Nell’arringa l’avvocato di parte civile invita il boss di Brancaccio a “dire tutta la verità”
di Aaron Pettinari
Era il giorno delle parti civili al processo ‘Ndrangheta stragista che vede come imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, referente della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Entrambi sono accusati per essere i mandanti di quegli attentati che si consumarono tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994 in Calabria contro appartenenti all’Arma dei carabinieri. Il primo attentato, risalente al 2 dicembre 1993, si concluse con un nulla di fatto dopo che i killer non riuscirono a colpire i bersagli. Il secondo il 18 gennaio 1994 vennero uccisi Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, entrambi appuntati scelti. L’ultimo atto vi fu il 1° febbraio 1994, quando i militari Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra vennero investiti dai proiettili durante il controllo di un’autovettura. Per fortuna le due vittime che riuscirono a salvarsi nonostante le gravi ferite riportate.
Delitti che, secondo l’accusa, rientrerebbero nella cosiddetta “strategia stragista” di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra.
Oggi in aula, alla presenza dei familiari, gli avvocati di parte civile si sono associati alle richieste di condanna all’ergastolo formulate dalla Direzione distrettuale antimafia.
Tra loro vi era anche Antonio Ingroia, ex pm, che oggi assiste alcuni dei familiari dei due carabinieri uccisi. Un arringa, la sua, che offre un ulteriore contributo alla già lunga ricostruzione (durata 5 udienze) della requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.
Del resto non è un caso se proprio Ingroia, assieme a Roberto Scarpinato (oggi Procuratore generale a Palermo), è stato uno dei magistrati che condusse l’inchiesta denominata “Sistemi criminali”.
“All’epoca – ha ricordato lo stesso legale – l’idea era quella di mettere a fuoco il periodo delle stragi e contestualizzarle. Allora gli elementi di prova non erano sufficienti, oggi siamo molto più avanti ed è evidente l’esistenza di un sistema criminale integrato di cui fanno parte vari sistemi criminali, dotate di una propria autonomia e strategia, ma che ad un certo punto hanno una strategia unitaria a metterle tutte insieme”.
L’ex pm non ha usato mezze parole. Perché si è detto certo che i due imputati, così come gli esecutori materiali già condannati per il delitto, “non sono gli unici colpevoli”. “Ci sono altri colpevoli – ha aggiunto – anche in misura più grave, se è possibile fare un gradazione di responsabilità di colpevolezza. Soggetti fino ad oggi non processati o neanche indagati, ma solo perché ancora non c’erano gli elementi per farlo. Ora sì per come emerso da questo dibattimento, e soprattutto grazie alle rivelazioni di Giuseppe Graviano, prima con le intercettazioni poi qui in aula. E’ chiaro che l’unica autentica possibilità di giustizia piena è legata alla sentenza che voi pronuncerete. Sarà un primo mattone per costruire la verità piena. La strategia stragista, oscura e sanguinosa che ha interessato il biennio 1992-1994, ha condizionato il trentennio a seguire e le sorti politiche del Paese”.
L’appello al boss di Brancaccio
Più volte Ingroia, nel corso dell’arringa, si è rivolto al capomafia di Brancaccio, invitandolo a rompere definitivamente i propri indugi e collaborare con la giustizia. Perché è lui, forse, uno dei pochi a poter dare una vera spallata al portone della verità. Secondo l’avvocato prova ne è la paura che si è percepita con l’attenzione mediatica sulle sue parole durante il dibattimento. “Quello che temono – ha affermato Ingroia – è soprattutto la verità di Giuseppe Graviano. Il panico che si è diffuso. Giuseppe Graviano ha solo uno strumento per fare giustizia e, se vogliano, farsi giustizia, con gli strumenti che la legge gli mette a disposizione: dire la verità, tutta, da imputato e non necessariamente da collaboratore di giustizia. Deciderà lui e farà le sue valutazioni. Lui sa meglio di noi quello che noi intuiamo. Perché ci sono altri imputati, quelli impuniti, invisibili e che lo stesso Graviano cita nelle sue intercettazioni. Quelli dovrebbero essere i principali imputati, suggeritori di questi delitti”.
Graviano come il bandito Giuliano
Proseguendo nella disamina del racconto del capomafia siciliano Ingroia ha evidenziato come lo stesso si è sentito “usato e scaricato da loro” in una sorta di parallelismo con altre vicende del passato. Perché l’esistenza del Sistema criminale non è datata nel 1991, con le riunioni di Enna, o nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino che resta comunque una data spartiacque. A suo modo di vedere quella struttura nasce ancora prima, fin dal primo maggio 1947 e la strage di Portella della Ginestra, in Sicilia. “Quel delitto ha il medesimo significato, il medesimo impatto, la stessa portata e gli stessi effetti di quanto avvenuto nel 1992-1994 – ha ribadito con forza Ingroia – L’Italia era appena entrata nella democrazia, liberata dal fascismo, e nelle prime elezioni a vincere fu il partito del popolo, contrariamente alle aspettative di quei soggetti che avevano raggiunto l’accordo con Cosa nostra per lo sbarco degli americani. Così si corse ai riparti con una strage dissuasiva, uccidendo nel mucchio i contadini e colpendo anche bambini. Vengono uccisi con un’operazione dietro le quinte, politico-mafiosa, ma agli italiani è stata raccontata come un eccidio addebitato ad un capro espiatorio, il bandito Giuliano“. Ecco la relazione tra il passato ed il presente, secondo Ingroia. Giuliano negli anni Quaranta, Graviano (così come Riina e gli altri capimafia) negli anni Novanta, usati ed abbandonati mentre i mandanti delle stragi resteranno sempre sullo sfondo, senza nome e senza volto. Una storia che rischia di ripetersi.
Il vecchio e il nuovo
Un altro momento chiave, secondo Ingroia, si ha quando gli stessi ambienti d’elité del Sistema criminale diedero una spallata alla vecchia politica avvalendosi degli ignari magistrati di Milano, nel momento in cui Licio Gelli offrì un contributo per scoprire lo sandalo sul Conto protezione a danno di Claudio Martelli. Una vicenda che ne determinò le dimissioni nel 1993.
In quegli anni di stragi, dunque, parallelamente, venivano attuate altre manovre sempre con lo scopo di rimodulare il sistema di potere.
“C’era un mondo politico che tirava da una parte mentre un altro tirava dall’altra. Cosa nostra era nel mezzo e ce lo ha detto lo stesso Graviano nell intercettazioni – ha proseguito Ingroia – Ambasciatori mandavano a dire cosa bisognava far per fermare le stragi, e Graviano nelle intercettazioni parla del ministro dell’Interno dell’epoca. Quello era il tentativo della vecchia politica di salvare sé stessa di fronte alla morte di Salvo Lima. Poi c’era il nuovo che scalpitava per scadere in campo e voleva che le stragi proseguissero”.
Perché i carabinieri
Nel corso dell’arringa Ingroia ha provato anche ad offrire un ulteriore tassello sul perché tra il 1993 ed il 1994 furono colpiti proprio gli appartenenti all’Arma dei carabinieri. Già il pm Lombardo aveva evidenziato come il dato non potesse essere ritenuto come una mera coincidenza. “C’è sempre la presunzione d’innocenza – ha ricorda Ingroia – , ma a Palermo, in primo grado, sono stati condannati alti vertici dell’Arma per la cosiddetta trattativa. E ci furono quelli che non perquisirono il covo di Riina dopo l’arresto, a cui si pervenne attraverso vie mai chiarite fino in fondo. Poi vi fu l’accelerazione all’attentato all’Olimpico e agli omicidi in Calabria. Si doveva dare un ultimo colpo di grazia e dovevano essere carabinieri. Quei carabinieri che, Graviano dice nel suo sfogo ‘devono dire la verità sul mio arresto’. Perché da una parte il messaggio che si manda all’opinione pubblica era quello di colpire un organo dello Stato, ma verso certi ambienti, colpendo i carabinieri si mandava un altro messaggio”.
I segreti da coprire
Il legale della famiglia Fava e Garofalo ha anche parlato dei depistaggi che si sono consumati dietro i delitti ai danni dei carabinieri. “Perché tanti depistaggi e deviazioni dalla verità? Perché c’era una posta in gioco troppo alta. Si dovevano proteggere tre segreti. Il primo quello sulla sintonia e la compenetrazione esistente tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta che erano, e sono, una cosa sola. Il secondo che si trattava di omicidi strategici e simbolici per colpire lo Stato dentro una strategia criminale e complessa in un momento preciso, raffinato e sofisticato, degno di quelle menti raffinatissime di cui parlava Falcone. Il terzo motivo, il più importante, perché si dovevano coprire i mandanti il movente politico-mafioso”.
Per questo motivo il processo ‘Ndrangheta stragista potrebbe essere davvero un processo storico. Perché partendo da sto si può arrivare ad una “verità con la V maiuscola”. Chi può dare un contributo ad essa? Per Ingroia sempre il boss di Brancaccio che “ha l’opportunità di mettere la magistratura alla prova per vedere se è ancora possibile applicare l’articolo 3 della Costituzione e cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge”.
Ad inizio udienza, si è appreso, che dal carcere di Terni, dove per cinque udienze ha preso una lunga serie di appunti mentre ascoltava la requisitoria del pm, è giunta alla Corte d’assise una memoria scritta. Pagine e pagine in cui, dicono alcune indiscrezioni, tornerebbe sugli argomenti trattati durante il suo esame.
E chissà fino a che punto avrà deciso di andare oltre il suo parlato.
16 Luglio 2020