Antonio Ingroia sarà avvocato dell’Ass.Georgofili e Ciancimino prende la parola
di Aaron Pettinari
Oltre vent’anni. Tanto tempo è passato da quelle stragi che nel ’92 e nel ’93 hanno segnato il nostro Paese. In questi anni la ricerca della verità su quegli attentati e sulle motivazioni che hanno spinto Cosa nostra ad agire attuando una “politica eversiva” tanto devastante è stata continua fino ad accelerare negli ultimi anni e sfociare nel processo “Bagarella +9” noto anche come il processo “Trattativa Stato-mafia” e che vede tra gli imputati nomi eccellenti come il generale Mario Mori, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e l’ex ministro Nicola Mancino. Un procedimento che può fare la storia e che si celebra in un’aula, il bunker dell’Ucciardone, che nell’immaginario collettivo è ben impresso come l’aula del “Maxi processo alla mafia”. Tra il pubblico si scorge la figura di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, assieme alle “sue” Agende Rosse, giunti sul posto per ascoltare e sostenere da vicino proprio i magistrati che si sono impegnati per giungere proprio a questo momento storico. Innanzi alla Corte d’Assise di Palermo si riprende dopo la pausa estiva con la relazione introduttiva dei pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
E’ toccato proprio a quest’ultimo introdurre i temi che verranno affrontati in dibattimento per dimostrare il consumarsi tra gli imputati del reato contestato, ovvero quello di “attentato, con violenza o minaccia, a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, tutto aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra”.
Nella sua relazione Tartaglia ha ripercorso le prime fasi in cui Cosa nostra, dopo la sentenza di Cassazione del maxi processo, cambia rotta ed avvia una serie di iniziative di ritorsione applicando una strategia stragista. “Intendiamo provare – ha detto il pm – che con l’ideazione di questa strategia i vertici di Cosa nostra si determinarono a perseguire una pluralità di obiettivi: quello di neutralizzare definitivamente i cosiddetti nemici storici dell’organizazione mafiosa, ovvero i magistrati che si erano maggiormente esposti nell’azione antimafia, quello di punire tutti coloro che, tra cui politici, non avevano garantito i risultati auspicati”. Quindi ha ricordato l’omicidio dell’ex eurodeputato Salvo Lima, ucciso nel marzo 1992, come il primo “segnale” inviato ai referenti politici di quel tempo che per primi hanno iniziato a temere per la propria vita e avviando così un dialogo per evitare la fine fatta dal leader siciliano della Dc.
Ed è un dato di fatto che quei piani di morte vengono “messi da parte” da Cosa nostra, e sostituiti con il raggiungimento di altri obiettivi quali l’eliminazione, nel giro di pochi mesi, dei giudici Falcone e Borsellino. E per capire il mutamento della strategia mafiosa che viene messo la Procura di Palermo ha anche chiesto l’acquisizione agli atti, oltre alle sentenze relative all’omicidio dell’onorevole Lima o alla sentenza Borsellino ter, della relazione sull’attività del primo semestre svolta dalla Dia nel ’92 in cui il Ministro Scotti già mette in evidenza alcuni aspetti.
E poi ancora “cercheremo di dimostrare l’acquisizione del pericolo di attentati analoghi all’omicidio Lima nei confronti di altri politici di Governo, con la prima attivazione da parte dell’onorevole Mannino, tramite canali informali forse anche clandestini che hanno portato ad una congiunzione diretta con Cosa nostra volta a conoscere le richieste per un abbandono dell’attacco frontale dello Stato”. Un piano di destabilizzazione che venne espresso da ben 12 circolari, provenienti dal Ministero degli Interni, riservate ed indirizzate ad uffici di polizia e prefetture il 21 marzo 1992.
“Circolari in cui non ci si limita a delineare l’allarme ed i rischi concernenti ad alcune azioni da parte della criminalità organizzata siciliana, ma vengono individuati almeno tre obiettivi imminenti come Mannino, Vizzini e lo stesso Presidente del Cosniglio Andreotti”. Tartaglia ha spiegato anche la necessità di capire il motivo per cui, tra il 1991 ed il 1993 vengono svolte da Cosa nostra diverse attività che vengono poi nascoste sotto la sigla “Falange armata” in quello che si presenta come un quadro di natura eversiva testimoniato anche da collaboratori di giustizia che erano presenti alle riunioni della Commissione regionale di Cosa nostra, nelle campagne di Enna, in cui si prese una tale decisione. E tra i documenti di cui si è richiesta l’acquisizione non potevano certo mancare le due lettere inviate dal “depistatore” Elio Ciolini, vicino agli ambienti dell’estrema destra, il 4 ed il 18 marzo del 1992. Missive in cui veniva preannunciato con largo anticipo l’attivazione della strategia stragista, collocandola proprio tra il marzo ed il luglio del 1992. “In questo processo – ha poi aggiunto Tartaglia – cercheremo anche di mettere in evidenza le pressioni con cui si è arrivati alla sostituzione alla direzione del Dap di Nicolò Amato con Capriotti e Di Maggio”.
Secondo l’accusa altro punto da approfondire è, ovviamente, l’avvio del colloqui tra Cosa nostra ed istituzioni che in particolare si sarebbe sviluppato con l’attività del Ros che tramite De Donno e Mori si era messo in contatto con Vito Ciancimino ed i Corleonesi.
“Intendiamo dimostrare inoltre che il dialogo occulto tra parti delle istituzioni e i vertici di Cosa nostra proseguì anche dopo la strage di via D’Amelio del luglio del ’92, dopo l’arresto di Vito Ciancimino del dicembre dello stesso anno e dell’arresto del boss Totò Riina avvenuto nel gennaio del 1993”. Stavolta a prendere la parola è il titolare dell’inchiesta Antonino Di Matteo che ha proseguito: “Questo dialogo occulto proseguì anche attraverso durissime missive ricattatorie, la più importante delle quali ad opera di sedicenti parenti di detenuti per mafia – ha proseguito Di Matteo – La minaccia proseguì con l’attentato di Roma che coinvolse anche Maurizio Costanzo, l’attentato di via dei Georgofili del maggio ’93 e gli attentati di Milano e Roma per intimidire ulteriormente le istituzioni per attenuare il trattamento penitenziario dei detenuti più pericolosi”. “Intendiamo dimostrare – ha aggiunto il magistrato – come ci siano stati inequivocabili segnali di cedimento di soggetti per il trattamento penitenziario”. Quindi ha parlato della mancata proroga di 334 decreti di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, per altrettanti mafiosi. “In quel periodo c’è stato l’avvicendamento del ministro Claudio Martelli alla Giustizia con Giovanni Conso e l’avvicendamento tra il capo del Dap Nicolò Amato con il duo Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio”. Poi ha annunciato che la Procura “intende dimostrare la certa individuazione del Ros dell’allora latitante Nitto Santapaola nell’aprile del ’93 e la mancata attivazione per la cattura del latitante”. Per uno schema che rientrava nella trattativa e che anche successivamente venne messo in atto in occasione del mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva il capomafia Bernardo Provenzano. “A nulla valsero le segnalazioni del colonnello Riccio che aveva trasmesso le confidenze di Luigi Ilardo, ucciso proprio pochi giorni prima che la sua collaborazione con la giustizia diventasse ufficiale. Il Ros indagava su Provenzano e i due ufficiali Subranni e Mori, oltre a non intervenire per la cattura dell’allora latitante, non trasmisero alcuna comunicazione alla Procura competente per le indagini che era quella di Palermo”. Tematiche da approfondire a prescindere dalla sentenza del processo Mori-Obinu (le cui motivazioni sono attese entro il 17 ottobre prossimo) che ha visto assolvere in primo grado gli ufficiali dell’arma dall’accusa.
Inoltre è stata richiesta l’acquisizione di documentazione, ed anche l’accettazione della lista testi, in merito alle vicende successive al 1994 (compreso il fallito attentato all’Olimpico ndr), che hanno portato Cosa nostra a “ricercare nuovi referenti politici per tramite dell’ex senatore Marcello Dell’Utri che aveva un collegamento diretto con Silvio Berlusconi”.
La necessità di fare chiarezza su certe azioni per la Procura di Palermo va espressa anche a prescindere dai ruoli istituzionali che si rivestono. Ancora una volta Di Matteo ha evidenziato la necessità di citare a deporre come teste il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (già nella lista testimoniale depositata ai giudici ndr).
“La testimonianza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano al processo per la trattativa tra Stato e mafia è certamente pertinente e rilevante in questa sede dibattimentale – ha detto il pm durante la relazione riferendosi in particolare a una telefonata intercettata tra l’ex consigliere giuridico di Napolitano Loris D’Ambrosio, morto un anno fa, e l’ex ministro Nicola Mancino, tra gli imputati del processo accusato di falsa testimonianza. Si tratta di quella del 5 aprile 2012, tra l’altro, all’indomani della lettera inviata dal Colle al Procuratore generale della Cassazione, dopo che Mancino aveva trasmesso per iscritto alcune rimostranze, D’Ambrosio disse a Mancino: “Il Presidente condivide la sua preoccupazione cioè, diventa una cosa… inopportuna…”. E Mancino aveva replicato: “Questi si dovrebbero muovere al più presto”. Ma ci sono anche altre telefonate intercettate. in un’altra telefonata, del 25 gennaio, D’Ambrosio parlò con Mancino della sua nomina al Viminale nel luglio ’92, al posto di Vincenzo Scotti. Non solo “È importante ascoltare Napolitano – ha detto Di Matteo – perché è l’unica possibilità per approfondire i timori espressi da D’Ambrosio nella lettera che il consulente giuridico inviò allo stesso Capo dello Stato il 18 giugno 2012. Nella missiva D’Ambrosio esprimeva il timore di essere stato usato ‘come l’ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo di indicibili accordi’ facendo riferimento a fatti accaduti tra l’89 e il ’93”.
E sui vari colloqui tra il Quirinale e il “privato cittadino” Nicola Mancino ha escusso il pm Francesco Del Bene. Partendo dall’accusa nei confronti dell’ex ministro, il quale avrebbe reso false dichiarazioni durante il processo innanzi al Tribunale di Palermo a carico di Mori e Obinu in relazione alla reale motivazione sull’avvicendamento con Scotti, nel giugno 1992, al momento della costituzione del governo Amato, “si cercherà di dimostrare che l’avvicendamento sia avvenuto per dare un segnale politico di distensione”. Non solo. Per la Procura Mancino avrebbe mentito “negando la conoscenza dei contatti intrapresi dagli ufficiali dei Carabinieri del Ros, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino, oltre ad aver negato le lagnanze del Ministro della Giustizia Martelli sull’operato non autorizzato dello stesso Ros per aver avviato suddetti contatti per fermare le stragi, senza informare ufficialmente l’esecutivo e la magistratura e comunque l’organo investigativo competente, ovvero la neonata Dia”. Ed è anche per questo che la Procura ha chiesto la citazione tra i testi di Claudio Martelli e dell’allora capo della Direzione Affari Penali del Ministero della Giustizia, Liliana Ferraro i quali dovranno comunque riferire su altri temi.
Del Bene ha anche espresso la richiesta alla Corte della trascrizione di alcune significative intercettazioni tra Mancino e D’Ambrosio (avvenute in un breve lasso di tempo ndr) con cui l’ex ministro, oggi privato cittadino, si è attivato tramite diversi canali istituzionali “al fine di decidere e condizionare le indagini della procura della Repubblica di Palermo che lo riguardavano personalmente”. “Un attivismo che si è concretizzato – prosegue il pm – in due attività. Il tentativo mediante D’Ambrosio di sollecitare i poteri di intervento della DNA al fine di un maggiore coordinamento delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Palermo e da quella di Caltanissetta, sino a prospettare l’eventualità dell’avocazione delle stesse; ed ancora il tentativo di sottrarsi ad attività dibattimentali dinanzi al Tribunale di Palermo nell’ambito del processo penale nei confronti di Mori e Obinu, essendo stato richiesto dai pm il confronto con Martelli in merito ai contatti non autorizzati dei Carabinieri del Ros con Ciancimino e le lagnanze sollevate dall’allora Guardasigilli”.
Sulla richiesta del Pm e su tutte le istanze di ammissione delle prove fatte dalla Procura, dopo le contro deduzioni delle difese, dovrà pronunciarsi la Corte di Assise presieduta da Alfredo Montalto, probabilmente alla prossima udienza del 10 ottobre.
Ciancimino e le dichiarazioni spontanee
Quando tutto sembra concluso ecco che a prendere la parola è Massimo Ciancimino, imputato di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, e al tempo stesso testimone al processo. “Da quando ho iniziato a rispondere alle domande dei magistrati nei giorni precedenti ai processi ho subito ogni forma di attacco personale teso a minacciarmi o a screditarmi” ha detto. “Così è accaduto pochi giorni prima del processo a carico del generale Mori, quando ho ricevuto minacce anonime presso la mia abitazione di Bologna, così è accaduto all’udienza preliminare di questo processo quando la procura di Roma ha depositato delle intercettazioni al fine di screditarmi”. Quindi ha letto una lettera minatoria che ha detto di avere ricevuto lo scorso 27 maggio. Nella missiva, che secondo Ciancimino sarebbe solo l’ultima di una lunga serie di intimidazioni e manovre finalizzate a interrompere la sua collaborazione con i magistrati, l’anonimo lo invita a non parlare più della trattativa e a non collaborare più con i magistrati. “Gli avevamo assicurato la protezione se avesse smesso di parlare – scrive l’anonimo – solo noi lo possiamo proteggere”. Nella missiva si dice che molti dei giudici coinvolti nel processo, dall’attuale presidente della Corte di Assise, al Gip e ai Pm, vengono seguiti e tenuti sotto osservazione. Quindi l’anonimo continua “Questo processo deve essere fermato si tiri fuori”.
Il ritorno di Ingroia
Ma la vera sorpresa è il ritorno di Antonio Ingroia, non più al loro fianco come parte dell’accusa ma come avvocato di parte civile. A nominarlo è stata l’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli, come sostituto processuale dell’avvocato Danilo Ammannato. Una nomina che segue a quella di appena tre giorni fa in cui il leader di Azione civile è stato nominato commissario liquidatore di Sicilia e-Servizi, società partecipata della Regione siciliana. “Sono emozionato come un alunno il primo giorno di scuola – ha detto l’ex giudice comunque ben accolto dai suoi ex colleghi. “Visto che ho sempre svolto un ruolo su altri banchi – ha detto Ingroia – oggi sono qui con un ruolo non meno importante, di responsabilità, quale è l’avvocato di parte civile per tutelare l’interesse dei familiari delle vittime delle stragi mafiose. E’ importante che al fianco dello Stato, che fa la sua parte per accertare la verità, cioè la Procura, ci sia anche la società dei cittadini onesti rappresentata dalle associazioni dei familiari delle vittime. Sul piano professionale è un’esperienza che faccio con grande stimolo. Io vengo da pm e questo può essermi d’aiuto in questo nuovo ruolo”. Quindi dice di non temere le polemiche che seguiranno a questa scelta: “Le polemiche ci sono state ad ogni scelta che ho preso, ma non mi interessano. Forse sono incompatibile con l’Italia ma la realtà è che non lo sono né con l’attività di avvocato, né con quella di leader di Azione Civile. Comunque quel che ritengo importante ora è dare il mio modesto contributo. L’ho fatto da magistrato in quest’aula e potrò darlo anche da un’altra parte. Nostalgia? Mi mancava il contatto con questo processo ma non parlerei di nostalgia piuttosto di orgoglio per la storia passata e motivazione in più per andare avanti sulla stessa strada”.
Da parte sua il presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili Maggiani Chelli ha motivato così la scelta: “Quando abbiamo saputo che Ingroia aveva iniziato ad esercitare le professione di avvocato – spiega la Chelli – ci è sembrato naturale contattarlo dato che è preparatissimo sulla materia”.
26 settembre 2013