portato la mia vita per voi, arrivando fino ai vertici di Cosa nostra e mi avete mollato nella merda perché non c’è stato più corrispettivo”.
Il riferimento sembra essere alla trattativa segreta imbastita con la mafia, su richiesta dei carabinieri, coordinata dall’ex Maresciallo Roberto Tempesta (di cui venne informato anche l’allora colonnello Mario Mori).
Bellini (nome in codice “Aquila Selvaggia”) doveva recuperare opere d’arte rubate. La mafia, però, in cambio aveva chiesto un miglioramento delle condizioni carcerarie per i mafiosi (tra i quali Pippò Calò, Luciano Liggio e Bernardo Brusca). L’ex terrorista era stato chiamato per questa missione in virtù del suo passato di trafficante di opere d’arte che gli costò l’arresto nel ’81 e lo sconto della pena nel carcere di Sciacca, dove conobbe il boss di Altofonte Antonino Gioè (poi “suicidato” in carcere nel ’93), lo stesso che diventerà il “gancio” in Cosa nostra per la trattativa.
La trattativa carabinieri-Mafia, avente Bellini come intermediario, dopo una serie di incontri (Bellini scese in Sicilia una trentina di volte a partire da fine ’91), venne fatta definitivamente arenare dai carabinieri a fine ’92. E’ noto infatti che in quello stesso anno partì un altro dialogo sotterraneo, quello tra il Ros e i corleonesi, mediato da Vito Ciancimino, sindaco mafioso di Palermo. Una trattativa, questa, che arrivava ai piani più alti del governo, con ben altri ambizioni, canali e posta in palio.
“Allora se io sono uno che può arrivare ai vertici massimi di Cosa nostra e poi dopo al momento giusto non mi date il da fare che fai? Mi hai mandato al suicidio? Perché ci sono degli altri interessi politico-mafiosi”, ha lamentato in aula Bellini. Quindi ha ribadito di essere stato in Sicilia “per salvare i giudici su preciso mandato del presidente della Repubblica che era presidente del Consiglio superiore della magistratura”. L’affermazione – seppur eclatante – potrebbe non essere del tutto campata in aria. Dando uno sguardo al periodo in cui Bellini ricevette l’incarico di infiltrarsi in Cosa nostra, al Quirinale sedeva Francesco Cossiga, uno dei politici più contestati e misteriosi della Prima Repubblica.
L’ex presidente si dimise il 28 aprile 1992, a due mesi della fine naturale del mandato, per una serie di accuse mosse contro di lui, a partire dalla sua appartenenza – reo-confessa – alla struttura Gladio. Nei giorni in cui rassegnò le dimissioni, l’ex capo dello Stato ricevette un telegramma proprio da Paolo Bellini in cui l’ex terrorista manifestava la propria vicinanza: “Sarai sempre il mio presidente”, scriveva. Circostanza a dir poco singolare. Il presidente della Repubblica che avrebbe mandato – il condizionale è d’obbligo – Paolo Bellini a trattare con la mafia potrebbe essere quindi Cossiga? Secondo i familiari delle vittime della strage di Bologna sì.
Le parole di Bellini “sui suoi rapporti, nel tempo, con i parlamentari del Movimento sociale italiano Almirante e Mariani (l’imputato ha raccontato di essere andato per loro “fino in Portogallo per verificare se c’erano gruppi estremistici con collegamenti internazionali”, ndr) e con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga (1992) circa il suo ruolo di infiltrato, da un lato negli ambienti della destra eversiva, dall’altro con Servizi e organizzazioni mafiose, ne confermano la poliedricità e la caratura criminale“. Questa la convinzione dei legali di parte civile, Andrea Speranzoni, Lisa Baravelli, Alessandro Forti e Alessia Merluzzi.
Paolo Bellini nella sua esternazione non ha specificato quale capo dello Stato gli avrebbe affidato questo compito oneroso (e pericoloso) e la corte d’assise d’Appello non ha chiesto all’imputato approfondimenti in merito.
La circostanza, però, potrebbe essere storicamente rilevante se inserita nel quadro dei dialoghi che lo Stato aveva effettivamente avviato con i boss mafiosi durante le stragi di Cosa nostra.
Non va dimenticato che Paolo Bellini l’anno scorso è finito nell’inchiesta dei magistrati di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco che indagano sulle stragi del 1993. Anche in questo caso, come per la strage di Bologna, l’ex primula nera si è dichiarato assolutamente estraneo. “Adesso mi hanno fatto indagare un’altra volta per le stragi del ’92 e del ’93. Mi fanno venir da ridere”, ha ironizzato.