Da 12 ricercatori italiani un position paper sul ruolo del particolato atmosferico nell’epidemia
Gianluigi de Gennaro (Università di Bari): «Le polveri stanno veicolando il virus, fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi»
di Luca Aterini
In queste settimane attività e spostamenti dei cittadini italiani sono fortemente ridotti dalle iniziative messe in campo dal Governo per contrastare l’epidemia da coronavirus in corso, e l’inquinamento atmosferico sta diminuendo in molte aree del Paese. Si tratta di effetti interessanti da osservare ma solo temporanei, mentre ribaltare la prospettiva potrebbe portare a indicazioni di più ampia portata: e se il nord Italia fosse stato colpito con particolare ferocia dal coronavirus proprio a causa dei suoi elevati livelli di inquinamento atmosferico? È quanto si è chiesto un team composto da dodici ricercatori italiani (delle Università di Bologna, di Bari, di Milano, di Trieste e della Società italiana medicina ambientale), che ha appena pubblicato un position paper nel merito.
Come si legge nel documento «il particolato atmosferico (PM10, PM2.5) costituisce un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali». Questa forma di inquinamento atmosferico funziona infatti da «carrier, ovvero da vettore di trasporto» per molti contaminanti e anche per i virus che «si “attaccano” (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che possono diffondere ed essere trasportate anche per lunghe distanze».
Sul tema si è accumulata negli anni una solida letteratura scientifica, ma il lavoro dei ricercatori italiani è il primo a cercare di analizzare la diffusione del Covid-19 nel nostro Paese in relazione ai superamenti dei limiti di PM10. Per valutare una possibile correlazione tra i livelli di inquinamento di particolato atmosferico e la diffusione del nuovo coronavirus sono stati analizzati per ciascuna Provincia italiana i dati di concentrazione giornaliera di PM10 rilevati dalle Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa), incrociandoli con i dati sul numero di casi infetti da Covid-19 riportati sul sito della Protezione civile.
Un lavoro dal quale emerge «una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo 10 febbraio-29 febbraio e il numero di casi infetti da Covid-19 aggiornati al 3 marzo».
«Tale analisi – argomentano i ricercatori – sembra indicare una relazione diretta tra il numero di casi di Covid-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori, coerentemente con quanto ormai ben descritto dalla più recente letteratura scientifica per altre infezioni virali. La relazione tra i casi di Covid-19 e PM10 suggerisce un’interessante riflessione sul fatto che la concentrazione dei maggiori focolai si è registrata proprio in Pianura Padana mentre minori casi di infezione si sono registrati in altre zone d’Italia».
Nella Pianura Padana come noto vive il 40% della popolazione italiana (oltre 23 milioni di persone) e si concentra oltre il 50% del Pil nazionale, ma al contempo esistono da decenni forti problemi d’inquinamento atmosferico: negli ultimi anni la qualità dell’aria è in miglioramento, ma ciò non toglie che circa il 95% degli europei sottoposti a sforamenti contemporanei nelle emissioni di particolato, biossido di azoto e ozono vive ancora (secondo i dati raccolti dall’Agenzia europea dell’ambiente) nel nord del nostro Paese. Allargando lo sguardo a tutta Italia, invece, i dati dall’Agenzia mostrano che il nostro è il primo Stato in Europa per morti premature da biossido di azoto (NO2) con circa 14.600 vittime all’anno, ha il numero più alto di decessi per ozono (3.000) e il secondo per il particolato fine PM2,5 (58.600).
Rischi che generalmente non percepiamo in modo adeguato – nonostante complessivamente si parli di 76.200 decessi prematuri l’anno –, e che potrebbero essere strettamente collegati alle forti difficoltà che stanno attraversando le regioni del nord Italia nella gestione dell’emergenza coronavirus.
«Le polveri stanno veicolando il virus, fanno da carrier – spiega uno degli autori del position paper, Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari – Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. Ridurre al minimo le emissioni e sperare in una meteorologia favorevole».
Lo studio appena pubblicato sembra infatti dimostrare che «in relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo».
Il gruppo di ricercatori sta continuando ad approfondire il tema per contribuire ad una comprensione del fenomeno più approfondita, ma nel frattempo le conclusioni sono nette: «La specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico, che ha esercitato un’azione di carrier e di boost».
[17 Marzo 2020]