Il 5 maggio del 1971 fu ucciso – con il fedele agente Antonio Lorusso – in via dei Cipressi a Palermo, il Procuratore capo della Repubblica, Pietro Scaglione, definito – anche in sede giurisdizionale penale – “magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluta onestà morale, persecutore spietato della mafia, le cui indiscusse doti morali e professionali risultano chiaramente dagli atti”.
Il quarantanovesimo anniversario del delitto, quest’anno, per la grave situazione della pandemia, non sarà ricordato né con cerimonie religiose, né con il consueto Convegno in memoria sul tema “Mafia e Antimafia nel dopo guerra e negli anni cinquanta” (evento che è stato rinviato al prossimo anno).
Entrato in magistratura nel 1928, Pietro Scaglione “dimostrò indipendenza di giudizio anche durante il ventennio fascista” (come scrissero anche i giornalisti Enzo Perrone e Rosario Poma nel volume “La mafia: nonni e nipoti”). Nella sua lunga carriera di giudice e pubblico ministero, si occupò dei più gravi misteri siciliani per accertarne la verità e assicurarne i colpevoli alla giustizia, impegnandosi anche attivamente in difesa dell’autonomia della magistratura dal potere esecutivo. In particolare, con riferimento alla strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, il Pubblico ministero Pietro Scaglione, nel 1953, definì l’uccisione dei contadini come un “delitto infame, ripugnante e abominevole” e accreditò come principali moventi: la “difesa del latifondo e dei latifondisti”; la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Salvatore Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”; la volontà da parte degli autori di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”; la “punizione” contro i contadini che allontanavano i banditi dalle campagne. Nella requisitoria del 1956 sull’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale, il pubblico ministero Scaglione esaltò la figura della vittima e le lotte contadine, parlò di “febbre della terra” e scrisse che l’attività di Carnevale era temuta da coloro che avevano interesse al mantenimento del sistema latifondista e del potere mafioso.
Assunta nel 1962 la carica di Procuratore capo della Repubblica di Palermo, il 30 giugno del 1963 fu, tra i primi, a recarsi a Ciaculli, dove una Giulietta Alfa Romeo, carica di esplosivo, era deflagrata causando la morte di 7 appartenenti alle forze di polizia e all’Esercito. In quella drammatica occasione, ad un Generale dell’Esercito che invocava l’applicazione della legge marziale, replicò che i responsabili della efferata strage sarebbero stati perseguiti nell’osservanza delle regole e delle garanzie dello Stato di diritto. Successivamente, infatti, la Procura della Repubblica, diretta da Pietro Scaglione e l’Ufficio istruzione penale del Tribunale, con il giudice istruttore Cesare Terranova, svolsero una intensa e efficace attività investigativa che portò al risultato di “scardinare e disperdere le organizzazioni mafiose” e allo “scioglimento della Commissione provinciale di Cosa Nostra”, – come si legge negli Atti della Commissione parlamentare antimafia e del maxi processo degli anni 80.
Il Procuratore Scaglione promosse anche numerose inchieste a carico di politici e di amministratori – come risulta dagli atti giudiziari, dalle sentenze e dalla testimonianza del giornalista Mario Francese (ucciso dalla mafia nel 1979), il quale scrisse: «Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni. E’ il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra l’alto magistrato e i politici, il tempo in cui la linea Scaglione portò ad una serie di procedimenti per peculato o per interesse privato in atti di ufficio nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici». Il riacutizzarsi del fenomeno mafioso, negli anni 1969-1971, «aveva indotto Scaglione ad intensificare la sua opera di bonifica sociale», infatti, richieste di «misure di prevenzione e procedimenti contro pubblici amministratori…hanno caratterizzato l’ultimo periodo di attività del Procuratore capo della Repubblica». (M. FRANCESE, Il giudice degli anni più caldi, in il Giornale di Sicilia, 6 maggio 1971, p. 3).
Scaglione si occupò anche della misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro avvenuta nel settembre del 1970. L’intervento di Scaglione nelle complesse indagini fu “attivissimo” come dichiarò anche la moglie del giornalista scomparso nel settimanale “La Domenica del Corriere” del 13 giugno 1972.
Il Procuratore Scaglione svolse altresì, con impegno e dedizione, la funzione di Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei detenuti ed ai soggetti liberati dal carcere, promuovendo, tra l’altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della Giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro.
Inoltre, con Decreto del Ministero della Giustizia, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione fu riconosciuto “magistrato caduto vittima del dovere e della mafia”.
Le causali del delitto, come la precedente scomparsa del giornalista Mauro De Mauro – scrisse lo storico Francesco Renda – erano infatti “inequivocabili”: «Si trattava di una ripresa del terrorismo mafioso tipo 1946-148, non più contro dirigenti sindacali e politici del mondo contadino, bensì contro la stampa e un corpo essenziale dello Stato, come l’organo giudiziario».
Ed ancora, «a partire dagli anni settanta – dichiarò Paolo Borsellino – la mafia condusse una campagna d’eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte…Accadde così per Scaglione».
In questo contesto, «l’uccisione di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo» – affermò infine Giovanni Falcone – aveva comunque, «lo scopo di dimostrare a tutti che “Cosa nostra” non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».
Pietro Scaglione, il primo giudice ucciso dalla mafia