1946-47: dall’Italia alla Jugoslavija, per la “VII Federativa”
Riccardo Lolli
Tra il 1946 e il 1947 alcune migliaia di lavoratori, contadini, disoccupati lasciano l’Italia e passano illegalmente la frontiera jugoslava. Sono anni confusi, di inquietudine e speranza. Anni in cui lo stesso destino di Trieste pare oscillare fra Est e Ovest, dove alcuni, forse più di quanti si voglia far credere oggi, aspirano alla “settima federativa”, a quella porzione di territorio comprendente Trieste e provincia che si vorrebbe far passare sotto lo stato jugoslavo. Manca il lavoro, mancano le case, il cibo. Eppure non è solo la fame a spingere a questo controesodo, è anche qualcos’altro, qualcosa di più: è l’ideale di un mondo diverso, perché “di là era il comunismo, a cercare la fortuna”. [1]
Così Filip Stefanović sull’emigrazione italiana in corso verso l’appena costituita Repubblica federativa socialista jugoslava, in contemporanea con l’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, episodio quest’ultimo ormai impropriamente legato alla vicenda delle foibe, circostanze entrambe sempre più abusate da quanti le considerano bacino privilegiato per un uso politico della storia.
Conclusasi in maniera tormentata la vicenda bellica, obiettivo primario per uno sviluppo armonico del nuovo stato jugoslavo era l’innesco di un processo di riconciliazione che conducesse i diversi gruppi nazionali a mettere le atrocità precedenti alle loro spalle per concentrarsi su un futuro comune di fratellanza e di unità che consentisse una rapida rinascita del Paese devastato da un quinquennio di guerre.[2]Riconciliazione che doveva necessariamente riguardare anche le comunità italiane, di qui la proposta della formazione di gruppi di lavoro volontario binazionali, o comunque composti da italiani e sloveni, ma soprattutto l’iniziativa di creare brigate giovanili di lavoro, che avrebbero visto la partecipazione anche di giovani provenienti da diverse nazioni, promuovendo così una politica di fratellanza fra i due Paesi.
Più in generale, tuttavia, l’esperimento realizzava la riproposizione di una nuova ed aggiornata solidarietà internazionale che rimandava alla straordinaria esperienza realizzatasi nel corso della liberazione della Jugoslavia dall’occupazione nazifascista:
Le immense moltitudini di volontari, che costruirono i grandi impianti industriali e l’infrastruttura della Jugoslavia del dopoguerra, con pochi mezzi meccanici, ma con entusiasmo e una volontà del tutto inimmaginabile oggigiorno, rappresentano un fenomeno che non ci può lasciare indifferenti per quanto lo si possa osservare con coinvolgimento o con scetticismo. [3]
Nel Paese prostrato dalla guerra il treno costituiva l’unico mezzo per i grandi trasferimenti della popolazione, furono così proprio le ferrovie, oggetto ricorrente degli attentati partigiani nella guerra di Liberazione, le infrastrutture privilegiate nella ricostruzione ed il collegamento ferroviario Brčko-Banovići in Bosnia rappresentò il primo grande intervento del lavoro volontario dei gruppi giovanili. Si decise di fare quel tratto perché nell’immediato dopoguerra c’era bisogno di trasportare il carbone dalle miniere di Banovići verso le grandi città e i centri industriali, ponendo così le basi per uno sviluppo intensivo di quel piccolo centro, all’epoca scarno aggregato di poche case. Il tracciato, lungo 92 km, venne costruito da maggio a novembre del 1946 grazie al lavoro di 62.268 membri delle brigate.
L’anno successivo fu la volta del tracciato del tronco ferroviario lungo 240 km della Šamac–Sarajevo lungo il fiume Bosna, dando così un notevole impulso alla estrazione di carbone e ferro: le miniere della Bosnia Erzegovina non sarebbero più restate isolate dal resto del paese e «l’Unità» poteva titolare con condivisibile soddisfazione: La ferrovia dei 90.000 giovani è stata varata in soli quattro mesi -Trenta nazioni hanno collaborato alla grandiosa realizzazione.[4]
Ma l’opera dei 90mila volontari non si era limitata alla costruzione della ferrovia. Man mano che avanzavano nella posa dei binari, i giovani ricostruivano villaggi, dissodavano terreni, bonificavano paludi, regolavano fiumi e canali e costruivano numerose strade rotabili migliorando tutta la viabilità della regione. «È, insomma, un grandioso complesso di lavori – proseguiva l’articolista de «l’Unità» – dovuto essenzialmente alla tenacia e all’entusiasmo delle giovani generazioni ed alla loro fiducia in un avvenire di pace e di benessere per tutto il paese.»[5]
Giovani stranieri, quantificati dal maresciallo Tito nel discorso di inaugurazione in 6.000 unità, avevano portato il loro contributo alla costruzione della Šamac-Sarajevo: greci, albanesi, bulgari, danesi, svedesi, rumeni, polacchi, cecoslovacchi, francesi, italiani e fra loro anche futuri dirigenti politici della sinistra come Luciana Castellina[6] e due giovani medici marsicani tempratisi al fuoco della Resistenza, Dario Spallone e Igino D’aroma, nomi di battaglia rispettivamente Persiano ed Eg
Le difficoltà dei giovani lavoratori, assegnati all’esecuzione dei lavori manuali, senza avere a disposizione altri mezzi tecnici che non fossero picconi, pale e carriole, venivano superate dall’entusiasmo e la brigata italiana fu in grado di realizzare fino al 300 per cento di rendimento sulle norme stabilite.
Entusiasmo ben presente nelle memorie dei partecipanti all’iniziativa: «Ricordo che cantavamo una canzone che diceva “Noi costruiamo la ferrovia e la ferrovia costruisce noi”.»[9]
L’attuazione dei piani di lavoro volontario era indubbiamente sostanziata dalla voglia di fratellanza e unità dei popoli che vivevano nella Repubblica socialista federale di Jugoslavia, com’era negli obiettivi del governo, ma anche da un sentimento più vasto di solidarietà che vedeva nelle imprese del lavoro giovanile una prima pratica dell’ideale della società socialista. Indubbiamente, per chi, come i due giovani medici marsicani, si era speso nelle lotte antifasciste e nella Resistenza, quelle iniziative giovanili costituivano un modo per dare corpo alle idee per le quali avevano combattuto e che avrebbero continuato ad innervare anche il loro cammino di vita successivo.[10]
NOTE:
[1] Filip Stefanović, Il sogno di una cosa, quelli che emigravano da Tito, East Journal,10 Gennaio 2011.
[2] «Sulle basi di una tra le più arretrate economie d’Europa, in un Paese devastato dalla guerra, bisognava costruire a ritmo rapido una nuova, forte economia, come base materiale della nuova società, il cui compito principale era quello di assicurare ai lavoratori migliori condizioni di vita.» M.SpilJak, Il sistema di remunerazione in Jugoslavia, Sezione Jugoslava dell’esposizione internazionale del lavoro a Torino, Beograd, 1961,p.7. Era quello l’obiettivo che già nella primavera del 1945 il Maresciallo Tito, presidente del Consiglio dei ministri, aveva fissato in un discorso programmatico alla radio sui principi di unità cui ispirare il nuovo governo. Il discorso di Tito, «Il nostro avvenire», 14 marzo 1945.
[3] Matja Stibilj, La fratellanza italo-slava e le brigate giovanili giuliane di lavoro volontario provenienti dalla zona A impegnate in Jugoslavia, «Qualestoria» n. 1, giugno 2016. Vi si legge anche una descrizione del funzionamento dei campi.
[4] «Quindici milioni di giornate lavorative volontarie è il consuntivo della massa di lavoro offerta dai giovani lavoratori, che hanno costruito dal 1 aprile di quest’anno a oggi 240 chilometri di strada ferrata, 9 tunnel, 16 ponti, 37 stazioni ed hanno fatto spostamenti di terra per 4 milioni e mezzo di meri cubi.» «L’Unità», 20 novembre 1947.
[6] Si era iscritta proprio nel 1947 al PCI, partito da cui venne poi radiata nel 1969, quando con Magri, Natoli, Parlato, Pintor e Rossanda fondò Il Manifesto. Racconta l’esperienza formativa vissuta nelle brigate giovanili nel suo La scoperta del mondo, Nottetempo, Roma-Milano, 2011.
[7] Fra gli altri Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli. Di famiglia antifascista, aderente al movimento liberalsocialista e poi militante nell’organizzazione comunista clandestina, durante il regime Lucio Lombardo Radice svolse attività politica a Roma, dove la sua casa divenne luogo di incontro di studenti e intellettuali avversi alla dittatura. Arrestato nel 1939 e deferito al Tribunale speciale, nel 1940 fu condannato a 4 anni di reclusione. Riacquistata la libertà nel ’43 partecipò alla Resistenza romana. Nel dopoguerra divenne membro del Comitato centrale del PCI. Docente di matematica all’Istituto “Guido Castelnuovo” dell’Università di Roma e studioso di pedagogia, nel 1955 fu nominato condirettore della rivista Riforma della Scuola. Anche Natoli fu arrestato con il gruppetto di militanti comunisti di Avezzano, deferito al Tribunale speciale e condannato a cinque anni di carcere. Alla caduta del fascismo, fu tra gli organizzatori della Resistenza romana. Dopo la Liberazione venne eletto deputato nelle file del PCI per cinque Legislature. Radiato dal PCI dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, aderirà al Manifesto.
[8] Sugli incontri con i due studenti di medicina avuti da Renato Guttuso, emissario politico inviato ad Avezzano nel centro marsicano da Giovanni Amendola, si veda Quando Renato Guttuso era “ispettore” partigiano, Rinascita,25 agosto 2000. I contatti con Agostino Novella, poi parlamentare PCI e segretario nazionale della Cgil, sono descritti in: A. Montonati, Dario Spallone un comunista anomalo, San Paolo, Mi, 2001,p.23.
[9] Dopo la guerra ho finito il liceo e, la sera stessa della maturità sono partito volontario nella brigata istriana Niko Katunar a costruire la ferrovia della Giovinezza Samaz-Sarajev. Quella è stata per me un’esperienza bellissima con giovani provenienti da tutto il mondo, c’era anche una brigata italiana.
Giulio Cuzzi – IL CANTASTORIE ON LINE www.
[10] Igino D’Aroma (Aielli 1921-Roccadi Mezzo 2018) si trasferirà poi a Napoli dove, con l’istituzione delle Usl realizza una collaborazione tra clinica medica e USL orientata a studi di fattibilità preventiva. Rinuncia per scelta, malgrado importanti sollecitazioni, alla vita politica istituzionale mantenendo rapporti politici ed amicali con figure di rilievo del PCI quali Mario Alicata, Clemente Mastella, Mario Valenzi, Giancarlo Pajetta, Miriam Mafai, Giorgio Napolitano di cui è medico di famiglia. Fu medico della federazione PCI di Napoli e vicepresidente dell’Anpi del capoluogo partenopeo. Nel dettaglio si veda R. Lolli, Conversazione con un capo partigiano: Igino D’Aroma, Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea- e Comune di Rocca di Mezzo, EditPress,s.d. e R.Galtieri-R.Lolli, Igino D’Aroma, il partigiano Egidio, ANPI Belgique, Avezzano, 2018.
Dario Spallone (Lecce de’ Marsi 1923-Roma 26 luglio 2014) nel 1946 è membro della Commissione di lavoro per il Ministero della Costituente, e l’anno successivo lo vede impegnato nell’Alto Commissariato per l’Igiene e la sanità pubblica. Sarà poi medico ufficiale per un ventennio dell’ambasciata sovietica e della legazione di Romania. Con il fratello Mario, medico personale di Togliatti, realizzò a Roma e gestì la Nuova Clinica Latina dove morì il suo amico Pietro Secchia. Fu presidente della locale sezione Anpi “Fosse Ardeatine” e membro del Comitato provinciale dell’Anpi di Roma. Nel dettaglio si veda: A. Montonati, Dario Spallone cit., San Paolo, Mi, 2001.
Il saggio di Riccardo Lolli è anche disponibile, corredato di fotografie, in formato PDF: http://www.cnj.it/home/
Dello stesso Autore sul nostro sito si vedano anche: I “Battaglioni speciali” a L’Aquila e La presenza degli internati slavi nell’Appennino Aquilano 1942-44