Il suo nome è J-link. Ed è una rete internazionale che comprende organizzazioni ebraiche attive negli Stati Uniti, Canada, paesi d’Europa, America Latina, Sud Africa e Australia.
Il suo nome è J-link. Ed è una rete internazionale che comprende organizzazioni ebraiche attive negli Stati Uniti, Canada, paesi d’Europa, America Latina, Sud Africa e Australia. Insieme ad organizzazioni israeliane, c’è scritto nella sua carta costitutiva, intendiamo cooperare per esprimere una voce comune in sostegno alla democrazia, al pluralismo religioso ed a una risoluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese attraverso la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele.
Continuiamo a credere nei valori iscritti nella Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, che proclama Israele come patria democratica del popolo ebraico che garantisce “la piena eguaglianza di diritti politici e sociali dei suoi abitanti indipendentemente da religione, razza o sesso”. Siamo contrari ad atti quali la legge dello “stato-nazione” che codifica una discriminazione delle minoranze non-ebraiche in Israele e l’annessione unilaterale che pregiudica la soluzione “a due stati”, unica possibilità per garantire la pace e un Israele democratico.
La rete internazionale intende operare con le comunità ebraiche di ogni paese, i governi nazionali e le organizzazioni internazionali nel promuovere la giustizia, i diritti umani e un accordo di pace fra i popoli di Israele e Palestina.
J -link, molto attiva nella sua sezione italiana, dà corpo e anima all’ebraismo democratico che nella diaspora come in Israele non accetta la deriva colonialista di chi si appresta a governare lo Stato ebraico. Da qui l’appello, che Globalist rilancia, che sarà trasmesso, nei paesi in cui J-link opera (Stati Uniti, Canada, Europa, America Latina, Sud Africa, Australia, Israele), alle istituzioni e comunità ebraiche, alle ambasciate di Israele, a governi e parlamenti, ai media, in un’azione coesa volta a scongiurare questa eventualità. L’annessione mette in pericolo la sicurezza e la democrazia in Israele. Questa la lettera-appello internazionale. Più chiara di così.
Non in nostro nome
“Come membri e sostenitori di J-Link, la rete internazionale delle organizzazione ebraiche progressiste, vogliamo condividere la nostra profonda preoccupazione, avvalorata dalle analisi di esperti diplomatici e di sicurezza , riguardo all’intenzione di Israele di procedere con l’annessione di parti della Cisgiordania. Poco tempo rimane per convincere i governanti israeliani a rinunciare a questa mossa sconsiderata. Con l’appoggio dell’amministrazione Trump il Primo Ministro israeliano Netanyahu pretende di perpetuare il mito che la realtà sul terreno abbia più forza del diritto internazionale. Questo è il momento in cui gli israeliani devono attentamente considerare le conseguenze dell’annessione per la sicurezza regionale e le relazioni internazionali. Una petizione di recente resa pubblica, sottoscritta da 220 ex alti ufficiali dell’esercito, del Mossad e della polizia , membri dell’associazione ‘Comandanti per la sicurezza di Israele’, afferma che l’annessione provocherà una reazione a catena al di fuori del controllo di Israele e condurrà alla disintegrazione dell’Autorità palestinese. Ciò richiederà a Israele di riprendere il possesso dell’intera Cisgiordania e di assumersi la responsabilità delle vite di 2.600.00 abitanti palestinesi. L’accordo di coalizione raggiunto tra Netanyahu e Gantz include articoli che consentono al governo entrante di accelerare il processo di annessione entro il 1 Luglio. Nonostante l’ammissione della necessità di discutere la questione con la comunità internazionale, l’unico impegno vincolante è quello di coordinarsi con l’amministrazione Usa. Come è stato già per il piano di Trump ‘Peace to Prosperity’, i palestinesi anche in questo caso non avranno nessuna voce in capitolo.
E’ importante notare, comunque, che l’articolo 28 dell’accordo di coalizione menziona anche la volontà del governo di mantenere gli accordi di pace preesistenti, indicando con ciò che Giordania ed Egitto potranno esercitare un’influenza particolare nelle decisioni in materia.
Per il Regno hashemita di Giordania, paese che ospita numerosi profughi palestinesi, l’annessione rischia di mettere in crisi il governo e di forzarlo a riconsiderare il trattato di pace con Israele. Lo stesso trattato tra Israele ed Egitto rischia di essere messo a repentaglio. Inoltre, le azioni di Israele sono destinate a compromettere i rapporti tra questo e i paesi democratici nel mondo.
L’annessione unilaterale è illegale secondo il diritto internazionale e contravviene a tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu riguardanti il conflitto israelo-palestinese, particolarmente la risoluzione 2334 del dicembre 2016. Se portata a termine l’annessione significherà la fine della soluzione ‘due popoli due stati’ e cancellerà per i Palestinesi ogni speranza di realizzare la propria autodeterminazione con metodi non violenti.
Inoltre in seguito all’annessione Israele diventerà uno stato che discrimina in modo ufficiale il popolo palestinese in base all’etnia, privandolo dei diritti civili; ciò sarà la fine di Israele come paese democratico così come lo conosciamo. L’annessione non comporta solo la fine delle aspirazioni del popolo palestinese all’indipendenza, ma anche dei valori fondanti dello stato di Israele sanciti nella Dichiarazione di indipendenza del 1948. Vi è anche il rischio di un’ondata di delegittimazione di Israele e di ulteriori episodi di antisemitismo. L’annessione metterà in pericolo infine i rapporti tra Israele e gli ebrei progressisti nel mondo per i quali le ragioni dei diritti umani, dell’uguaglianza e della democrazia sono principi essenziali.
Invitiamo tutti coloro che hanno a cuore il futuro di Israele di unirsi a noi nel convincere il governo ed il popolo di Israele che il prezzo che Israele pagherà con l’annessione sarà troppo alto, insopportabile”.
La stampa estera boccia il “Governo dell’annessione”
Quel Governo “contronatura” non piace alla grande stampa internazionale. Il “matrimonio” politico tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz non convince, neanche se messo in rapporto con la dichiarata proclamazione dei due contraenti che quel connubio governativo è imposto dalla “guerra” al Coronavirus. Israele sotto i riflettori della stampa internazionale. “Netanyahu avrà un’opposizione debole e frammentata. Blu e Bianco si è divisa in quattro partiti. Uno è guidato da Yair Lapid, che ha chiesto scusa ‘a chiunque abbia convinto nell’ultimo anno a votare per Gantz. Non credevo che il suo voto sarebbe stato rubato”. Gantz ha provato ad ammantare di coraggio la sua decisione: ‘La triste verità è che un intero Paese è stato paralizzato per due anni con un governo provvisorio, ha detto, accusando gli ex alleati di ‘preferire vittorie politiche alla vittoria contro il Coronavirus”, scrive l’Economist.
Durissimo è il Financial Times: “Gantz appare come un ingenuo neofita che farà da scudo al premier. Sotto il velo dell’emergenza virus, i negoziati si sono concentrati sul processo al premier. Che ha ottenuto il veto sulla scelta del ministro della Giustizia e dei procuratori statali”. Variano i toni, le argomentazioni, ma non la sostanza politica: nel braccio di ferro tra il “Re” e il “Generale”, è il primo, Benjamin “Bibi” Netanyahu, ad aver stravinto.
Rimarca Le Monde: “Netanyahu si trova rilegittimato dopo dieci anni consecutivi al potere. Non potrà più essere costretto a lasciare la carica per comparire da semplice accusato di corruzione, frode e abuso d’ufficio nel processo che si apre il 24 maggio. Solo la Corte Suprema può ancora costringerlo, ma i giudici esiteranno a contrastare un compromesso sostenuto dalla maggioranza parlamentare e dalla presidenza della Repubblica”.
“Israele avrà un Governo ed eviterà le quarte elezioni anticipate in poco più di un anno, ma è improbabile, per non dire impossibile, che avrà la pace. Perché uno dei punti programmatici dell’esecutivo Netanyahu-Gantz è quello di realizzare l’annessione della Valle del Giordano e di una parte significativa della Cisgiordania. Scrive in proposito Le Monde:
“L’accordo rappresenta una fuga in avanti di cui gli israeliani non hanno avuto il tempo di prendere le misure. Per sei mesi limita l’azione del Governo al contenimento della pandemia. Ma prevede un’eccezione cruciale, aprendo la strada all’annessione della Valle del Giordano e delle colonie della Cisgiordania occupata dal 1967. Azione unilaterale promessa da Netanyahu ai suoi elettori. Il progetto potrà essere esaminato dal Parlamento da luglio. Una tale azione unilaterale, illegale sul piano del diritto internazionale, minaccia di condannare un ipotetico Stato palestinese a un insieme di cantoni non più accessibili dalla Giordania. Mette a rischio l’Autorità palestinese e il suo progetto nazionale, come la fragile monarchia giordana”. Incalza Economist: “L’accordo stabilisce che si proceda in modo da non danneggiare gli interessi israeliani, “incluse la necessità di preservare la stabilità regionale, la tutela degli accordi di pace esistenti e l’aspirazione per accordi futuri?. Netanyahu avrà probabilmente l’ultima parola”.
Più che una probabilità, è una certezza.
Il “matrimonio d’interessi” tra Gantz e Netanyahu non maschera un’altra verità. Quella evidenziata dal Financial Times: “Israele non è mai stata così divisa. La guerra culturale divampa tra ebrei laici e religiosi. La divisione etnica tra ebrei e arabi si allarga all’interno di Israele, non solo tra Israele e i territori palestinesi occupati che intende annettere. Netanyahu stesso è una figura altamente divisiva”.
Ma il “matrimonio” durerà davvero per l’intera legislatura? Sono in molti in Israele a non crederci. Rileva in proposito Economist: “Il sollievo è palpabile. Secondo un sondaggio, solo il 31% ritiene che Netanyahu onorerà l’accordo e lascerà il posto a Gantz. Ma l’alternativa – un’altra aspra campagna elettorale, mentre il Paese è in lockdown e prossimo alla recessione – appariva peggiore. Quasi due terzi dell’opinione pubblica appoggiano il nuovo governo, e solo un quinto si oppone”.
Più per necessità “virale” che per convinzione politica. Fino a quando?