Angelo Ruggeri (Centro S. d’Albergo-Il Lavoratore”)
“I governi cosiddetti ‘tecnici’ sono i peggiori governi politici che si possano immaginare. Il loro scopo è quello di fare il contrario di ciò che la sovranità popolare ha indicato, sono antipopolari e reazionari.”
(Palmiro Togliatti).
“Togliatti era un uomo cui non faceva velo alcuna illusione. Fin dall’inizio colpiscono la sobrietà, il realismo, la crudezza delle sue analisi. Il suo è un realismo attivo: fare i conti con la realtà per lui vuol dire raccogliere le forze reali;per quanto siano ridotte, disperse, divise, iniziare con esse un lavoro di lunga durata per un obiettivo lontano, cui si giunge attraverso vie diverse e molteplici; nella vittoria sfruttare il successo, nella ritirata combattere battaglie di retroguardia, nella sconfitta ricominciare con l’organizzazione della lotta illegale, dopo aver salvato tutti i quadri salvabili. E’ un maestro della scuola del Komintern.
(Aldo Natoli)
Con l’occasione, mentre trasmettiamo anche il testo di Togliatti: “A proposito di democrazia e socialismo”, teniamo a sottolineare l’importanza di questo articolo che, per altro, è stato scritto nell’anno stesso del famoso intervento di Togliatti al Comitato centrale (di seguito estrapoliamo una porzione dall’ampio testo in stesura in cui, tra l’altro, confrontiamo il modello di modernizzazione sovietico unico modello alternativo a quello capitalista e quello classico/occidentale/capitalista ,della Cina attuale, quanto alla industrializzazione e alla struttura economica, abbandonando Marx e Lenin e tenendosi Stalin per la sovrastruttura …). In Tale intervento al C.C., Togliatti invitava a “reagire” avvertendo che “il nemico che minaccia tutti e in particolare le nuove generazioni e che potrebbe impedire ai giovani di diventare veramente una nuova generazione che abbia degli obbiettivi ideali, è la penetrazione della ideologia americana”.
Perché, come accade quando vige una struttura economica capitalista , “l’ideologia americana, isola l’uomo nella ricerca della soluzione del proprio problema individuale attraverso l’inserimento nel complesso delle istituzioni esistenti e quindi, – diceva Togliatti -, porta il singolo sia ad abdicare alla sua funzione sociale che deve contribuire a determinare la nuova direzione da seguire in economia e nella politica della vita nazionale; sia ad abdicare alla sua funzione di Uomo in lotta per creare una società nuova. Questi decisivi momenti della persona umana scompaiono, quando si diffonde l’ideologia americana”. Cosa questa che noi temiamo si stia diffondendo anche nella Repubblica popolare cinese, dopo l’abbandono del marxismo e dell’ideale socialista maoista (ben inteso: mantenendo gli stessi simboli e formule ideologiche e propagandistiche come faceva Stalin), a causa della introduzione della struttura economica e di mercato capitalista : cosi che anche per statale del’economia, lo Stato si trova ad amministrate una economia di mercato. Come accadeva nel modello nazionalista in Germania, Italia e Giappone, dove si, c’era lo statalismo, ma gestiva un’economia di mercato. All’opposto dell’URSS che rifiutando sia il capitalismo che il mercato, lo Stato non amministrava un’economia di mercato ma determinava anche i rapporti di scambio, originando quello che è stato, appunto, l’unico modello di industrializzazione e modernizzazione alternativo a quello capitalista e occidentale.
Un esempio di penetrazione dell’ideologia americana in Cina, ci sembra data anche delle grandi piattaforme capitaliste, mediatiche, commerciali e comunicative che in Cina assumono dimensioni gigantesche, dove davvero sembra proprio che scompaia del tutto la concezione comunista, “la nostra concezione del mondo e di una società in sviluppo e in cui una classe lotta per cambiare il mondo, in cui la classe operaia e dei produttori si emancipa ed emancipa l’intera società anche ideologicamente: tutto questo sfuma”, appunto, diceva Togliatti. Sicché, dall’Italia e dalla Cina, e come diceva Togliatti “ i comunisti debbono reagire per impedire che questa ideologia americana penetri specie tra i giovani. Questo è veramente il nemico da battere”.
Per questo occorre anzitutto applicare il materialismo storico anche all’analisi della Cina e della sua formazione sociale capitalista; applicare la marxiana dialettica critica alla formazione sociale della Cina capitalista, come si doveva fare anche per l’URSS, che però, almeno, non era capitalista.
Applicare il metodo del materialismo storico significa denunciare e criticare anche la formazione, in Cina, di una piramide sociale dalla base gigantesca, di oltre un miliardo di persone e un vertice di 100 milioni di multimiliardari (si sa che la povertà è un concetto relativo, per cui diventi più povero se altri aumentano la distanza tra i ricchissimi e l’altro miliardo e 400 milioni di cinesi), di super proprietari e dirigenti d’imprese e despoti d’azienda, ecc., ecc.. Come ad es. i Suning proprietario di un impero economico internazionale e dell’Inter-calcio, nonché i despoti dei vari Tic Toc e Alibaba veri e propri alfieri della ideologia americana. Che avendo la Cina sancito la inviolabilità della proprietà privata, senza neanche imporre una finalità sociale all’impresa, mirano non già all’’interesse sociale ma a fare proprio quello contro cui metteva in guardia Togliatti. Vale a dire, abdicando ogni funzione sociale, mirano a distruggere il cervello sociale delle masse e la memoria che è il motore sociale della storia, ancor di più di quanto, già di per sé, viene fatto con l’uso delle cosiddette nuove tecnologie, degli inglesorum, e dell’ideologia angloamericana del pragmatismo, di cui fu un paladino l’”Amendola cinese”, cioè Teng Xiaping, esaltato dall’Occidente e capo della destra del PCC come Amendola lo fu della destra del PCI: loro e i Napolitanoloro eredi, hanno scelto per la Cina quello che hanno fatto per l’Italia: assumere in proprio il capitalismo: donde la concorrenza spietata come capita sempre tra “imprese” che producono uno stesso prodotto.
Naturalmente il valore dell’articolo di Togliatti su democrazia e socialismo era attuale già al tempo dell’URSS, e lo è altrettanto per molti paesi che operando una rivoluzione sull’esempio di quella del 1917, hanno scelto di consultare e rifarsi alle sole Costituzioni presidenzialiste quali sono tutte, ad eccezione di quella italiana che non è l’hanno nemmeno preso in considerazione, compresa la Cina post maoista che ha introdotto l’assoluta inviolabilità della proprietà privata e d’impresa. Ed è cosi sono giunti ad assumere un modello di tipo staliniano: in Sud America, in Africa, in Asia e in Cina la quale, però, ha “aggiunto” la struttura economica capitalistica come base della sovrastruttura di potere e di stato di tipo staliniano, continuando, come Stalin ed ora i cinesi, a coprirsi dietro i simboli e gli slogan di quel presunto marxismo-leninismo, col trattino, imbalsamato da Stalin. Ovvero in totale rottura col progetto leninista della quasi scomparsa dello stato dopo la rivoluzione del 17 , Lenin che ha ripreso e rilanciato tutto quanto sulla COMUNE parigina aveva scritto e indicato Marx, che in modo chiaro ed esplicito indicò la Comune “come una forma politica fondamentalmente espansiva e non repressiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive”(sottolineatura mia).
Anzi, quanto alla teoria politica, va detto che l’unica descrizione di quello che deve essere la società e la forma politica di stato e di governo che Marx ha lasciato e in cui ha espresso in modo chiaro e inequivocabile il suo pensiero politico in termine propositivi fu proprio l’esperienza della Comune parigina, al punto da asserire che da quel momento in poi, non si doveva mai arretrare da tale conquista, ma ogni lotta, ogni rivoluzione socialista, ogni forma politica di governo di stato e il socialismo stesso debbono partire da essa, perché, come scriveva Lenin ricopiando rilanciando quanto scritto da Marx: “la Comune è la forma di stato e di governo operaio finalmente scoperta dal proletariato, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica da cui d’ora in poi deve sempre partire e non arretrare mai. Cioè non arretrare mai dal modello politico, di stato e di governo della Comune“, che definì la “forma finalmente trovata” del potere proletario, che mescolava forme di democrazia diretta e di democrazia rappresentativa con mandato imperativo sempre revocabile dal popolo e dalla classe operaia.
Marx non ha mai auspicato un regime autoritario a partito unico o l’abolizione delle libertà civili, come è avvenuto con Stalin e capita oggi in Cina : per questo è importante l’articolo di Togliatti su “democrazia e socialismo” cosi come è importa tante che i comunisti, quelli cinesi che imparino e i filo cinesi italiani insegnino, l’esperienza del movimento operaio e comunista italiano che a partire dalla teoria marxista dello stato e del diritto portata ai suoi massimi sviluppi da Gramsci, portato avanti e applicato da Togliatti, fino alla nostra Costituzione di democrazia sociale (cioè la più avanzata forma di democrazia fondata sugli interessi del lavoro e dei fini sociali) hanno molto da insegnare anche al PC cinese e come dovrebbero fare quelli che in Italia esprimono posizioni acritiche verso la Cina capitalista, come acriticamente facevano tanti rispetto all’URSS, dove però, almeno, non c’era il capitalismo.
L’articolo togliattiano, dunque, è valido e attuale per tutti quei Paesi che hanno scelto le forme del potere dall’alto, come avviene nelle imprese private e anche negli Stati centralisti e burocratici; cioè , quelli che hanno scelto forme opposte alle “forme di potere e di governo e espansive e non repressive” come quelle che Marx indicava tramite la Comune parigina, realizzando forme burocratiche, gerarchiche e autoritarie, prima, e poi, anche dispotiche, totalitarie e assolutistiche tipo quelle impostesi a partire dal Termidoro staliniano in Russia, e importate da vari paesi di Asia e Africa, del Centro e Sud America (dove ad es. in Nicaragua misuriamo oggi la deriva autoritaria e della violenza repressiva).
Chiunque conosco la storia della Comune sa che essa era una democrazia pluralista, cosi come del resto era pluralista e democratico il partito bolscevico al tempo di Lenin, che nel 1917 si trasformo in modo sorprendente in un vero proprio partito di massa, democratico, formato da persone provenienti da diversi strati sociali e di diversa formazione culturali. La direzione di Lenin si basava sull’incontrastato prestigio di Lenin, ma Lenin stesso non era un vertice isolato; i dirigenti che lo attorniavano erano in grado di contestare le sue tesi e non esitavano a farlo. Il partito, poi contava su un secondo livello di quadri locali che giocavano anch’essi un ruolo importante nella sua vita politica interna, basata sul confronto dialettico continuo, su un continuo dibattito democratico interno. Militanti a cui faceva ricorso perché si trattava di compagni indispensabili, che si sarebbero comunque fatti sentire laddove ci si fosse dimenticati di consultarli. Il partito bolscevico di Lenin, era quindi un vero e proprio partito politico, non irreggimentato, ma meglio diretto e meglio organizzato di tutti gli altri, ma anche fortemente democratico al suo interno. A ben vedere, questo, a chi ha militato nel PCI sembra di leggere il come era il partito comunista italiano. Quello di Lenin, poi, oltre che massimamente democratico era anche un partito persino diviso in correnti, e abituato ad aspre discussioni politiche. Era un partito che, se riconosceva Lenin il suo dirigente storico, era però ben lungi dall’essere un partito di tipo “leninista”; come fu poi definito Stalin il partito post-bolscevico, quello irreggimentato, gerarchico, burocraticamente repressivo instaurato a partire da appena prima del primo piano quinquennale.
Quindi, nessuno che non sia prezzolato per spargere menzogne, obliare la memoria e falsificare la storia, può dire: “Cina. Il leninismo del XXI: cosi almeno ci hanno scritto D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli e con l’immancabile contributo d i”cossuttiani” ed ex filosovietici”, passati in un fiat dalla acritica adorazione dell’URSS ad un rifiuto altrettanto acritico e irrazionale. Nonostante che la Russia conservi molte cose dell’URSS tra cui, ad es., lo statalismo economico più o meno mascherato e una sanitàfunzione pubblica universale e gratuita, emblema che era anche del sistema comunista del tempo di MaoTse-tung, ma che è stato smantellato e capitalizzato in omaggio alle modernizzazione capitalista assunta dall’attuale Cina post-maoista. Donde che non essendo più la sanità un funzione pubblica universale pagata dallo Stato, dopo 40 anni di disastri e di sofferenze pagate da tanti poveri e dai lavoratori cinesi, ora, negli ultimi anni, stanno realizzando una “riforma”(sic), che, introduce un sistema di ASSICURAZIONI, così anche in questo, mutatis mutandis, vi sono elementi di quella stessa ideologia americana denunciata da Togliatti.
E interessante notare come molti di quella stessa moltitudine essendo sempre stati acritici dell’URSS si sono sentiti vittime ed offesi dal suo crollo, come fosse improvviso e non una conseguenza di quella lunga durata su cui sempre si misurano gli accadimenti, sicché “traditi” dall’URSS sono passati armi e bagagli alla stessa acritica “adorazione” dell’attuale “socialismo con caratteristiche cinesi” la cui specifica caratteristica cinese è di essere capitalista. Senza capire, con tale criticità
Senza capire che tale comportamento finisce per nuocere solo a se stessi, nella vita come nello studio; e che liberarsi da una trappola per ricadere subito in un’altra tesa dai medesimi meccanismi di autoinganno, non è poi un gran passo avanti, anzi …
Marx – interamente assunto da Lenin specie rispetto le forme politiche e quindi di stato, governo e partito – non ha mai auspicato un regime autoritario a partito unico o l’abolizione delle libertà civili come avvenuto con Stalin e capita oggi in Cina e in tanti altri vari paesi. Marx ha sempre preferito parlare di “AUTOGOVERNO DEI PRODUTTORI”, come anche Gramsci, espressione che ricorre ben più spesso nell’opera di Marx che non quella di “dittatura del proletariato”, comunque non intesa come potere repressivo ma come formula che esprime il controllo di una classe sociale sui mezzi di produzione, esattamente come può dire “dittatura della borghese” proprietaria dei mezzi di produzione, quale è anche nella Cina post maoista.
Se si guarda alla Comune parigina come governo operaio, com’era nel progetto marxiano di autogoverno dei produttori e in quello leninista della quasi scomparsa dello stato dopo il 1917 e dei soviet, cioè alla Russia dove fino a prima del Termidoro staliniano vigeva un regime in cui il peso e il prestigio della classe operaia era senza pari e senza precedenti (tanto che chi non lo era faceva carte false pur di entrare a lavorare in fabbrica o in officina); se al di la delle forme di spazio e tempo, con sguardo dal basso, cioè visto cogli occhi degli operai, quello che è avvenuto sia con il regime di Stalin sia, dopo la morte di Mao, con la scelta di una politica antioperaia, operata dalla Cina con Teng Xiaoping (noto come l’Amendola e poi il Napolitano cinese …) e che a partire da li ha poi portato a consegnare gli operai nelle mani dei padroni capitalisti, a sottoporli ai potenti gerarchi d’azienda e d’impresa privata e statale; tutto ciò, agli occhi degli operai, in uno storico flashback, deve sembrare una vera e propria cacciata della classe operaia dal paradiso terrestre. Dopo che dalla rivoluzione del 1917, vigeva un Codice del Lavoro che garantiva una posizione di privilegio agli operaio, protetti dalle azioni arbitrarie della dirigenza anche da un sistema di garanzie sindacali, e con piena libertà di criticare qualsiasi “superiore”: insomma tutto quello che è stato cassate sia dallo stalinismo russo anticapitalista che, ora, da quello cinese capitalista.
L’idea “filosofica” è qui la passione per la verità che è sempre rivoluzionaria, contro e all’opposto del filisteismo sordo, che acceca fino ad arrivare a definire il capitalismo “socialismo con caratteristiche cinese ”; arrivando persino a definire ciò che per antonomasia è l’antioperaio e classista “stato di diritto” occidentale, come “stato di diritto cinese”, come ha scritto anche R. Caputo (su La Città futura), senza accorgersi che “Stato di diritto socialista” è un clamoroso ossimoro e un vero e proprio cedimento teorico alla teoria “pura” dello stato borghese/liberale, oltre che una supina concessione e accettazione dell’ideologia americana e del suo “famigerato“ e occidentale “stato di diritto”.
Di questo passo, manca poco, allora, si potrebbe prendere per buona anche la falsificante e abusata locuzione germanica e socialdemocratica di “capitalismo sociale di mercato” (e un qualche filocinese potrebbe dirli “capitalismo socialista di mercato” andando vicino al vero), locuzione che pero è stata assunta come base dal sistema economico e di produzione capitalistico europeo, per rendere tutto il resto – cioè tute le istituzioni e tutti i diritti sia individuali che sociali e de lavoro – dipendenti e subordinati al sistema di produzione capitalistico di mercato. E’ cosi che, a partire dal sistema di produzione del capitale, che si sono poi edificate le sovrastrutture istituzionali, definite “capitalismo sociale di mercato” dai sovranisti euro unitari della UE di conservatori/liberali/riformisti incarnata nel sovranismo atlantista, di cui Draghi è oggi il massimo garante .
La posticcia aggiunta del termine “socialismo” praticamente ad ogni cineseria capitalistica e occidentale, serve ad occultare la verità con un simulacro di “socialismo” o dietro il sepolcro del marxismo e del leninismo, tramite l’ ossificato e c.d. “marxismo-leninismo” imbalsamato da Stalin, che ruppe sia con Marx che con Lenin, originando la fase staliniana, ripresa – come è facile dimostrare – dalla Cina post maoista di Teng XiaoPing, che oggi da vita a quello che in modo più onesto si dovrebbe chiamare “Cina. Lo stalinismo del XXI secolo”; stalinismo, sia chiaro, che non fu una conseguenza del bolscevismo, ma un fenomeno autonomo e al tempo stesso l’affossatore sia del bolscevismo che del leninismo.
A proposito di democrazia e socialismo ([1])
Palmiro Togliatti
- 1. Il tema delle relazioni che passano tra la democrazia e il socialismo è oramai diventato abituale nei dibattiti politici. Interessa i militanti dei partiti operai ed egualmente interessa ampi strati dell’opinione pubblica, il che deve essere salutato come indice di progresso, perché attorno ad esso si accentrano i principali problemi dell’odierna lotta politica. Ci si può soltanto dolere che, essendo il tema strettamente legato a quelli della corrente polemica tra i partiti, se ne abbiano, di conseguenza, frequenti cadute e ricadute nelle banalità e volgarità con le quali spesso questa polemica viene condotta, soprattutto quando si tratta di respingere le tesi avanzate dai comunisti.
Voglio dare un esempio, chiedendo scusa, in pari tempo, se gli do in questo modo anche troppo rilievo. A me è accaduto di ricordare che il dominio della borghesia capitalistica su tutta la società (ciò che noi, correttamente, chiamiamo la sua dittatura di classe) si può esercitare in differenti forme politiche, con la piena soppressione di istituti e libertà democratiche, oppure ammettendosi un maggiore o minor grado di estensione di queste libertà e di presenza e funzionamento di quegli istituti. Non l’avessi mai detto! Da una parte (repubblicana) mi hanno gridato che parlare di una dittatura di classe che si esercita in forme democratiche è da paranoico. Dall’altra parte è intervenuto il Battaglia (Adolfo) del Mondo per dirmi che la mia affermazione (egli la travisa veramente un poco, per poter fingere d’aver ragione) è « una bufala ». Non avendo frequentato né il mattatoio di Roma né le stalle di Torrimpietra non saprei dire con esattezza cosa si intenda con questo termine. Comprendo che è una specie di insolenza, e me ne compiaccio, perché quando si passa alle insolenze vuol dire che argomenti validi non se ne hanno più. Confermo, ad ogni modo, che ritengo esista oggi, in Italia, una dittatura di classe della grande borghesia monopolistica, la quale deve però esercitarsi, in conseguenza di condizioni e conquiste storiche, politiche, ecc. in forme di una certa democraticità. Io esprimo questa semplice constatazione nei termini della dottrina marxista, ma oggi essa sta penetrando profondamente nella coscienza, per esempio, di migliaia e migliaia di giovani lavoratori e studenti. Oppormi che secondo una non so quale scienza moderna la società non sarebbe più divisa in classi, è cosa che si può raccontare… ai bufali, se si vuole, ma non a chi vive nel mondo di oggi. Quanto poi alle « degenerazioni » del regime sovietico di cui parlai io stesso nel ’56, a proposito di Stalin, e che a questo punto vengono tirate in ballo, proprio lo scritto in cui feci uso di quel termine era volto a dimostrare che la sostanza di classe del regime sovietico non era stata per nulla modificata dalle limitazioni e violazioni della democrazia a Stalin imputate. Non chiedo a nessuno, per carità, di leggere quello che io scrivo. Chiedo però che lo si faccia per riferire con esattezza, almeno, le cose che ho detto.
L’episodio, ripeto, non ha in sé grande valore. Serve però a mettere in luce un errore fondamentale, che viene fatto, di solito, in queste discussioni e che è un errore di superficialità, di formalismo e, in sostanza, di rifiuto di considerare con serietà le posizioni che vengono presentate, particolarmente, da parte nostra. Queste posizioni derivano da una dottrina politica e da principi di studio e di interpretazione della vita e storia della società che non si possono prendere di sottogamba come fossero un cumulo di sciocchezze. Quando noi diciamo che la storia di tutte le società finora esistite è storia di lotta di classi, ha un bello scuotere le spalle colui che non accetta questo principio. Scuotendo le spalle non dimostra nulla. Bisogna venire all’esame dei fatti e al giudizio delle situazioni concrete e qui cimentarsi.
E il rilievo che faccio è tanto più valido quando si discute, precisamente, di democrazia, perché si tratta di un campo nel quale circolano, e spesso prevalgono, le frasi fatte, molto belle, talora, ma alle quali non si sa, spesso, quale contenuto si debba far corrispondere.
Si sta dicendo da un po’ di tempo, per esempio, che per un partito di lavoratori il quale lotti per il socialismo tutto sta nel dichiararsi in ogni caso fedele alla democrazia « come metodo e come sistema » (« come mezzo e come fine », o simili). L’espressione è bella. Fa effetto, in un comizio. Può accontentare tutti, se la si inserisce in una risoluzione. Si potrebbe renderla anche più imponente trovando qualche altro sinonimo. Ma che cosa vuol dire, in realtà, questa fedeltà « al metodo e al sistema »? Vi sono state rivoluzioni democratiche (e anche rivoluzioni liberali) estremamente violente e sanguinose. Tutte le rivoluzioni borghesi sono state di questo tipo, in un primo periodo, benché oggi tutti sembrino essersene dimenticati, forse per far credere che l’uso della violenza sia stato riconosciuto storicamente valido solo dai marxisti e tradotto in pratica, solo da quei diabolici bolscevichi russi e comunisti cinesi. Ma in quelle rivoluzioni, la democrazia era « metodo », o era « sistema »? E più generalmente, c’era o non c’era? Si era nell’ambito della democrazia oppure fuori di esso, quando si mandavano alla ghigliottina, con procedimento assai sommario, i re e gli aristocratici? Potete discuterne a lungo. Potete trovare, a sostegno dell’una o dell’altra opinione, biblioteche intere. Alla fine dovrete concludere che nessun giudizio può darsi se non prendendo in esame gli obiettivi reali, economici e di potere, che in quel momento si ponevano ai differenti gruppi sociali e politici, i loro reciproci rapporti, le circostanze e condizioni del loro movimento, il grado di intervento delle masse popolari nell’arena politica, ecc. Perciò è fare opera di diseducazione diffondere la credenza che i problemi di una evoluzione democratica, del progresso verso il socialismo e di un rivolgimento socialista e, soprattutto, della responsabilità di un partito di lavoratori per la loro giusta soluzione, si risolvano facendo propaganda di una formuletta. Non si può sostituire una formuletta, qualunque essa sia, alla ricerca e determinazione precisa, concreta, degli obiettivi democratici e degli obiettivi socialisti che in ogni momento si pongono, del rapporto tra di essi e la condotta delle classi dominanti e quindi del modo più efficace e più giusto di lottare per raggiungerli, nelle circostanze che si conoscono. Se a questa ricerca e determinazione concreta si sostituisce la formuletta, non v’è dubbio che sarà l’avversario che se ne gioverà, perché gli sarà sempre facile dimostrare che ogni vostra azione efficace è contraria alla democrazia o come metodo o come sistema, che viola qualcuno dei principi democratici e così via. Teniamo pure sempre presenti e impieghiamo pure anche noi i termini generali nei quali è solito esprimersi il pensiero politico, ma non dimentichiamo mai, se vogliamo sfuggire all’equivoco e all’inganno, quale è il contenuto reale che ad essi corrisponde non dimentichiamo mai, cioè, che esiste una critica marxista del concetto di democrazia e che a noi spetta rendere popolare questa critica, facendola diventare parte integrante della coscienza di classe e della coscienza politica della classe operaia, delle masse lavoratrici e di tutti i buoni democratici, se vogliamo veramente aprire la strada a un rinnovamento e della democrazia e della società.
- Mi sia consentito affermare, infatti, che è in parte colpa nostra (intendo dire, dei partiti che combattono o dicono di combattere per il socialismo), ed è colpa, soprattutto, di alcune polemiche condotte contro di noi, in modo grossolano e puramente strumentale, da una corrente del Partito socialista, se in una parte dell’opinione pubblica e anche in una parte della classe operaia conserva importanti radici
la errata convinzione, secondo la quale gli ordinamenti democratici sarebbero propri e caratteristici del cosiddetto mondo occidentale, cioè dei paesi dove tuttora esiste, a diversi gradi di sviluppo, un regime capitalistico.
Ciò equivarrebbe a dire che la democrazia è una qualità di questo regime, mentre non sarebbe, per definizione e in partenza, una qualità dei regimi socialisti. Vi è tutta una pubblicistica, ai livelli più diversi, che tende a consolidare questa errata opinione. Si parte dalle volgarità e scemenze dell’anticomunismo da dozzina, per arrivare alle disquisizioni teoriche o sedicenti tali circa il rapporto di necessaria dipendenza che passerebbe tra la libertà economica della impresa capitalistica e la libertà in generale; circa la contraddizione insanabile che si dovrebbe stabilire tra una società economicamente giusta e una società organizzata su basi democratiche; circa la pretesa necessità oggettiva secondo la quale a un regime di intervento statale nella vita economica e direzione di questa secondo un piano dovrebbe necessariamente corrispondere la fine di ogni democrazia, ecc. ecc. Non intendo qui discutere la pretesa validità di queste affermazioni sul terreno della dottrina. Mi limito ad alcune elementari considerazioni storiche e politiche, perché queste sono, sotto ogni aspetto, decisive.
Si prenda la carta del mondo capitalistico, si segnino in rosso i paesi dove esiste un valido e reale regime di democrazia, in nero quelli di aperta tirannide, in grigio quelli che stanno in mezzo, dove esiste, cioè, un certo complesso di istituzioni democratiche, limitate, però, vacillanti e tutt’altro che capaci di assicurare un vero « governo del popolo, per il popolo e a mezzo del popolo ». La parte segnata in rosso risulterà assai ridotta, tanto per il periodo precedente la prima guerra mondiale (si pensi alla democraticità, in quel periodo, della Germania di Guglielmo II, dell’Austria di Francesco Giuseppe, della Russia, dei Balcani, della Spagna); quanto per il periodo tra le due guerre (quando il nero fascista e il grigio para-fascista coprono quasi tutta l’Europa); quanto per il giorno d’oggi.
E ora volgiamo pure l’attenzione ai paesi che sulla nostra carta possono essere rimasti, in qualcuno dei tre diversi periodi, colorati in rosso. Vale per questi paesi, prima di tutto, la radicale critica cui Lenin ha sottoposto tutti gli ordinamenti politici capitalistici, ben ponendo in luce che in questi ordinamenti i diritti di libertà e l’eguaglianza tra i cittadini hanno un limite invalicabile per il fatto che non sono mai eguali, né nella pratica della vita civile e politica, e nemmeno, in molti casi, davanti alla legge, lo sfruttato e lo sfruttatore. Ma io intendo lasciar qui da parte questa critica, tuttora e in ogni caso pienamente giusta, perché non mi si dica ch’essa presuppone i concetti di base e la terminologia del marxismo. Manteniamoci pure sul terreno di concetti e giudizi accolti da chi si dice fautore della democrazia, in generale. Troviamo prima di tutto che, nei casi più comunemente citati ad esempio di regimi democratici, si tratta quasi sempre di grandi metropoli capitalistiche, che opprimono e sfruttano barbaramente masse sterminate di uomini nelle più diverse parti del mondo.
E’ democrazia, questa? Certamente no. Troviamo, per interi decenni e nei più diversi paesi, una legislazione che limita la libertà di organizzazione e movimento della classe operaia e delle masse lavoratrici. Normale l’intervento della forza pubblica nei conflitti del lavoro, per dare appoggio ai padroni. Ammesso soltanto all’inizio di questo secolo, e spesso dopo resistenze e lotte assai aspre, il suffragio universale. Negata la parità di diritto alle donne; contestate e negate le libertà delle minoranze nazionali. Sopravviventi istituti politici, come la camera dei Lords in Inghilterra, che non si inquadrano in nessun modo in uno schema di governo democratico e conservano fino agli inizi del secolo inammissibili poteri. Troviamo in un paese come la Francia, ad esempio, e col suffragio universale, sistemi elettorali che tendono tutti, con un espediente o con l’altro a seconda delle circostanze, a impedire che la composizione delle assemblee elettive corrisponda alla volontà dei cittadini, sostituendo a questa un risultato prefabbricato, corrispondente agli interessi e alle decisioni dei gruppi dirigenti, ma in nessun modo ai principi della democrazia. Troviamo infine, nel tempo a noi più vicino i divieti del Partito comunista, le persecuzioni contro di esso, le discriminazioni, i processi (nella Germania di Adenauer) persino ai fautori del movimento per la pace, e così via.
Che cosa si deve concludere da tutto questo? Si deve concludere che è assurdo lasciar diffondere o, peggio ancora, contribuire a diffondere, nel movimento operaio, socialista e comunista, una specie di complesso di colpa nei confronti del problema della democrazia, come se per loro natura e vocazione fossero « democratiche » le classi contro le quali noi combattiamo per togliere loro il potere e a noi spettasse, quasi in sede di giustificazione, dimostrare che socialismo e democrazia sono cose che si possono anche conciliare. La verità è ben diversa, la verità è l’opposto, ed è la realtà delle cose che lo dimostra. Liberali e democratiche sono state le classi borghesi in un periodo determinato e in determinati paesi (non dappertutto!), quando gli ordinamenti liberali e l’estensione dei diritti democratici sono serviti, allargando il quadro della lotta politica e facendo entrare sulla scena le masse popolari, a creare le basi di un potere della borghesia. Ottenuto questo risultato, incomincia un processo diverso, di compromesso o ricerca di compromesso con gruppi sociali conservatori e reazionari anche di natura precapitalistica, di ostacolo al consolidamento e alla estensione delle libertà democratiche, di restrizione di queste libertà, ecc. Non neghiamo affatto che siano esistiti e tuttora esistano, in diversi paesi e in condizioni particolari, gruppi politici di natura borghese (cioè legati al sistema della produzione capitalistica) i quali si schierano a difesa delle istituzioni democratiche: a ciò li porta, talora, anche un interesse economico diretto, oltre che una posizione ideale.
Affermiamo, però, che l’esistenza e il progresso della democrazia sono da più di un secolo, ed essenzialmente oggi, legati alla presenza e allo sviluppo di un movimento popolare e di un movimento operaio organizzati, forti, consapevoli dei loro obiettivi politici e capaci di farli valere attraverso azioni e lotte unitarie. E’- l’avvento della classe operaia sulla scena dei conflitti politici e sociali, con le sue rivendicazioni immediate e con la sua aspirazione a un nuovo assetto economico, il motore del progresso democratico nel mondo moderno, ed è dal peso specifico che la classe operaia ha nella vita nazionale, dal grado della sua coscienza politica e di classe, dalla sua unità e dalla efficacia delle sue lotte che dipendono le sorti della democrazia. Quando vi è, in questo campo, un indebolimento o un arretramento, allora e sempre in pericolo la democrazia. Anche per un paese come l’Inghilterra, penso che un’attenta ricerca storica e politica porti alla conclusione che il carattere liberale e democratico delle sue istituzioni sia da riferirsi non tanto alle tradizioni, su cui troppo e non criticamente si insiste, quanto al fatto che la classe operaia e le sue organizzazioni sono progressivamente diventate una forza con la quale tutti, e cioè anche gli uomini politici della borghesia, sono stati costretti e sono oggi costretti a fare i conti.
- Main quale misura, nelle società cosiddette occidentali, principi e pratica della democrazia penetrano nella direzione della vita economica? In misura assai limitata: anzi, per lo più non vi penetrano affatto. Credo non ci sia nessuno che voglia sostenere che siano organismi democratici le assemblee delle società per azioni e decisioni democratiche quelle dei consigli di amministrazione delle banche, dei grandi monopoli industriali, ecc. La democrazia non c’entra per niente, in questo campo, che è decisivo per lo sviluppo della vita economica e quindi per quello di tutta la società civile. La maestranza di una officina, tecnici compresi, e tutta la popolazione di una città può essere convinta, sulla base della indagine più scrupolosa, che non si deve chiudere quella fabbrica, ma svilupparla in quella determinata direzione per fare l’interesse di tutti: ciò serve a ben poca cosa. Decide l’interesse del capitalista. E’, convinzione di tutti che il contratto di mezzadria deve sparire, perché fa ostacolo allo sviluppo agricolo. Che importa? Decide la volontà dei proprietari dei grandi poderi, i quali sono, democraticamente, una minoranza. Qualche barlume di democrazia può penetrare, qui, attraverso l’azione dello stato, cioè degli organi del governo; ma si veda come questa azione è limitata, contorta e sottoposta anch’essa, alla fine, alla volontà e alle decisioni delle classi che sono, economicamente, dirigenti. Per quanto abbiamo cercato, non siamo riusciti a trovare nessun esempio di un’assemblea parlamentare elettiva che abbia, col suo voto, modificato in modo radicale e in senso democratico il bilancio dello stato presentatole dal governo. Tutti sanno, invece, che alla formazione di questo bilancio contribuiscono in modo attivo e decisivo i rappresentanti dei grandi gruppi capitalistici. L’intervento dello stato nel campo della direzione della vita economica è per lo più indipendente da qualsiasi forma di decisione e di controllo democratici, e ove questi, in qualche misura, esistono, si tratta di casi che fanno eccezione, nel mondo cosiddetto occidentale.
Una di queste eccezioni dovrebbe essere l’Italia. E’ bene quindi parlare apertamente del carattere del nostro regime attuale. La costituzione che lo regge è democratica. Non soltanto, ma è una costituzione nella quale si esprime in modo positivo la tendenza, che fu generale nell’Europa capitalistica subito dopo la seconda guerra mondiale, estendere al campo economico i principi democratici, limitando il potere esclusivo dei gruppi dirigenti capitalistici e modificando, quindi, le strutture economiche della società. Ebbene, ciò che è avvenuto nel nostro paese potrebbe essere preso come esempio, degno di un manuale di scienza politica, del modo come non si attuano i principi della democrazia. Usciti dal governo i rappresentanti dei partiti popolari avanzati, tutti i successivi governanti, dal primo all’ultimo, sarebbero passibili di venire giudicati da un’alta corte, per avere governato come se la costituzione non esistesse. Ci sono volute lotte aspre di massa, c’è voluto il sacrificio e il sangue dei contadini, perché si facesse una riforma agraria, che non è un’applicazione integrale della costituzione. C’è voluto il sacrificio e il sangue degli operai per chiedere (e ancora non la si è ottenuta) la rinuncia al barbaro costume dell’uso della forza armata contro i lavoratori, nei conflitti di lavoro. Ci sono volute azioni ampie e continue, lotte anche acute, per spingere i governanti a fare qualche timido passo sulla via dell’intervento democratico nella vita economica, con una certa politica di investimenti e così via. Tutto questo è servito a indicare la strada da seguire e mantenerla aperta; ma non ha affatto cambiato la sostanza, ed è stato sufficiente l’indebolimento, in certi momenti, della vigilanza e dell’azione popolare perché venisse alla luce la permanente e profonda aspirazione antidemocratica dei gruppi dirigenti borghesi e di coloro che governano.
E il nostro parlamentarismo? Parliamone pure. E’ una grande conquista, siamo d’accordo; ma più per ciò che dovrebbe e potrebbe fare, che per quello che fa. Ha il vizio d’origine delle elezioni governate, per molta parte, dalle gerarchie ecclesiastiche, cioè da una forza antidemocratica; oltre al vizio generale che una consultazione del tipo tradizionale, come quelle che hanno luogo nel mondo « occidentale », tende sempre a esprimere più la passività delle masse e il loro legame col presente, che la loro profonda aspirazione a un rinnovamento sociale. E’ paralizzato, nella formazione delle maggioranze, dalla preclusiva politica lanciata contro comunisti e socialisti; dalla dottrina dell’area « democratica » (si legga capitalistica), nella quale soltanto si muoverebbero le forze capaci di governo. Acquista quindi, per le conseguenze stesse dell’applicazione di questa dottrina, uno spiccato carattere di classe.
E’ insidiato dalla tendenza continua a limitare l’efficacia delle sue decisioni, a svalutare i suoi stessi dibattiti, a costringere in confini assai ristretti i suoi poteri di controllo. Quando si tratta, infine, di questioni di fondo, relative alle strutture della società e alla necessità di trasformarle, si trova di fronte a barriere insormontabili. Vi è tutta un’attività, per la quale è stato creato il termine di sottogoverno, che sfugge totalmente al suo controllo. E si tratta della vera attività governativa di tutti i giorni, da cui dipendono questioni vitali per tutti i cittadini, e dove regna la corruzione più sfacciata. I governanti però, ogni tanto, colti sul fatto, promettono di far bene, e così si sostituisce a poco a poco, a una concezione democratica, la visione paternalistica di un arbitrio illuminato. E questo nel migliore dei casi!
La spinta democratica non è venuta e non viene, nella attuale situazione italiana, dalle classi dirigenti. E’, venuta dalle masse popolari e dai partiti che meglio le rappresentano e che hanno lottato e lottano perché i principi costituzionali progressivi siano rispettati, applicati e sviluppati. Viene dalla classe operaia, da noi comunisti, dai compagni socialisti e da quei democratici che non si sono piegati al potere delle classi dirigenti borghesi e dei partiti che le rappresentano. Lo stesso parlamento, i suoi lavori e le sue decisioni traggono vivacità ed efficacia dal fatto che un forte movimento di masse popolari in lotta si sviluppi, su temi determinati, nel paese. Né sono sufficienti queste constatazioni. Bisogna altresì affermare che la nostra spinta democratica è stata efficace e continua e continuerà ad esserlo proprio perché non ci siamo accontentati delle forme, ma abbiamo combattuto per avanzare verso il socialismo. Questa nostra lotta dà alle stesse libertà democratiche un contenuto nuovo; valorizza i diritti di libertà perché li accosta alle rivendicazione del benessere e del progresso economico; colloca lo stesso parlamentarismo su un piano assai più elevato; sollecita profonde trasformazioni democratiche dell’ordinamento politico (lo sviluppo dei poteri locali, il regionalismo, ecc.); pone il problema della adozione e dello sviluppo di forme nuove di democrazia, nelle officine e nei campi, per ottenere che le trasformazioni e i progressi economici servano al soddisfacimento delle rivendicazioni vitali delle masse lavoratrici. E’ la nostra azione per spingere la società sulla via del socialismo che anima, dà contenuto ed efficacia alla nostra lotta per la democrazia e a tutta la vita democratica del paese.
E questo lo si deve far capire bene a tutti, non solo sottolineando l’esistenza di questo inscindibile nesso tra la lotta democratica e la lotta socialista, ma dimostrando, con le parole e soprattutto con i fatti, che per noi la democrazia è qualcosa di reale e di nuovo. Non ci bastano le forme. Non basta una consultazione elettorale ogni tanto, per gettare le fondamenta di un regime democratico. Le maggioranze plebiscitarie di Hitler furono episodi di una odiosa tirannide e gli odierni plebisciti di De Gaulle confermano, se ve ne fosse bisogno, che il suo regime non è democratico. Noi vogliamo che la volontà popolare sia veramente determinante degli sviluppi politici e penetri, trasformandolo, nel tessuto stesso della vita economica e quindi di tutta la società civile. Qui sta la grande differenza; il momento caratteristico del « democratismo » di coloro che lottano per arrivare al socialismo.
- Questa impostazione, che non è dottrinaria, ma corrisponde a una politica reale, di cui particolarmente in Italia e dal nostro partito è stata fornita la prova, contiene in sé, implicita ed esplicita, la risposta al problema del « poi », cioè di quello che faranno, e in particolare se si manterranno sul terreno della democrazia, le forze che oggi lottano per il socialismo, il giorno che toccherà a loro dirigere la società e amministrare il potere. Il «poi» dovrà essere e sarà coerente con l’oggi, cioè col contenuto democratico delle nostre lotte attuali. L’avvento al potere delle classi lavoratrici è l’inizio della creazione di un vero regime di democrazia, nel campo economico, nel campo politico, in tutta la società civile.
Perché, allora, parlare di dittatura? Prima di tutto, noi non parliamo di dittatura e non pensiamo ad essa come ne parlano o come vi pensano, per esempio, i padri gesuiti. Secondo uno dei più autorevoli interpreti del loro pensiero, « la dittatura non è per se stessa un male, e non lo è punto quando buona parte del popolo vi consenta, per l’impossibilità di provvedere altrimenti alle esigenze appunto vitali della conservazione dello stato e della trasformazione non rivoluzionariamente violenta del superato suo regime politico » . E’ più che evidente, in queste parole, l’intenzione di giustificare un regime antidemocratico, cioè una tirannide di tipo fascista, purché instaurata a freddo, senza troppo scandalo. La dittatura di cui noi parliamo è cosa ben diversa: è, in linea di principio, una estensione della democrazia. Essa vuol dire l’avvento alla direzione della società di una nuova classe dirigente, la classe operaia unita alle grandi masse lavoratrici, con il compito di organizzare la utilizzazione delle ricchezze sociali nell’interesse di tutti e non soltanto di una casta di privilegiati, di porre fine, quindi, allo sfruttamento dell’uomo e assicurare a tutti una vita degna e il necessario sviluppo della loro persona. Questo avvento al potere di una classe nuova è, per sua natura, l’inizio del vero rinnovamento democratico di tutta la società.
(1) Rinascita aprile 1961
[1] Conflitti di classe e riforme istituzionali, Quaderno n.1 del Centro Il Lavoratore, ripreso da “TOGLIATTI Scritti sul centrosinistra 1958-64” 2 Vol., Istituto Gramsci e cooperativa editrice universitaria Firenze, 1975