di Gianni Barbacetto
“Io vedo sui Tribunali la scritta: ‘Palazzo di giustizia’. Non: ‘Palazzo dei diritti degli imputati’. I diritti vanno salvaguardati, ma la giustizia dev’essere garantita per tutti, anche per noi vittime”. Bruno Pesce è uno degli animatori storici dell’associazione nata a Casale Monferrato contro l’amianto killer. La fibra lavorata negli stabilimenti Eternit ha fatto finora almeno 2.500 morti. I responsabili della società sapevano. Ma niente condanna: la prescrizione ha impedito che fosse fatta giustizia. “Ho pianto, quel giorno del 2014, non mi vergogno di dirlo. Quando il giudice della Cassazione ha letto la sentenza, ho abbracciato il presidente delle vittime dell’amianto in Belgio e ho pianto”.
“I fazzoletti intrisi delle nostre lacrime metteranno le ali e voleranno lontano per sviluppare profonde radici di giustizia”: così è scritto al parco Eternot, impiantato sull’area della fabbrica della morte. Le fibre di amianto che continuano a volare nell’aria provocano ancora oggi, a Casale, 50 nuovi malati all’anno di mesotelioma pleurico o peritoneale. “I morti sono 5 mila, se si considerano anche i tumori al polmone, alla laringe, all’ovaio, che possono essere causati dall’amianto”. Lo spiega Daniela De Giovanni, che cominciò a occuparsi dei malati a causa dell’Eternit alla fine degli anni Settanta, appena laureata in medicina del lavoro, e poi non ha più smesso. “Nei primi tempi morivano i lavoratori della fabbrica, poi hanno cominciato ad ammalarsi e a morire le mogli, i figli, i cittadini di Casale che con l’Eternit non c’entravano niente, ma respiravano l’aria avvelenata dalla città”.
I vertici dell’azienda sapevano di far lavorare una fibra mortale. Lo sapeva il padrone, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny. Ma il primo processo ai suoi manager italiani, nel 1993, per omicidio colposo, si conclude con la prescrizione per tutti. Nel 2005 riapre l’indagine il procuratore Raffaele Guariniello: per disastro doloso. Il dibattimento inizia nel 2009. Nel 2012, Schmidheiny è condannato a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”. È la prima volta al mondo. In appello, l’anno seguente, la pena è aumentata a 18 anni. Nel 2014, la Cassazione chiude la vicenda con la prescrizione: stabilisce che decorre dal momento in cui cessa la condotta, con la chiusura dello stabilimento, avvenuta nel 1986. Per il reato di disastro è di 15 anni, dunque la prescrizione – dice la suprema corte – era già scattata nel 2001, addirittura prima dell’inizio del primo grado.
“Sarebbe scattata anche se fosse stata già in vigore la riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado”. A dirlo è Paolo Liedholm, avvocato, nipote del campione del Milan Niels Liedholm e figlio di Gabriella, morta nel 2008 per un mesotelioma pleurico causato dalla polvere di amianto. “La prescrizione nel processo Eternit è stata causata da una scelta della Cassazione. I giudici di primo grado e d’appello hanno ritenuto che il reato sia continuato fino a oggi con la dispersione delle fibre nell’aria. La suprema corte ha fatto invece valere una interpretazione molto molto discutibile secondo cui con la chiusura della fabbrica il reato sia cessato”.
“Ma è chiedere troppo che lo Stato tuteli le vittime?”, si chiede Pesce. “Smettiamo di chiamarla giustizia, chiamiamola con un altro nome, chiamiamola Filomena. Le malattie dell’amianto si manifestano dopo 15 anni, anche dopo 30 anni. Ma c’è la prescrizione e noi non possiamo avere giustizia”. Il disastro è ancora in corso, garantisce da dottoressa De Giovanni. “Dopo la chiusura della fabbrica, l’amianto ha continuato a fare vittime e continua ancora oggi. Il numero dei casi diagnosticati è salito fino agli attuali 50 all’anno, si è stabilizzato e non accenna a diminuire”.
Nicola Pondrano ha a lungo lavorato in Eternit: “Ricordo quei tempi, lavoravo a fianco di Bernardino Zanella, un prete operaio. Respiravamo polvere d’amianto. Mi sono candidato al consiglio di fabbrica, ho cominciato a fare attività sindacale, siamo riusciti a far chiudere quella che è stata chiamata la Chernobyl italiana”.
Nel 2015 Guariniello ci ritenta. Apre una nuova inchiesta sulla Eternit, questa volta per il reato di omicidio volontario. In questo caso la prescrizione comincia a correre dalla morte dei malati. È il processo Amianto-bis. Prima di partire, la Corte costituzionale si deve esprimere sul “ne bis in idem”: non si possono processare le stesse persone due volte per gli stessi fatti, sostengono gli avvocati di Schmidheiny. Ma il reato è diverso, omicidio. La Consulta dice che il processo si può fare.
Nel 2016 Guariniello chiede il rinvio a giudizio, ma il giudice dell’udienza preliminare di Torino rinvia soltanto per omicidio colposo: così la prescrizione scatta per molti casi. In più spezzetta il processo in quattro tronconi, separando le quattro sedi della Eternit: Casale Monferrato, Torino, Rubiera (Reggio Emilia), Bagnoli (Napoli). Sorpresa: nel primo troncone, il reato contestato torna omicidio doloso, la Corte d’assise, con la giuria popolare, dovrà decidere su 392 persone morte d’amianto. Riusciranno le migliaia di famigliari, amici, ad ascoltare una sentenza, di condanna o d’assoluzione? Riusciranno a riprendere fiducia nella giustizia?
16 febbraio 2020