Foto: Luciano Casamonica, al centro, con Salvatore Buzzi e l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, nella famosa foto della cena al centro Baobab.
Di Stefano Ciavatta
A quasi una settimana di distanza dalla sua celebrazione, e mentre ancora ci si chiede come sia stato possibile arrivare a tanto, l’incredibile funerale di Vittorio Casamonica continua a dominare il dibattito nazionale. L’altro giorno è intervenuto sul tema il prefetto di Roma Franco Gabrielli, che oltre a parlare di una “vicenda gravissima” ha ammesso le responsabilità delle istituzioni sull’accaduto: “Le informazioni c’erano, ma non hanno raggiunto i vertici delle strutture.”
Di converso, l’enorme esposizione mediatica non sembra essere stata troppo gradita dai membri del clan. Sui loro profili Facebook, ad esempio, i nipoti del defunto si sono sfogati con post di questo tenore: “A razzisti parlate solo quello sapete fa oltre che parla leccate er culo cojoni.” In almeno due occasioni, inoltre, alle parole sono seguiti i fatti. Nella Capitale, una troupe Rai della trasmissione Agorà è stata aggredita mentre riprendeva le abitazioni delle famiglie Casamonica e Spinelli al Quadrato. A Terzigno, in provincia di Napoli, Alessio Viscardi di Fanpage ha invece subito delle minacce di morte da alcuni individui per aver fatto un servizio sull’eliporto da cui è partito l’elicottero utilizzato al funerale.
Per cercare di correre ai ripari, le autorità hanno fatto in modo che la messa di suffragio per Vittorio Casamonica—svoltasi proprio oggi—si tenesse in forma strettamente privata. Il motivo lo ha spiegato lo stesso Gabrielli, soffermandosi ancora una volta sulle esequie alla basilica di Don Bosco: “Molto probabilmente tutti noi siamo stati strumento dei vari Casamonica. Sono stati gli stessi a veicolare le immagini del funerale visto che non c’era stato neanche un tweet con la notizia. […] Quello che più brucia è non essere intervenuti per tempo, facendo svolgere le esequie in un modo diverso.”
Ma che i Casamonica facciano a modo loro non è una novità. Quanto al buco temporale, ce n’è uno grosso nella storia di questa famiglia di sinti abruzzesi e cristiani che dominano le borgate del quadrante sud-est della Capitale—ed è un buco che per certi versi dura da almeno quarant’anni.
Per capire l’ascesa dei Casamonica ho chiamato Massimo Lugli, uno dei più grandi cronisti di nera della Capitale. “È difficilissimo spiegare il modo di essere dei Casamonica,” inizia. “Avevo 19 anni, ero arrivato a Repubblica da una settimana e mi chiamò uno dei ‘trombettieri’, quei personaggi—mezzi giornalisti, mezzi poliziotti—che vivevano costantemente in questura e al giornale non venivano mai. Lui mi disse che era stato preso un Casamonica, ‘hai presente gli zingari?’, ma per me non significava nulla.” Da quel momento, continua Lugli, “li avrò incrociati almeno duecento volte, compreso il primo e unico omicidio, tra l’altro fortuito, in cui fu coinvolto un Casamonica.”
Verso la metà degli anni Settanta, il paranoma criminale a Roma era diviso principalmente tra le gang dei marsigliesi e la mala capitolina, mentre i Casamonica erano ancora relegati in un ruolo piuttosto “laterale.” Poi, continua Lugli, “arrivò il terrorismo e la cronaca finì occupata dagli estremismi, e anche la banda della Magliana fu ignorata nonostante tutti gli omicidi commessi.” Nonostante ciò, “sapevamo che i Casamonica esistevano come grande malavita zingara ma non avevano questo peso, poi nei decenni successivi sono diventanti un fattore irripetibile del milieu romano, un clan da cui non si può prescindere.”
Per arginare i mille rivoli del mondo Casamonica—”Li Casamonica…cento famiglie, uno più stronzo de n’altro,” dice Massimo Carminati in un’intercettazione—la squadra mobile di Roma ha dovuto censire tutto il clan, stilando una lista di almeno un migliaio di affiliati. È infatti impossibile infiltrare qualcuno nei Casamonica: sono tutti imparentati. Per questo nessuno ha mai collaborato, e nella storia della famiglia non ci sono mai stati dissociati o pentiti.
L’unico racconto sui Casamonica è in mano dei Casamonica, oppure si evince dalle cronache delle operazioni di polizia che ciclicamente si abbattono sul clan. Solo negli ultimi cinque anni, giusto per rendersi conto, nei confronti della famiglia ci sono stati “117 provvedimenti di custodia cautelare o arresto,” e “beni e immobili sequestrati per oltre 4,5 milioni di euro.”
Il nuovo rapporto dell’Osservatorio per la legalità e la sicurezza della Regione Lazio ha fatto una radiografia dettagliata dei Casamonica. “Si tratta di una fenomeno criminale complesso,” si legge, “perché i Casamonica vengono deportati a Roma durante il fascismo” ed è “un gruppo enorme composto da diverse famiglie: Casamonica, Di Silvio, Di Gugliemo, Di Rocco, Spada e Spinelli. Famiglie strettamente connesse sulla base di rapporti fra capostipiti che si sono sposati con appartenenti alle varie famiglie, sul modello della ‘ndrangheta.”
Nel corso della loro scalata, i Casamonica sono stati più volte incriminati per spaccio e traffico di stupefacenti, usura tramite società finanziarie, scommesse clandestine, strozzinaggio e recupero crediti per conto terzi. Pur essendo diventato uno dei gruppi malavitosi più potenti e radicati del Lazio—la DIA stima il loro patrimonio in circa 90 milioni di euro—il reato di associazione per delinquere è stato contestato solo nel 2012. Loro stessi però rifiutano sdegnosamente la definizione di “clan” o “mafia,” e in questi giorni hanno sostenuto che la vera mafia è “dentro la politica.”
In passato i Casamonica hanno avuto legami con Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana, punto di contatto a Roma per tutte le organizzazioni mafiose e con cui alcuni esponenti del clan hanno condiviso la condanna per estorsione. Oggi, sempre secondo l’Osservatorio, i Casamonica coltivano altri legami: “Come risulta da numerose indagini e sentenze passate in giudicato, il clan gode della considerazione criminale da parte delle consorterie criminali calabresi e campane.”
L’inchiesta Mafia Capitale ha portato alla luce ulteriori rapporti—quelli tra Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Luciano Casamonica. Quest’ultimo, secondo le carte della magistratura, avrebbe preso 20mila euro al mese dai primi due per fare il “mediatore culturale” nel campo rom di Castel Romano, che rientrava nelle mira affaristiche dell’organizzazione.
La territorialità è indubbiamente uno dei principali punti di forza dei Casamonica. Non a caso, “Re di Roma” stava scritto sugli striscioni del funerale di Vittorio Casamonica; e nel 2012—nell’inchiesta sulla Roma criminale pre-Mafia Capitale—il giornalista Lirio Abbate aveva affibbiato lo stesso titolo a Giuseppe Casamonica, mettendolo sullo stesso piano di boss del calibro di Massimo Carminati, Giuseppe Fasciani e Michele Senese.
Da decenni, comunque, il clan ha occupato la Piccola Roma, come gli abitanti chiamavano un tempo la loro borgata, la Romanina, un quartiere a ridosso dello svincolo del Gra, appena oltre Appio, Cinecittà e Anagnina. È qui che dal 1970 al 1990 nasce l’enclave Casamonica, fortificata all’interno con recinzioni, videocamere, vigilanza armata, e trasformata all’esterno in unmercato permanente per i tossicodipendenti di tutta l’area sud di Roma e per quella dei Castelli Romani, con una rete sofisticata di pusher e vedette, per lo più donne.
La mappa dell’Espresso del 2012.
Nella storia dei Casamonica, le donne sono quasi un capitolo a parte. “Essendo zingari cristiani,” mi spiega Lugli, “tra i sinti la donna ha un ruolo importante nella gerarchia. Nei Casamonica gestiscono la parte finanziaria, lo spaccio al dettaglio. Lo vedi nell’atteggiamento alle feste: non sono le pupe del boss, sono le madri. I conti a San Marino li hanno aperti le donne dei Casamonica. Hanno un potenziale criminale fortissimo.” Oltre a ciò, le donne dei Casamonica hanno mostrato di essere in grado di sopportare pressioni fortissime pur di difendere il proprio uomo: come l’estorsione di prestazioni sessuali in cambio di favori processuali.
In un’intervista allo stesso Lugli di qualche anno fa, il colonnello Castello dei Carabineri di Frascati ha raccontato cosa produce in concreto questo senso del territorio: “Proprio perché territoriali, i Casamonica devono mostrare quello che hanno, che sono capaci di restare impuniti e di commettere qualsiasi reato. […] La violenza è una componente sempre presente nella loro dinamica, devono far vedere che sono arroganti. C’è un rifiuto della legalità che si manifesta in tutti i modi, rubando persino la corrente elettrica perché loro sono i Casamonica e non devono pagare nessuno.”
Uno dei modi più plateali in cui si manifesta il disprezzo assoluto delle regole è l’abusivismo edilizio, e in questo senso le case dei Casamonica sono davvero celebri. Sono lussuose e pacchiane oltre ogni misura, ma al contempo “abitate da affiliati che dichiarano un reddito inferiore alla soglia di povertà.” Si tratta di universi chiusi che grondano ricchezza, pieni di oggetti del desiderio e tecnologia da centro commerciale.
Nelle ville e villette abusive dei Casamonica è tutto sincretico, mischiato, sopra le righe. Gioielli, rubinetti e maniglie in oro, orologi, Jacuzzi, macchine di lusso, scale di marmo, stucchi, specchi, tigri di ceramica, tappezzeria pesante—uno sfarzo alla Scarface. Anche la leggenda dei caminetti sempre accesi per bruciare la cocaina in caso di perquisizioni mi viene confermata dallo stesso Lugli.
Un’immagine di un sequestro dei Carabinieri nei confronti dei Casamonica. Via.
Ma a questa ricchezza certificata, esplicita, per accumulo, fanno appunto da contraltare la violenza da strada, la mediazione forzata con le botte e le minacce. I Casamonica però non usano le armi da fuoco, non sparano. C’è ancora una concezione da bullismo, e non a caso in famiglia ci sono stati pugili di un certo livello, campioni e olimpionici come Romolo Casamonica, non esente anche lui da grane giudiziarie. I Casamonica girano in Ferrari ma girano anche assegni falsi, e non solo—il campionario criminale include imbrogli, truffe e lavori non pagati.
Ed è proprio da una commissione non saldata che sappiamo dell’unica denuncia di un privato raccolta dai media. Nel 2010, il marmista iraniano Mehdi Dehnavi aveva eseguito dei lavori per decine di migliaia di euro nella villa di Guido Casamonica. Alla legittima richiesta di pagamento, Dehnavi è stato prima minacciato e poi pesantemente aggredito dal membro del clan, che è stato poi denunciato e condannato in primo grado a cinque anni di reclusione. Il marmista ha poi dovuto spostare l’attività fuori Roma e trasferire all’estero la famiglia, per proteggersi dalla protervia da gang di quartiere che diventa richiesta implicita di pizzo.
Sono storie del genere a evidenziare questa specie di “fase primitiva e formativa” in cui ancora si muovono i Casamonica, nonostante calchino le scene da svariati decenni. Come mi spiega il cronista romano Yari Selvetella—autore del saggio Roma Criminale (con Cristiano Armati) e del romanzo La Banda Tevere—i Casamonica “sono stati capaci di gestire un piccolo territorio in maniera quasi spontanea, facendolo diventare letteralmente un feudo personale, anche chiudendo le strade con i secchioni della mondezza.”
Il cambio generazionale dei Casamonica, prosegue Selvetella, è coinciso con il salto di qualità: essendosi posto come una specie di service criminale, quando altre realtà si sono prosciugate i Casamonica “si sono trovati a essere degli interlocutori.” Nella rappresentazione mediatica, tuttavia, il clan è stato visto a lungo come un “fenomeno di costume, certamente pittoresco rispetto all’immagine delle grandi mafie. Chiedevano l’elemosina ad Anagnina, con i grandi macchinoni posteggiati fuori casa. L’ostentazione, insomma, ce l’hanno sempre avuta.”
Ma resta il fatto, conclude il cronista, che “la nascita e il consolidamente del clan sono stati consentiti da tutte le amministrazioni.” E mai come nel corso dell’ultima settimana il mondo intero—non solo Roma—ha potuto toccare con mano la reale portata di questa sottovaluzione.
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agosto 26, 2015