Edmond Dantès
Quarant’anni fa moriva Gianni Rodari, che pensava che i bambini a scuola dovessero imparare divertendosi, che divenne Partigiano poco più che ventenne, che era stato maestro alle elementari, che voleva scrivere di attualità politica sull’Unità e che vinse –unico in Italia- il premio “Hans Christian Andersen” –il “Nobel” della letteratura per l’infanzia.
Solo a sentire o leggere quel nome, Gianni Rodari, noi sorridiamo sempre. Un sorriso a labbra chiuse e gli occhi che vanno per un attimo in alto, verso destra: ad inventare una nuova immagine, una pioggia di confetti, una torta in cielo, un arcobaleno senza tempesta, uno zampognaro nel presepe, una pace prima della guerra. Sorridiamo, perché il maestro di Omegna è stato il maestro di tutti noi e ci ha spiegato che i bambini hanno capacità e diritti, proprio come gli adulti: e che anzi proprio tutti, adulti e bambini, devono avere un mondo che rispetti i loro diritti e li aiuti a sviluppare le proprie capacità. Però ce lo ha spiegato senza mai farci una lezione, senza sedersi fisicamente in cattedra, ma facendoci scoprire che le favole nascono dalle cose e che proprio per questo, proprio perché così concrete, rimboccandoci le maniche mica è detto che non le si possano realizzare.
Tutto si può fare, con impegno e fantasia: che, del resto, anche per fare un tavolo ci vuole un fiore. “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo” scriveva Gianni Rodari, terrorizzato da una società capitalista che imprigionasse e mercificasse già i sogni dell’infanzia. “Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) –scriveva ancora- ha bisogno di uomini a metà- fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà –vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla, occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione”.
E via dunque a stimolarla, quella capacità di immaginazione: girando intorno al significato delle parole, distorcendolo come plastilina, modellando una realtà dove anche i segni d’interpunzione diventano agenti morali e un “punto superbioso ed iracondo” si crede un punto e basta. E invece è solo un punto e a capo. Non c’è errore dei bambini che vada punito. Neanche gli errori di ortografia, di sintassi, di grammatica. Ogni svista, ogni svarione apre un nuovo mondo: l’italia con la I minuscola in un tema racconta forse di paesini abbandonati dove non arriva né la luce né un dottore, un “gato” con una t sola avrà magari solo un baffo. E se c’è una regola grammaticale da imparare (divertendosi, senza mortificazione), ce n’è una generale sicuramente più importante, una regola che anche il suo Professor Grammaticus scopre solo da grande, tentando un po’ arrogantemente di correggere gli strafalcioni verbali dei lavoratori meridionali emigranti verso il nord e scoprendo invece il loro straziante dolore per la terra che devono lasciare. “Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi … Ma gli errori più grossi sono nelle cose!”
Quarant’anni fa moriva Gianni Rodari, che ha visto i suoi libri diventare cartoni animati per i bambini della Cina e dell’Unione Sovietica e che contemporaneamente veniva insegnato nelle università di Chicago e di New York, che ha fondato Il Pioniere e che scriveva come Belelux per Paese Sera: che ci fa ancora sorridere solo a sentirne il nome e che ci ha lasciato dentro quel seme chiamato fantasia, per fortuna così duro a morire. Ne abbiamo così bisogno, di quel seme, in questi tempi tanto difficili: quando ci conviene stare lontani e invece servirebbe che ci sentissimo più vicini, quando abbiamo paura per ciò che capita e ciò che capiterà e invece dovremo prendere tutto questo dolore, tutti questi sacrifici, e utilizzarli per inventare un mondo migliore. Dovremo farlo con impegno, con immaginazione, con coraggiosa speranza: perché, come ci ha insegnato Gianni Rodari, “con un po’ di esercizio, è possibile prendere lezioni di ottimismo anche da Giacomo Leopardi”.
13 aprile 2020