Un arresto di fondamentalisti islamici a Manila, nelle Filippine. Il sequestro di strani documenti riguardanti un fantomatico “Piano Bojinka”. La Cia e l’Fbi avrebbero potuto fermare l’11 settembre sei anni prima. Dopo un’inchiesta durata dieci anni, ecco la ricostruzione di quella scoperta.
di Franco Fracassi
Manila è una città enorme in cui raramente cala il silenzio. I dodici milioni di abitanti che la popolano ne fanno una delle più grandi metropoli del pianeta, è certamente la città con più alta densità abitativa, con oltre quarantunomila abitanti per chilometro quadrato: due volte quella di Parigi, quattro quella di Tokyo, venti la densità di Buenos Aires. Una città che non dorme mai. Una città perennemente solcata da coloratissimi pulmini color argento e poi tutti i restanti colori dell’arcobaleno. Una città dove rintracciare qualcuno diventa impresa pressoché impossibile. Tant’è che la criminalità rappresenta una delle piaghe che il governo non riesce nemmeno ad intaccare: ogni volta i criminali spariscono nel nulla. Impossibile trovarli.
La sera di venerdì 6 gennaio 1995 era una serata come un’altra. Decine di ragazzi, ragazze ed anziani si sfidavano a scacchi al Teodoro Valencia Circe, all’interno di Luneta Park. Il più grande parco commerciale di tutta l’Asia (Mall of Asia) era affollato da curiosi e consumatori. Migliaia di coppiette di innamorati e di famiglie con carrozzine e bambini al seguito inondavano la passeggiata lungo la baia. Era una serata come tante altre a Manila.
Doña Josefa è un residence che si trova a Cordillera, in una zona residenziale a est della città. La strada alberata è una traversa di Quezon Avenue, un lunghissimo viale che taglia in due la capitale delle Filippine. A due passi dal residence si trova la Banca Nazionale e la Commissione per il servizio civile, un chilometro più a ovest c’è la baia. Dall’altra parte della strada, due bar dall’aria sudicia e sempre affollati danno un tocco caratteristico alla strada.
Doña Josefa è un complesso di edifici bianchi di sei piani. Mini appartamenti divisi da pareti di carton gesso, spesso con grosse macchie di umidità, e grossi rumorosi condizionatori in ogni stanza. Questa storia si svolse nell’appartamento numero 603, di proprietà di Edith Guerrera.
Trentacinque anni, labbra sempre messe in risalto da un pesante rossetto color rosso, sorriso accattivante, forme inusuali per una donna filippina, la signora Edith era una donna in carriera molto socievole e allegra. Di professione faceva la stilista. E, per arrotondare i suoi guadagni, affittava i quattro appartamenti di sua proprietà.
Uno di questi, l’appartamento 603 appunto, l’aveva affittato solo un mese prima. Quando l’8 dicembre precedente i suoi due inquilini si erano presentati alla reception aveva riso. I due avevano compilato, pochi minuti prima, l’apposito modulo, sbagliando a scrivere i propri nomi.
«Ehi! Mi era capitato di tutto finora, ma mai nessuno si era sbagliato a scrivere il proprio nome. Ve li siete dimenticati? Mi sa proprio che è così».
«Forza, ragazzi, non fate i timidi. Se non sapete come vi chiamate è sufficiente che leggiate che cosa c’è scritto sui vostri documenti», e giù una risata.
I due terminarono di compilare i loro nuovi moduli e li riconsegnarono alla reception. Poi, sempre in silenzio, presero l’ascensore per il sesto piano, dove si trovava il loro appartamento, che avevano prenotato giorni prima spedendo un mese di anticipo come deposito. Quarantamila pesos a testa, ottantamila in totale. Tradotto in euro, seicentocinquanta a testa per un mese di affitto.
Sui moduli c’era scritto “Naji Haddad” e “Abdel Hakim Murad”, di professione piloti.
L’errore commesso nella compilazione del modulo era inconsueto per un tipo così meticoloso come Naji Haddad, o Ramzi Yousef, se preferite.
Yousef e Murad erano sbarcati nelle Filippine un anno prima. Un anno passato centinaia di chilometri a sud di Manila, su una grande isola piena di vegetazione e ricca di piogge. Un anno passato ad addestrare i combattenti di un gruppo estremista islamico chiamato Abu Sayyaf.
«Quando li vidi pensai che fossero due studenti. Assomigliavano in tutto e per tutto e due studenti. Due studenti sui generis, però. Erano sospettosi verso tutto e tutti. Chiudevano a doppia mandata la porta sia quando uscivano, sia quando si trovavano in casa. Non permettevano a nessuno di entrare, nemmeno al ragazzo delle pulizie», ricordò in seguito la giovane stilista.
Il giorno dopo il loro arrivo vennero consegnati due grossi pacchi. Nessuno seppe che cosa contenessero, fino a quella sera del 6 gennaio: sostanze chimiche e materiale per confezionare esplosivi.
L’arrivo dei due scatoloni, però, insospettì un informatore della polizia che alloggiava al Doña Josefa. Apolinario Medenilla chiamò il suo agente di riferimento. Il giorno stesso l’appartamento venne tenuto sotto stretta sorveglianza.
Le sostanze erano state spedite dal finanziatore della coppia di falsi studenti. Si chiamava Khaled Sheikh Mohammed. I finanziamenti giungevano attraverso la Konsonjaya, una società di import-export con sede nella capitale malese Kuala Lumpur. Miele dal Sudan e beni alimentari dal resto del mondo al Sudan, in questo consisteva il business di Khaled Sheikh Mohammed. L’uomo d’affari aveva anche un secondo ruolo nella società degli umani: era a capo delle operazioni militari della Jemaah Islamiah, la rete estremista islamica del sud-est asiatico.
Durante tutto il mese di dicembre Yousef e Murad frequentarono regolarmente due karaoke bar della zona, il primo si trovava in Adriatico Street, il secondo in Roxas Boulevard. Ogni sera a cantare al karaoke, e mai in moschea.
«Ci divertivamo troppo al karaoke. Ci piaceva cantare e ascoltare gli altri cantare. In moschea non c’era nulla di divertente da fare», spiegò in seguito Murad.
Durante le serate cantanti Yousef era solito presentarsi ai camerieri e agli altri avventori con un terzo nome: non come Yousef e nemmeno come Haddad. «Mi disse di chiamarsi Salem Ali. Disse che era un ricco uomo d’affari che veniva dal Qatar», raccontò Arminda Costudio, una delle cameriere del Manila Bay Club di Roxas Boulevard. Murad, invece, si presentava con il nome di «Abdel Magid».
La ragazza continuò: «Indossavano entrambi uno smoking tuxedo, avevano addosso rotoli di contante che distribuivano a tutti i camerieri, rimorchiavano tutte le ragazze che gli passavano a tiro. Non erano quello che ci si aspetta da un estremista islamico. Magid (alias Murad) aveva una ragazza che lavorava in un bar a Quezon City. Si chiamava Rose Mosquera».
C’è di più. Murad era ancora più spendaccione del suo socio. Più sere aveva soggiornato in un albergo a cinque stelle sulla costa, prendendo lezioni di immersioni. Arrivò ad affittare un elicottero al solo scopo di volare davanti all’ufficio della sua ragazza per il solo fatto di impressionarla.
Carol Santiago era invece la ragazza di Yousef: «Ci siamo conosciuti ad un Seven-Eleven di Adriatico Street (uno di quei negozi che vendono dai generi alimentari, alle sigarette, ai giornali che restano aperti 24 ore su 24, nda). Mi si presentò come Salem Ali, uomo d’affari saudita. Gli piaceva cantare, bere, spendere soldi».
Carol non sapeva che Yousef oltre ad essersi divertito era responsabile di una serie di atti terroristici che avevano insanguinato le Filippine nell’anno appena trascorso, tra cui l’assassinio di un giovane ingegnere giapponese.
«Lo sa che ancora a distanza di anni quasi settimanalmente vengono da me turisti giapponesi chiedendomi di poter affittare l’appartamento 603? Vogliono poter percepire i pensieri di un assassino, mi dicono», rivela Edith Guerrera.
Erano le undici di sera del 6 gennaio 1995 a Manila. Di lì a sei giorni nella capitale filippina sarebbe arrivato in visita ufficiale il Papa Giovanni Paolo II. La città era sotto assedio, come si conviene in queste occasioni.
Al Doña Josefa regnava il silenzio. La signorina Guerrera si trovava nel suo appartamento, quando il campanello squillò. Erano gli inquilini dell’appartamento 604 e 607.
«C’è puzza di bruciato proveniente dall’appartamento 603. Per favore, chiami i vigili del fuoco».
I pompieri arrivarono in pochi minuti, senza però riuscire ad entrare nell’appartamento in questione. Yousef e Murad urlarono da dietro la porta: «È tutto ok! Non c’è nessun incendio in corso!».
Il caso però volle che insieme ai vigili del fuoco, davanti alla porta del 603 c’era anche Aida Fariscal. Aida era una cinquantacinquenne ostinata e piena di voglia di lasciare qualche segno di sé prima di andare in pensione. Aida era una poliziotta. Era l’agente di riferimento di Apolinario Medenilla.
Nonostante le urla tranquillizanti da parte dei due inquilini, l’agente forzò la porta.
Il ricco uomo d’affari arabo e il suo compare cercarono di nascondere il contenuto dei due scatoloni, inutilmente. Sempre inutilmente, Magid, alias Murad, cercò di corrompere l’agente Fariscal. Duemila dollari in biglietti di piccolo taglio. Centodiecimilasettecentoquaranta pesos.
Come andò a finire?
Nel piccolo salotto erano sparsi in bella mostra batuffoli di cotone impregnato di acido solforico, una soluzione di liquido beige, quattro dischi di ferro alti venti centimetri e del diametro di sessanta, una rete intricatissima di fili elettrici verdi, rossi, blu e gialli, più altre sostanze dal colore incerto. Il contenuto di una delle boccette si era rovesciato in parte su un mobile, in parte sul pavimento. Da lì la puzza di bruciato.
Subito dopo il ritrovamento cominciò a squillare il telefono. Immediatamente si scatenò il panico. Erano tutti convinti che il telefono fungeva da detonatore per gli ordigni. Per loro fortuna si sbagliavano (nessuno seppe mai chi stava chiamando e perché). L’unica persona a rimanere calma fu l’agente Fariscal, che arrestò senza scomporsi gli inquilini.
La perquisizione dell’appartamento 603 iniziò alle due e mezza del mattino del 7 gennaio. La polizia trovò: una carta stradale di Manila, con su segnate le strade dove sarebbe transitato il corteo del Papa; un rosario, una fotografia del pontefice; alcune bibbie in varie lingue; crocifissi, abiti da prete. E ancora: due contenitori di plastica pieni di acido solforico, acido picrico (altamente esplosivo), acido nitrico, glicerina pura, acetone, triclorato di sodio, nitrobenzenolo, ammoniaca, nitrato d’argento ed Anfo, ovvero un’accelerante della combustione composto da nitrato d’ammonio, gasolio ed altri additivi minori. E poi, dietro una sorta di doppiofondo nel muro: alcuni litri di gasolio, termometri, cilindri graduati, filtri, tondini d’acciaio, timer e molto altro. Insomma, c’era tutto il materiale necessario per assemblare molte bombe in grado di falciare decine di persone ciascuna.
Per non parlare dei dodici falsi passaporti, tra cui uno norvegese, uno afgano, uno saudita e uno pachistano. Tra i tanti documenti falsi c’erano però anche i due passaporti veri. Una leggerezza che obbligò una delegazione del Fbi a salire di gran fretta su un aereo intercontinentale destinazione Manila.
Ramzi Yousef era uno degli uomini più ricercati del pianeta. Due anni prima aveva fatto parte di un commando terrorista che aveva piazzato 680 chili di tritolo in un camion che si trovava nei parcheggi sotterranei del World Trade Center di New York. La deflagrazione aveva causato diciassette morti e oltre mille feriti.
Magro, capelli neri folti, sopracciglia a V rovesciata, lenti a contatto. Yousef era nato in Kuwait ventisette anni prima. I suoi genitori era originari del Baluchistan,, la regione divisa tra l’Iran a ovest e il Pakistan a est. Quando alla metà degli anni Ottanta tornò con la famiglia a Quetta prese la cittadinanza pachistana.
Il soggiorno a Quetta fu breve. Il giovane Ramzi venne spedito in Galles per proseguire gli studi. E così nel 1986 fece il suo ingresso al Swansea Institute, facoltà di ingegneria elettrica. Si laureò quattro anni più tardi. Studiò anche all’Oxford College of Further Education, dove migliorò considerevolmente il suo inglese.
Ma furono i suoi studi di ingegneria a segnare il suo futuro. Dopo aver abbracciato gli ideali di lotta dell’estremismo islamico, grazie alle sue conoscenze dei circuiti elettrici divenne un abile confezionatore di bombe.
Frequentava il secondo anno di università quando un collega di studi lo invitò a partecipare ad una riunione dei Fratelli musulmani, un’organizzazione estremista islamica nata in Egitto. Un paio di mesi di riunioni settimanali e il ventunenne Ramzi aderì al gruppo.
Un mese dopo fece il secondo passo più importante della sua vita. In Afghanistan la guerra con i sovietici non si era ancora conclusa. Nell’estate del 1988 lo studente pachistano si imbarcò ad Heathrow su di un aereo in partenza per Islamabad. Destinazione un villaggio sperduto a poche decine di chilometri e sud-est di Jalalabad, nell’Afghanistan orientale.
La vita nel campo di addestramento di Khalden era dura, gli scontri con l’Armata Rossa altrettanto. Yousef, però, era felice. Di natura socievole, si era fatto molti amici al campo. Inoltre, alcuni membri della sua famiglia combattevano al suo fianco. Aveva fatto amicizia anche con due persone che venivano da oltre oceano, che avevano la pelle bianca con tendenza ad arrossarsi al sole e che non parlavano una parola di pashtu, di dari o di qualsiasi altro dialetto afgano.
Graham Fuller e Gust Avrakotos erano della Cia. Si trovavano laggiù per fornire alla resistenza mujaheddin tutte le armi e il supporto logistico di cui avevano bisogno nella lotta contro l’invasore sovietico. Erano due ragazzi a modo, con il sorriso aperto e una gran curiosità.
Ramzi non ebbe difficoltà a fare amicizia con entrambi. Ben presto l’amicizia si trasformò in qualcos’altro. Ramzi Yousef da Kuwait City, con passaporto pachistano e laurea britannica divenne un collaboratore della Central Intelligence Agency, con sede a Langley, in Virginia, in mezzo a colline boscose a pochi chilometri a sud di Washington.
Negli anni successivi i viaggi in Afghanistan si susseguirono con una certa frequenza, prima per cacciare i sovietici, poi per piegare la resistenza del presidente comunista Muhammad Najibullah.
Durante uno di questi viaggi il neo collaboratore della Cia Youssef conobbe un saudita dai modi colti e gentili, un uomo che come lui parlava un inglese forbito. Si chiamava Osama bin Laden.
Saranno stati i racconti del college, ma i due trovarono subito un’intesa. Tanto che bin Laden lo ospitò diverse volte nella sua bianca villa di Peshawar, in Pakistan, soprannominata “la casa dei martiri”.
E non solo. Bin Laden aveva così grande fiducia in lui da assegnargli il delicato compito di aprire una nuova cellula nelle Filippine.
Yousef atterrò per la prima volta a Manila nel 1989. Dopo aver svolto il suo compito con diligenza e capacità organizzative non comuni, il laureando ingegnere se ne tornò in Galles. Nelle Filippine era appena nata un’organizzazione terroristica con il nome di Abu Sayyaf.
Ramzi non poteva saperlo ma il successo della missione filippina aveva suscitato un certo interesse in alcuni uffici di Langley.
Così, quando gli fu comunicato che doveva partire per gli Stati Uniti per una missione importante Yousef ne fu sorpreso e lusingato. Non si venne mai a sapere se fu qualcuno della Cia ad organizzare quel viaggio o se fu un’idea aliena agli americani.
Fatto sta che il primo settembre 1992 l’ingegnere pachistano sbarcò all’aeroporto di Newark munito di passaporto iracheno insieme a un compagno di viaggio, Ahmed Ajaj, dotato di passaporto svedese, anch’esso falso.
L’accoglienza al Liberty International non fu piacevole. Uno dei poliziotti di frontiera si accorse che il passaporto di Ajaj era falso. I due passarono le successive settantadue ore negli uffici dell’Immigrazione. Ajaj venne rispedito in Pakistan. A Yousef andò meglio. Disse di essere un pachistano nato in Kuwait che era venuto negli Stati Uniti per chiedere asilo politico. L’Fbi prese informazioni su di lui. La Cia fornì le sue, di informazioni. Al termine di un processo durato due mesi, il 9 novembre Razim Yousef entrò legalmente in territorio statunitense con un passaporto emesso dalle autorità pachistane sul quale si leggeva il nome di Abdul Basit Mahmud Abdul Karim. La fortuna, o qualsiasi cosa fosse, aveva girato dalla sua parte ancora una volta.
In New Jersey egli incontrò un egiziano dei Fratelli musulmani. Si chiamava Omar Abdel Rahman. Su di lui pendeva un mandato internazionale per essere stato uno degli organizzatori dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat. Eppure lo sceicco cieco (così veniva soprannominato) predicava liberamente tra New York e il New Jersey. Altrettanto liberamente poté progettare un secondo attacco terroristico, questa volta contro il World Trade Center di New York. Yousef era laggiù per questo.
Ci vollero due mesi e mezzo per portare a termine il piano. Il 26 febbraio 1993 quattro bombe esplosero in contemporanea nei sotterranei del centro finanziario newyorchese.
Ci furono sette morti e oltre mille feriti, ma le torri gemelle non crollarono. Anzi, dopo l’attentato si decise di rinforzarne le fondamenta. Fu solo una prova generale o un tentativo fallito di anticipare l’11 settembre?
Comunque sia, due giorni dopo un pachistano di nome Karim si imbarcò con successo per Baghdad. Di lui si persero le tracce.
Non si seppe più nulla fino al 7 gennaio 1995, quando il suo amico d’infanzia Murad venne portato nella stazione di polizia numero 9 di Manila, arrestato per tentata strage. Murad, sotto tortura, parlò.
Nato a Kuwait City e residente a Karachi, in Pakistan, anche quest’ultimo si era laureato in ingegneria. Non aveva frequentato un college britannico, però. Aveva condotto i suoi studi in Nord Carolina. Stato nel quale aveva anche conseguito un brevetto da pilota d’aerei da turismo, presso la Coastal Aviation Inc.
Il ritrovamento più significativo nell’appartamento non furono i componenti per assemblare le bombe, bensì un computer portatile Toshiba e quattro floppy disk che si trovavano in una tasca laterale di una borsa.
“Tutti quelli che aiutano il governo statunitense sono nostri bersagli. Perché tutte queste persone sono responsabili delle azioni del governo Usa e ne condividono le azioni. Colpiremo tutti gli obiettivi nucleari statunitensi. Colpiremo dentro e fuori del territorio americano, incluso…”, fine di uno dei testi registrati uno dei floppy.
Nel computer, invece, c’erano una serie di file che citavano un fantomatico piano “Bojinka”. Un nome il cui significato impegnò alcuni analisti per diversi anni. “Bojinka” in serbo croato vuol dire “grande botto”.
Inoltre, su altri file c’erano decine di nomi, fotografie, nomi di alberghi, di aziende, luoghi e date di appuntamenti.
Alcuni esempi? Mohammed Jamal Khalifa, uomo d’affari saudita di Jeddah sposato a una delle sorelle di Osama bin Laden. Indicazioni sul mercato della carne di Kuala Lumpur (Malaysia) e del suo proprietario. Informazioni su un centro islamico di Tucson (Arizona). Dati dettagliati che avrebbero permesso di ricostruire molti movimenti bancari di denaro sporco in transito attraverso alcune banche di Abu Dhabi (Emirati arabi uniti). Una lettera di minacce diretta al presidente filippino Fidel Ramos.
In un altro file c’erano solo tre parole: «Khalid Sheikh + Bojinka». In un altro ancora si potevano leggere informazioni approfondite sulla Konsojaya, la società malese che finanziava questa fantomatica operazione “grande botto”.
Infine, un documento, un foglio elettronico ricco di date, numeri, nomi, luoghi e procedure. Il documento “grande botto”. Il piano. L’operazione “Bojinka”.
Undici voli di linea intercontinentali, in viaggio dall’Asia agli Stati Uniti, principalmente della United e dell’American Airlines, da lanciare come missili contro edifici in varie città statunitensi.
Ogni volo aveva un codice, accompagnato da dettagliatissime informazioni sul tipo di aereo (come peso, capacità di carburante, dimensione, numero dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio, velocità eccetera).
Per comprendere l’importanza del ritrovamento nell’appartamento 603, a Manila volò anche il capo dell’antiterrorismo della Cia, Vincent Cannistraro: «Non avevamo mai visto nulla di simile prima. Non avevamo mai visto un piano così complicato ed ambizioso. Quando ho dato un’occhiata a quel computer non credevo ai miei occhi. Ho pensato: “Abbiamo un problema”».
Ma le sorprese non erano finite lì. Murad venne interrogato dalla polizia filippina il giorno successivo. Sarebbe più appropriato dire: torturato. Ebbene, l’amico d’infanzia di Yousef confessò di aver preso lezioni di volo per oltre un anno con lo scopo di compiere un’azione suicida. Avrebbe dovuto sequestrare un aereo di linea, prenderne il comando, mettersi alla cloche e poi lanciarsi con il jumbo contro l’obiettivo prescelto.
Il quartier generale della Cia a Langley. Il Congresso, la Casa Bianca, il Pentagono a Washington. Le torri gemelle a New York. La Sears Tower di Chicago. La TransAmerican Tower di San Francisco
«La cosa buffa è che Murad e molte altre persone i cui nomi si trovano nei file del Toshiba portatile hanno preso lezioni di volo in America», fece notare Aida Fariscal a Cannistraro.
Senza volerlo la polizia filippina, e di conseguenza l’antiterrorismo statunitense, erano entrati in possesso del progetto del più devastante attacco terrorista della storia. Un attacco che avrebbe portato morte nel cuore degli Stati Uniti. Un attacco che avrebbe potuto mettere in ginocchio l’economia dell’Occidente. Adesso che avevano tutte quelle informazioni in loro possesso Fbi, Cia, Nsa, Dia e tutte le altre agenzia di intelligence Usa avrebbero potuto prendere le contromisure necessarie e bloccare il piano.
Avrebbero potuto. Ma la storia non procede sempre secondo logica. A partire dal fatto che la persona che figurava come centrale nell’operazione “Bojinka”, Ramzi Yousef, lavorava proprio per la Cia.
11 settembre 2014