di Gianni Barbacetto
L’inchiesta su Ubi Banca della Procura di Bergamo è un grande romanzo italiano del potere. Mostra in presa diretta come i potenti aggirino le regole, le considerino ostacoli da superare. Concorrenza e libero mercato, proclamati a parole, nei fatti diventano impicci di cui liberarsi. Anche portando deleghe false nelle assemblee, per vincerle.
Le carte delle indagini del pm Fabio Pelosi, svolte dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo, ci consegnano un affresco di come si fa banca in Italia. L’ipotesi d’accusa è che Giovanni Bazoli, da presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa, governasse anche Ubi senza avere alcuna carica, in forza di un patto occulto tra “famiglia” bresciana (ex Banca Lombarda) e quella bergamasca (ex Bpu) e in conflitto d’interessi con il suo ruolo ufficiale.
Con riunioni segrete fatte in case private, come quella del 13 marzo 2013 nell’abitazione di Franco Polotti, presidente del consiglio di gestione di Ubi, in cui Bazoli dice chiaramente: “Se noi non avessimo difeso la banca, a questo tavolo non ci sarebbe nessuno di noi sei”. Gli altri cinque sono, oltre al padrone di casa, il vicepresidente del consiglio di sorveglianza Mario Cera, Italo Lucchini del consiglio di gestione, Andrea Moltrasio e Armando Santus, presidente e vicepresidente del consiglio di sorveglianza.
I meticolosi verbali redatti da Lucchini e scoperti dagli investigatori riportano perfino un parere fornito agli attuali indagati dal professor Piergaetano Marchetti, che finisce indirettamente per confermare le tesi dell’accusa. “L’amico Pierga”, scrive Lucchini, “ha già fornito ad Andrea qualche primo riscontro: sul passato siamo tranquilli (…); dove invece vi è la conferma di un’interferenza di Ablp nelle decisioni che dovrebbero essere prese in piena autonomia da Ubi (…) è nel meccanismo delle votazioni nel comitato nomine/consiglio di sorveglianza, che rappresenta un vero e proprio patto parasociale, che mette a rischio l’indipendenza dei consiglieri”. Ablp è l’associazione degli azionisti bresciani, presieduta da Bazoli assistito dalla figlia Francesca.
Nella banca le gerarchie formali sono diverse da quelle reali. Tanto che anche l’“amico” Polotti, presidente del consiglio di gestione, è fatto a fette dalla figlia di Bazoli in una telefonata intercettata il 14 aprile 2014: “L’ho incontrato… senza cravatta, con la maglietta bianca che spuntava sotto la camicia… Mi sembrava un po’ allucinato, devo dirti… Lui è un tattico, ma dove c’è strategia, zero… Si regge su Massiah, lui, è l’unica sua forza vera, me lo riferisce mio padre… Se mio papà gli dice qualcosa, lui dice ok, però… credo che lo sforzo per lui sia veramente notevole”. Victor Massiah è l’amministratore delegato di Ubi, che con Polotti critica il regolamento nomine della banca: “Fa veramente schifo… Ci sono errori tecnici, disallineamenti pesantissimi con lo statuto… Se ti hanno fatto un culo così sulla pariteticità e tu la rimetti dentro, è anche suicida politicamente”.
Intanto si avvicina l’assemblea dei soci di Ubi, indetta per il 10 maggio 2014. Bazoli il 18 aprile chiama la figlia Francesca e “dice che ieri il clima gli è sembrato disteso… sembrano un po’ cambiate le cose”. L’attività per raccogliere deleghe nel frattempo diventa frenetica: per tener fuori dalla stanza dei bottoni le liste di Andrea Resti e di Giorgio Jannone vengono accumulate deleghe in bianco, i voti sono raccolti impiegando militarmente i dipendenti della banca, oltre all’associazione degli artigiani Confiab, la Compagnia delle Opere e la Sodali spa, pagata 183 mila euro dalla banca per una consulenza che serve a convogliare voti sulla “Lista 1” di Bazoli-Zanetti. Che vince con quasi 5 mila deleghe di assenti e 1.106 voti considerati irregolari.
La voce di Bazoli, intercettata, commenta, racconta, giudica, ordina, suggerisce. Bankitalia e Consob sono tenute all’oscuro dei patti segreti. La Consob apre un’ispezione e notifica un “atto di contestazione”. Ma intanto il presidente della commissione Giuseppe Vegas s’incontra, il 13 maggio 2014, con Moltrasio e Cera. Questi informa Bazoli: “Il mio scupolo era quello di parlarti un po’ a voce di quello… che è accaduto di questa roba della Consob… Volevo parlartene con calma, però a voce, credo che sia più prudente”. Dopo l’incontro, Cera è soddisfatto: “È andata molto bene… è una situazione leggermente imbarazzante per me a titolo personale, però è andata, è andata bene, diciamo: molto bene”.
Anche la riunione dell’anno prima a casa di Polotti era stata commentata da Moltrasio: “Queste riunioni fatte a casa tua con il presidente di Banca Intesa… Ma insomma, se lo venissero a sapere che figura ci facciamo?”. Replica Polotti: “Dipende da noi tenere la bocca chiusa”. Poi però sono arrivati i magistrati.
(Il Fatto quotidiano, 26 novembre 2016)
La replica: “L’ho fatto per il bene delle banche”
Giovanni Bazoli ha affidato al Corriere delle sera (26 novembre 2016) la replica alle accuse della Procura di Bergamo. Con due argomenti. Il primo è la vecchia giustificazione già esibita, nel 2005 dei “furbetti del quartierino”, dall’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio: salvare l’italianità delle banche. Scrive il Corriere:
L’aggregazione che nell’aprile 2007 ha dato vita a Ubi banca, vista con favore da Bankitalia e dalle autorità istituzionali italiane, è servita a evitare che aziende di credito importanti del Paese finissero in mani straniere. (…) Bazoli racconta dunque il retroscena inedito che ha portato alla costituzione di Ubi: «Io ebbi conferma delle intenzioni del Santander in un incontro richiestomi personalmente dal presidente, Emilio Botin. Egli mi precisò che intendeva procedere con un’Opa amichevole. Replicai subito che la banca stava considerando una diversa ipotesi e mi mossi senza indugio per proporre ai massimi responsabili di Blp e Bpu l’idea di una fusione».
Il risultato è stata una fusione realizzata con vantaggio per il nostro sistema bancario. (…) L’aggregazione è servita, nella linea tracciata da Bankitalia, volta a promuovere la crescita dimensionale degli istituti di credito, a trasformare due banche provinciali in un grande gruppo regionale, forte sul territorio lombardo e con estensioni in Piemonte e in tutta Italia. In più ha creato uno strumento importante per favorire l’integrazione economica tra i due territori, bresciano e bergamasco, contigui e tuttavia per varie ragioni poco coesi.
Il secondo argomento di Bazoli riguarda la fase successiva alla fusione. La coabitazione delle due anime, quella bresciana e quella bergamasca, era difficile e complessa. Dunque era necessario l’intervento del padre amorevole che dall’alto veglia sulla sua creatura, dandosi da fare per tenere insieme le due “famiglie”. Continua il Corriere:
Con quelle «nozze» confluivano in Ubi due anime, quella bresciana e quella bergamasca, orgogliosamente ancorate alle proprie storie e ai rispettivi territori. Ma la difficoltà maggiore derivava dal carattere «pionieristico» di tale fusione: per la prima volta una banca popolare (Bpu) incorporava una spa (Blp). Il nodo è stato risolto di recente, quando è scattato l’obbligo di trasformazione delle maggiori banche cooperative in società per azioni (a cui Ubi ha ottemperato per prima). Ma allora fu deciso che la nuova banca avrebbe avuto la forma cooperativa: non solo era una condizione tassativa posta da Bpu, ma tale forma appariva anche più idonea a proteggere dal rischio di scalate esterne che, come si è detto, erano in quel momento allo studio. Per convincere i soci della banca spa ad accettare e «adeguarsi» al principio cooperativo del voto capitario, indipendentemente dalle quote di capitale possedute, si studiarono regole e clausole del tutto nuove, intese a garantire, nella governance della nuova banca, un equilibrio — il principio di «pariteticità» — fra le due componenti societarie.
«La fusione non avrebbe mai potuto realizzarsi», afferma Bazoli, «se non fossero state garantite tali condizioni di equilibrio: meccanismi complessi, riguardanti la composizione dei consigli di sorveglianza e di gestione, del comitato nomine, un’alternanza delle cariche apicali e così via. Regole di governance approvate da tutte le autorità interessate, in primo luogo Bankitalia e rese pubbliche con l’atto fondativo di Ubi, lo statuto e i regolamenti». Tutto questo è stato studiato, ribadisce Bazoli, con la supervisione dei maggiori esperti giuridici, al fine di favorire, con equilibri da rispettare all’inizio e nel tempo, il successo di una banca che mirava a proiettarsi sul territorio nazionale conservando le solide radici locali. «Le fusioni, una volta decise, devono essere seguite nella loro concreta realizzazione», sottolinea Bazoli.
Bazoli le ha seguite, passo passo, fino a oggi. Intervenendo – almeno secondo le ipotesi d’accusa – perché il controllo della banca rimanesse nelle mani del gruppo dirigente espresso dalle due “famiglie” fondatrici. Anche a costo – sempre secondo il pm – di violare le regole del libero mercato e della concorrenza e di influire sulle assemblee dei soci per tener fuori non più gli stranieri, ma le altre cordate estranee ai fondatori (nel 2013, le liste di Andrea Resti e di Giorgio Jannone). Restando così il padrone occulto di Ubi Banca. Ancora il Corriere:
Dopo aver promosso la nascita di Ubi il banchiere ha partecipato nei primi anni, insieme al presidente e al vicepresidente dell’ex Blp, Gino Trombi e Alberto Folonari, al consiglio di sorveglianza, con l’autorizzazione dell’Antitrust. In seguito, intervenuto nel 2012 il decreto sull’interlocking che ha vietato i doppi incarichi, ha dato le dimissioni dal board e ha seguito le vicende di Ubi da «azionista», accettando di presiedere l’associazione che riuniva gran parte dei soci dell’ex Banca lombarda e piemontese. Associazione di cui ha voluto fossero comunicati alle autorità e resi pubblici, anche se non era obbligatorio, statuti e finalità. «Dopo la scomparsa di altri cofondatori di Ubi» (Corrado Faissola e Giuseppe Camadini) «mi ero fatto carico, quasi come ultimo garante da parte bresciana, delle ragioni fondative della nuova banca», precisa Bazoli, che aggiunge: «Quanto sta accadendo mi lascia incredulo: faccio davvero fatica ad accettare che, dopo più di trent’anni di impegno profuso, con non pochi costi personali, a difesa e per la crescita del nostro sistema bancario — sempre in accordo con le massime istituzioni del Paese e avendo contribuito in modo determinante a creare realtà che sono in Europa tra i migliori esempi di solidità e affidabilità per investitori e risparmiatori — sia messa in dubbio la correttezza del mio operato».
Bazoli ha dei meriti, nella tribolata storia della finanza italiana: ha salvato il Banco Ambrosiano, chiudendo il capitolo tremendo delle banche di Roberto Calvi (e, alle sue spalle, Michele Sindona) che agivano in un intreccio criminale di malaffare privato, lobbismo piduista, finanziamenti ai partiti della Prima Repubblica, rapporti con le organizzazioni mafiose. Poi però ha assunto su di sé il ruolo di grande manovratore della finanza italiana, e anche della politica. A “fin di bene”, spesso sostenendo le persone migliori in campo (come Romano Prodi). Ma a lungo andare la pratica del potere finisce per divorare anche i migliori, quando arrivano a sostituire le regole con ciò che ritengono sia il bene comune.
Il Fatto quotidiano, 26 novembre 2016, e aggiornamenti 27 novembre 2016