Ci inviano con richiesta di pubblicazione.
Lo staff di iskrae
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Michele Michelino (*)
L’epidemia di Covid-19 ha dato un altro impulso all’attacco alla condizione operaia e proletaria
Mentre i sapientoni a libro paga dei padroni e del governo minimizzavano o ingigantivano i problemi sanitari un giorno sì e l’altro pure, erigendosi a paladini della salute pubblica, e sciorinando giornalmente il bollettino di guerra con la conta dei malati e dei morti, alimentando la paura e la psicosi collettiva il virus capitalista ha continuato imperterrito a fare profitti sulla pelle dei lavoratori.
La “scienza” e la medicina del padrone al servizio del profitto hanno fornito strumenti e alibi a governo e regioni per impedire le libertà costituzionali dei lavoratori e cittadini degli strati bassi, ma non la libertà di fare profitti.
Anche durante l’epidemia con molte fabbriche e luoghi di lavoro chiusi e milioni di operai e lavoratori senza salario, mentre si costringeva in casa, agli arresti domiciliari la popolazione, le fabbriche d’interesse “strategico” (tra cui, a quanto pare, quelle che fabbricano armi), quelle legate al settore alimentare e le multinazionali di ogni tipo hanno continuato a lavorare (più del 60% secondo Il Sole 24 ore), spesso senza fornire dispositivi di protezione individuali e collettivi ai lavoratori (i casi della Bergamasca e del Bresciano sono esemplificativi).
Anche ad una categoria ben precisa – il personale sanitario in prima fila in questa battaglia contro il virus – non sono state fornite le protezioni adeguate, e così i lavoratori e le loro famiglie si sono infettati. Altro che eroi, carne da macello, vittime del lavoro salariato anche loro.
Le proteste e le lotte operaie per la sicurezza nei luoghi di lavoro, contro il padrone per ottenere i dispositivi di protezione individuali e collettivi nell’industria manifatturiera, al lavoro nel 90%, nella logistica e nella sanità, insieme all’insofferenza crescente di una parte della popolazione, il contenimento e il calo persone infette e morte considerate “accettabili” dal sistema capitalista, ma ancor più il calo dei profitti hanno spinto i padroni a premere sul loro governo per aprire una “fase 2” che, insieme alla ripresa economica e dei loro profitti, comporterà una ripresa della popolazione contaminata.
La pandemia ha accentuato anche nuovi modi di lavoro: si è sperimentato su larga scala il telelavoro (nome più moderno del lavoro a domicilio), si propone per il futuro lo smart working (modalità in cui il lavoratore sceglierebbe quando lavorare, senza più legami con una scrivania o un posto fisso e ad un orario fisso e uguale per tutti). Questa scelta è pesata soprattutto sulle donne che, oltre al lavoro domestico, poiché le scuole erano chiuse hanno dovuto badare ai figli per le lezioni online e, nello stesso tempo, lavorare da casa per il padrone. Ma non solo. Oggi già industriali e ministri ci dicono che non è più possibile lavorare con i tempi di prima e quindi si può pensare di lavorare 7 giorni su 7 per “evitare” l’affollamento. Vecchio sogno di Confindustria, che forse, se non ci opponiamo fermamente, finalmente diventerà realtà.
Oggi il lavoro a domicilio, ancor più che in passato, è divenuto un “reparto esterno della fabbrica, della manifattura o del magazzino di merci” Il capitale, con la parcellizzazione e la divisione del lavoro, insieme agli operai delle fabbriche e delle manifatture e agli artigiani su cui esercita il suo diretto comando, lega a sé un altro esercito sparso nelle grandi città e nelle campagne, quello dei lavoratori moderni a domicilio.
Il telelavoro, spacciato come una liberazione e dalla pericolosità del contatto con l’altro, è in realtà una forma di lavoro a domicilio, di divisione della classe proletaria, una parte della quale è emarginata dal settore produttivo principale. È la proposta, o meglio l’imposizione, rivolta ai tutti quei lavoratori la cui presenza fisica non è indispensabile sulla macchina o alla catena. Con il lavoro a domicilio degli albori del capitalismo ha in comune non solo il nome.
Isolati ognuno a casa propria, i lavoratori perdono la nozione di cosa sono, una classe unita dagli stessi interessi. Ogni problema diventa un problema individuale, che richiede una soluzione individuale. Muore così il concetto di collettività, di insieme di interessi di classe. E muore anche il concetto di organizzazione collettiva per opporsi allo sfruttamento.
La crisi sanitaria e la crisi economica – iniziata ben prima dell’apparizione del Covid-19 – che hanno rallentato, quando non fermato, l’accumulazione dei capitali, rende i padroni ancora più “cattivi” e impazienti di rimettere in moto il meccanismo dello sfruttamento: il profitto prima di tutto anche se a scapito della salute della collettività.
È crollato anche un altro “mito”. I sostenitori del libero mercato, delle privatizzazioni, del “meno Stato e più mercato”, quelli che invocavano “la mano invisibile del mercato”, che fino a ieri criticavano l’intervento dello Stato nell’economia, oggi sono in prima fila a chiedere a gran voce aiuti economici dallo Stato e agevolazioni per salvaguardare i loro profitti nella concorrenza internazionale. Come sempre – questo Covid-19 non l’ha cambiato – profitti privatizzati e perdite socializzate.
La fase 2, con il Dpcm del 26 aprile 2020 risponde sostanzialmente agli interessi della Confindustria, consentendo ad un gran numero di lavoratori di poter uscire di casa per andare a lavorare, ma in libertà vigilata.
Rimangono il divieto di assembramento (quindi niente assemblee, niente manifestazioni di protesta) e il distanziamento sociale (interessante scelta del termine: ci dice che l’altro, il nostro compagno di lavoro in questo caso, è un nemico pericoloso, da tenere alla larga).
Più del Covid-19 i padroni temono un altro virus che per loro può essere fatale, quello della ribellione organizzata, dell’insubordinazione sociale, un virus che può scuotere dalle fondamenta il modo di produzione capitalista trasformando in incubi i sonni tranquilli della borghesia. È un problema urgente proprio di questi tempi di crisi: il fallimento di un sistema basato solo sul profitto – nel campo specifico della salute – è chiaro alla maggioranza della popolazione. Pericoloso, molto pericoloso, se questa consapevolezza si estende a tutti gli aspetti della nostra vita.
Il Covid-19 e la crisi economica disastrosa che si accentua, che ha prodotto e produrrà milioni di licenziamenti e un costante peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, dimostrano il fallimento del modo di produzione capitalista basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione in mano alla borghesia.
Da qui la necessità di organizzarci come classe per sè, in un’organizzazione politica che si batta per una società socialista, in cui lo sfruttamento e il profitto privato siano considerati un crimine contro l’umanità. Una società in cui gli operai, i lavoratori che producono la ricchezza, siano al potere, alla direzione del paese, e decidano come produrre e cosa produrre, lavorando per soddisfare i bisogni degli esseri umani.
(*) dalla rivista “nuova unità” n. 3, maggio 2020