di Gianni Barbacetto
Le meravigliose cronache di Salaland si arricchiscono ogni giorno di nuove avventure. Le più indicibili mostrano una Milano capitale delle disuguaglianze. Chi lavora in questa città – ci dicono ora anche i dati Inps messi in fila dal sindacato Cgil – guadagna di più che nel resto d’Italia, ma sono scherzi statistici: c’è un piccolo manipolo di manager maschi che portano a casa 568 euro al giorno, assediati da una torma di lavoratori precari, intermittenti, a termine, specie donne, che di euro ne guadagnano 55 al giorno, quando va bene.
Più di un terzo dei lavoratori dipendenti a Milano ha una busta paga che non permette neppure una vita dignitosa. E la percentuale aumenta se si aggiungono quei lavoratori “autonomi” che in realtà vivono in condizioni di quasi-disoccupazione, di incertezza e di povertà. Il Sistema Milano “è un sistema produttivo basato in modo strutturale sulle diseguaglianze”, concludono i responsabili della Cgil.
Ma in città si parla d’altro. Il sindaco Giuseppe Sala è impegnato a celebrare – e accrescere, con le sue dissennate scelte urbanistiche – la ricchezza di Milano, che è la ricchezza immobiliare e finanziaria dei pochissimi, che pesa con gli aumenti di costi, affitti e servizi sui tantissimi che cercano di resistere all’espulsione dalla città.
La politica intanto è impegnata nel grande rito elettorale, per scegliere il nuovo presidente della Regione Lombardia. La Lega e il centrodestra hanno ricandidato l’uscente Attilio Fontana, malgrado la sua gestione terribile della pandemia nell’area con più morti al mondo per Covid e malgrado i pasticci dei suoi conti all’estero. Letizia Moratti, a cui avevano promesso la successione, ora che Matteo Salvini si è rimangiato la parola corre da sola, cercando sostegni perfino “a sinistra”, lei che voleva che i vaccini fossero distribuiti in base al pil, come fossero le brioches di Maria Antonietta.
Ma la cosa sconvolgente è che “a sinistra” qualcuno la prende sul serio (oltre a Carlo Calenda, che ha inaugurato l’asse Parioli-Duomo) e ha proposto di sostenerla “per battere la destra” e “tornare a vincere”. Ora, non è difficile constatare che Moratti sia più a destra di Fontana (lo dimostrano la sua riforma della sanità regionale e tutta la sua attività politica fino a oggi). Ma poi: “per tornare a vincere” e “battere la destra” basterebbe votare a sinistra.
Se sono vere le cifre del sondaggio Izi, Fontana raccoglierebbe oggi il 45 per cento dei voti, il candidato del Pd Pierfrancesco Majorino il 29 e Moratti soltanto il 13, malgrado il lancio della sua candidatura pompato con entusiasmo da giornali e tv. Se i sostenitori di Moratti vogliono davvero “tornare a vincere” e “battere la destra”, è sufficiente che votino il candidato del Pd e i giochi per la vittoria sarebbero riaperti. Invece Giuseppe Sala, appena saputo della candidatura di Majorino, gli ha subito chiesto di “trovare punti comuni” con Moratti.
Ci dovrebbe spiegare che cosa voglia dire “trovare punti comuni” tra due candidati alternativi, in elezioni a turno unico. Sembra tanto un invito a Majorino a correre per finta, lasciando il passo alla donna che fu il primo capo politico di Sala quando lo chiamò, da sindaca di Milano, a fare il direttore generale del Comune e poi il commissario di Expo. Sala, che scopriamo anche campione di assenteismo – 11 presenze in Consiglio comunale su 69 sedute – ha, lo capiamo, un debito di riconoscenza con Moratti. Ma ce l’ha anche con Majorino, senza il quale non avrebbe vinto le primarie che nel 2016 lo hanno candidato sindaco.
25 novembre 2022 (Il Fatto quotidiano)