di Simona Zecchi
Le piste sull’omicidio Pecorelli e il rischio polverone
IL PIANO D’EVERSIONE GIÀ NELLE CARTE – BOLOGNA NEL ’75. «Quando ho avuto in mano il testo dell’arringa, ho dubitato sull’innocenza dello scriver romanzi». Sono tre righe poste lì nel bel mezzo di una prefazione a un libro scritto molti anni fa, nel 1975 poi ripubblicato più volte.
A scriverlo è stato Ferdinando Camon e da quel libro, “Occidente – Il diritto di strage” (Garzanti) – da cui la Rai trasse un film (youtube.com/watch?v=kZU-6841G-M) – la prima istruttoria sulla strage di Bologna, fino all’Assise nel 1988, ne acquisì il documento più importante. Un documento di 11 pagine che gli autori della strage alla stazione avevano fatto effettivamente proprio immolandolo al Dio-pensiero stragistico e politico-eversivo come riconosciuto dalle sentenze. Il riferimento nelle carte di Bologna è proprio al romanzo di Camon ricostruito andando a spulciare sotto mentite spoglie tra le carte e tra i libri della libreria Ezzelino di Padova, fondata dal nazimoista Franco Freda e legata alla casa editrice Ar, dove anche si vendevano libri sulla razza, Hitler e Evola ma soprattutto – come ben imprime sulle pagine lo scrittore – dove «i gruppi rivoluzionari avevano le foglie ma le radici sottoterra». Quel documento recitava così:
«Arrivare al punto che non solo gli aerei, e i treni e le strade siano insicure… ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione (…)» è proprio l’intento inoculato dalla strategia della tensione che in altre forme e dalla “miccia” dei colonnelli Greci – e a proposito di aerei – si era sviluppata anche fuori dall’Italia, sempre con il supporto indomito dei neofascismi nostrani. Quel libro (e quel film) costarono a Camon minacce e messaggi di morte che lo costrinsero ad allontanarsi dalla città, come lui stesso da me intervistato qualche anno fa mi aveva riferito. Era una città, Padova, segnata dalla violenza di destra e di sinistra, come sempre lo scrittore mi sottolineò, violenza che lo ha segnato. E quelle parole, rimodulate poi nei covi eversivi di estrema destra in un vero e propio manifesto politico, hanno accompagnato, prendendo altre forme, l’intera lunga storia giudiziaria sulla strage di Bologna definendone l’impianto. Camon poi intervistò Freda che si riconobbe in quel film e gli chiese un incontro ed è in questa sua risposta che lo scrittore padovano trova conferma nel “diritto a fare stragi” che Freda e il suo gruppo si erano arrogati: «Innocente non chi è incapace di peccare, ma chi pecca senza rimorsi». Quindi in discussione non c’è da parte mia, per Bologna, questo impianto. Anche se la vicenda è forse più complessa di così, a cominciare dalla questione “internazionale” che pure ora è di nuovo presente con la vicenda dei finanziamenti transitati per la Svizzera. Non è comunque questo il focus di questo mio pezzo. Il punto è che non si aspettava certo il 1979 e Pecorelli, dopo il passaggio e ancora l’esistenza allora di mille e più processi in corso su Piazza Fontana e Piazza della Loggia e i rivoli sparsi sugli innumerevoli episodi di eversione, per conoscere quello che era già noto seppure spesso affossato nelle e dalle inchieste. E manovrato: come ci ha spiegato bene il giudice Guido Salvini nel suo La Maledizione di Piazza Fontana (Chiarelettere 2019). Era già rappresentato quel piano insomma nel 1975.
L’IDEA DI TRAME NERE DI PECORELLI. Di più, Pecorelli negli ultimi numeri di O.P. – l’agenzia divenuta settimanale in cui si sprecavano gli scoop dalle notizie che il giornalista apprendeva, scambiandole con i più disparati e segreti ambienti – prendeva a esempio proprio uno dei “compagni” – si fa per dire – di avventura ed eversione di Freda, Giovanni Ventura, come personaggio strumentalizzato delle trame nere (numero del 30 gennaio 1979). Quindi non proprio un j’accuse contro la destra eversiva in sé, bensì la comprensione di qualcosa di più ampio che d’altronde nei verbali del 1973 Ventura aveva già confessato (poi ritrattando) dichiarando di aver partecipato alla strategia della seconda linea, quella cioè utile agli uomini del Sid, di ON e di Avanguardia nazionale tutti insieme per infiltrarsi in ambienti culturali e politici della sinistra extra parlamentare e non, anche disseminando bombe (senza esporre la «prima linea» che era ben altra cosa).
A PROPOSITO DI LINEE E STRATEGIE. In una intervista al Corriere della Sera nel dicembre del 1984, Ventura, mentre in carcere in Argentina, dove era evaso – a leggere le carte del Cesis conservate presso gli archivi di questa nostra segreta Repubblica – il 16 gennaio 1979 e dove fu arrestato il 14 agosto del 1979 («arrestato di notte sorpreso mentre dormiva nella casa di don Christian von Wernich a La Plata che lo ospitava da tre mesi. Cappellano della polizia di Buenos Aires che giustifica la tortura e l’orribile fine dei ventimila desaparecidos» scriveva Foa) aveva affermato: «I veri gruppi eversivi fascisti avevano connessioni con Roma, con Avanguardia Nazionale. Guido Pagliai e Stefano delle Chiaie, lo stratega del terrore, coordinavano le loro azioni» e poi, incalzato dalla domanda di Giangiacomo Foa, se fosse «assurdo affermare che Freda e Concutelli abbiano preparato l’ordigno di Piazza Fontana per poi consegnarlo all’anarchico Valpreda», Ventura aveva risposto: “No – nel clima di quegli anni ciò era possibile”. Inoltre al giudice D’Ambrosio nella inchiesta di Milano l’ex ordinovista aveva dichiarato: «Il nostro gruppo era saldamente coperto da catene e catenacci». Ventura ha sempre agito in questo modo e, seppur mal volentieri, anche nel 1984 consegnava a chi glielo chiedeva piccoli pezzi di verità mescolandole a falsità o distorsioni utilizzandole ai fini della sua linea difensiva, quella che ha spiegato bene nel suo libro Paolo Cucchiarelli, poi adattato nel film di Giordana che ha urtato tanto Sofri. Ma appunto anche piccoli pezzi di verità. Ho parlato con la sorella di Ventura, la quale aiutò a far evadere il fratello, che mi conferma questo lungo periodo prima dell’arresto da lui trascorso in Argentina.
LE TRE PISTE POSSIBILI. Rileggendo le carte del processo Pecorelli e le testimonianze di Paolo Patrizi, il più stretto collaboratore di Pecorelli, sono tre gli argomenti sui quali il giornalista stava aspettando documenti importanti inediti (come ho già scritto su La Voce di New York): il memoriale Arcaini (Giuseppe, direttore dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio italiane – Italcasse – il cui scandalo anticipò di 15 anni Tangentopoli); il memoriale di Sindona (Michele, faccendiere mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli che indagava sul sistema da lui creato nel mondo finanziario) e qualcosa di grosso che riguardava Moro e il sequestro di Via Fani, d’altronde si avvicinava l’anniversario. Il pezzo più importante doveva arrivare da Milano – riferirà Patrizi a caldo il 22 marzo 79 agli inquirenti – da una persona che doveva venire in aereo, ma che poi prese il treno per uno sciopero. Cosa doveva portare con sé questa persona? Ma c’è di più.
Il collaboratore di Pecorelli, Umberto Limongelli, che aveva portato in tipografia il plico contenente l’ultimo articolo mai pubblicato, sugli “assegni del Presidente”, consegnandolo a qualcuno che poi sparì con tutto l’incartamento, così riferisce in udienza: «Dandomi il plico fece un pò ironicamente l’atto, disse: “Questo è materiale esplosivo” e io feci l’atto di farlo cadere in terra, sempre ironicamente. Poi disse: “Questo potrebbe essere l’ultimo numero che esce in difficoltà economiche, forse staremo meglio tutti e anche tu” a me, “ciao, ciao, ci vediamo domani mattina in ufficio”. Io risposi: “Se campo” perché lo dico a tutti ormai, è una prassi, lo sanno anche qui dentro. Lui rispose: “Se campo io, se qualcuno non mi fa la pelle prima”. Io dissi: “Chi ti fa la pelle, chi ti accoppa? E’ il tuo lavoro”, “c’è sempre una G” facendo un movimento con le spalle» (Sentenza Calò – Pecorelli 1994). Chiaro riferimento a Giulio Andreotti. Se gli assegni erano per la strage di Bologna di là da compiersi come si evince dalla intervista alla collega, e non per Andreotti, questa dichiarazione presente in atti però pone dei dubbi.
IL CASO MORO PER L’ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI VIA FANI. A proposito di carte segrete e servizi in quelle che ho letto io, a esempio, non più secretate di per sé ma nascoste negli archivi liberi di questa Repubblica e in diverse carte giudiziarie, il Sisde indica nel movente Italcasse quello che avrebbe portato alla morte del giornalista, movente che lo stesso ex pretore Infelisi indicò potesse essere agli inquirenti, visto che Pecorelli lo andò a trovare e lui gli consigliò di fare una denuncia al riguardo. Questo però non significa che le carte dei servizi esibiscano sempre il vero anzi. Quello che non si trova mai “libero” nelle carte delle barbe finte è invece il collegamento fra l’omicidio del giornalista e il Caso Moro e la lunga scia lasciata da Pecorelli sul ruolo della ‘ndrangheta, filone sul quale come sappiamo in pochi ma comunque noto la Procura di Roma sta ancora lavorando. Di più ancora: certe sentenze giudiziarie che parlano di quei collegamenti sono tuttora coperte da segreto (segreto che è rimasto intatto anche durante i lavori della Commissione Moro 2). Ed è facile capire perché. Anche se diversi elementi, diremmo probatori, sono disseminati in più processi e inchieste passati e attuali. Quando c’è da negare o non dire, le carte dei servizi soprattutto di quegli anni svolgono il loro compito, per cui stare attenti alle cose che anche rivelano è un dovere. A noi il compito di cercare di sbrigliare la matassa. C’è a esempio la storia dell’ultima persona che ha visto Pecorelli vivo, Vincenzo Cafari uomo-cerniera fra criminalità organizzata, mondo politico e massonerie che ancora non è emersa del tutto (e che nel mio libro rappresento per esteso) di cui anche la collega Fanelli ha scritto. Non voglio indicare io quale sia la pista giusta (non spetta a me) e forse le piste sono più di una, ma solo riportare sul tavolo quei fatti retti da cose concrete che potrebbero rischiare di essere offuscati da un gran polverone. Il Caso Moro per Pecorelli invece era ancora tutto da scrivere.
Di romanzi di scrittori che entrano nelle trame che reggono il mondo si contano sulle dita di una mano. Proprio Camon, proprio lui, si è sempre rifiutato – per dire – di collegare il romanzo “Petrolio” al massacro a Pasolini. Ma questa è un’altra storia da raccontare. E ancora una volta non è quella che sembra.
05 Marzo 2020