Il 9 gennaio 1950 l’Eccidio delle Fonderie Riunite di Modena: sei operai furono uccisi dalle forze dell’ordine per impedire l’occupazione della fabbrica.
Tre settimane dopo alla Camera dei Deputati i banchi sono gremiti in ogni ordine di posto perché si sta svolgendo una seduta vitale per il prosieguo della prima legislatura. Dagli scranni dell’esecutivo, il presidente del Consiglio Alcide de Gasperi si accinge a presentare ai deputati della Repubblica le linee programmatiche del proprio sesto governo.
Ecco il deputato comunista e segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio prendere la parola. L’Aula tace.
“Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, il 9 gennaio 1950, nella città patriottica ed eroica di Modena, sei giovani operai caddero uccisi dalle forze di polizia nel corso di una manifestazione relativa ad una vertenza sindacale. Essi sono: Angelo Appiani, di anni 30, partigiano; Roberto Rovatti, di anni 36, partigiano; Arturo Malagoli, di anni 21, partigiano; Ennio Garagnani, di anni 21; Renzo Bersani, di anni 21, partigiano; Arturo Chiappelli, di anni 43, partigiano. Il massacro, di questi operai, di questi nostri fratelli, gettò nel lutto tutta la popolazione di Modena, la città martire e generosa che ha meritato la medaglia d’oro per il valore dimostrato nella guerra di liberazione nazionale. Quasi tutti gli uccisi furono valorosi combattenti nella guerra per la riconquista dell’indipendenza e dell’onore della patria. Questo eccidio gravissimo – forse il più grave della storia d’Italia – che si è aggiunto alla troppo lunga catena di eccidi di lavoratori che negli ultimi mesi va da Melissa a Torremaggiore, a Montescaglioso, ha messo in lutto tutti i lavoratori italiani, tutto il popolo nostro, ed ha sollevato un’ondata di sdegno e di compianto nel mondo intero.”
Dai banchi dei socialisti e dei comunisti, si leva un applauso scrosciante all’indirizzo di Di Vittorio: i deputati della maggioranza invece tacciono, mormorando fra loro commenti di disappunto. Terminata l’ovazione, il presidente della Camera concede il diritto di replica a De Gasperi, ma il capo del governo non riesce a prendere immediatamente parola.
Una donna gli sta innanzi: lo guarda un istante e poi gli scaglia addosso quelli che il resoconto stenografico definisce manifestini. In realtà, si tratta delle fotografie delle sei vittime dell’eccidio perpetrato a Modena dalle forze di polizia, ai danni degli operai delle Fonderie Riunite. La sinistra dell’Aula scoppia in un applauso fragorosissimo, mentre i democristiani protestano con altrettanta vemenza. L’autrice del gesto, nel frattempo, torna faticosamente al proprio scranno: è priva di una gamba, mutilata a seguito delle torture inflittele dai repubblichini durante la Resistenza. Il suo nome, fra i partigiani modenesi, è leggenda: si tratta di Gina Borellini, partigiana e deputata del PCI, originaria di San Possidonio, piccolissimo centro distante circa trenta chilometri da Modena.
Immediatamente, il presidente della Camera richiama l’esponente comunista:
“Onorevole Borellini, mi duole vivamente, poiché so la sua passione ed il suo stato d’animo, di dover giudicare deplorevole il gesto che ella ha compiuto, e di dovere – in ossequio ad una precisa norma regolamentare – richiamarla all’ordine”.
La replica di Gina Borellini risuona allora come un tuono nell’Aula:
“Signor Presidente, con questo mio gesto ho inteso esprimere il mio pensiero personale dopo i fatti sanguinosi avvenuti a Modena, e quello di tutte le donne modenesi: in quel banco siedono degli assassini!”
Il dito dell’onorevole si tende verso gli scranni del governo. Per la prima volta, viene designato il mandante della strage del 9 gennaio 1950: un solo accusato, lo Stato.
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