Da “Meta” a “Gotha”, a Reggio Calabria i processi che svelano il “terzo livello”
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
La storia d’Italia, si sa, è profondamente segnata da stragi e delitti. Basta guardare al lungo elenco di fatti e misfatti (Portella della Ginestra, Piazza della Loggia, Piazza Fontana, Italicus, Bologna, via dei Georgofili, San Giovanni in Laterano, San Giorgio al Velabro, Capaci, via d’Amelio, l’omicidio di Aldo Moro, il delitto Agostino, solo per citarne alcuni) su cui, a distanza di anni, si può asserire che non vi sia una verità completa. Eventi che non appartengono solo al passato, ma che hanno un collegamento diretto anche con il tempo presente non solo perché avvolti da segreti e misteri. E’ come se fossero collegati tra loro o comunque inseriti in un quadro più ampio frutto del medesimo “genio” criminale.
Lo scorso luglio, a Reggio Calabria, si è concluso il processo ‘Ndrangheta stragista con le condanne all’ergastolo dei boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, dimostrando in maniera chiara l’unità di intenti tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta in quella strategia di attacco allo Stato che si è sviluppata nei primi anni Novanta. Una stagione che, come ha ribadito nel corso della sua requisitoria il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo “ruotava attorno al crollo comunista e vedeva il disgregarsi di una serie di forze massoniche di ispirazione gelliana e nuovi referenti politici, nel momento in cui i vecchi non erano in grado di garantire più nulla”.
Un nuovo squarcio sul “velo di Maya” che probabilmente resiste sin dalla nascita della nostra Repubblica e che vede tra le protagoniste le varie criminalità organizzate (Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra), ma non solo.
Perché, grazie ad inchieste e processi, ciò che emerge ormai in maniera sempre più chiara è che esse diventano parte di un sistema criminale allargato al cui interno si sviluppano quegli “ibridi connubi” di cui Giovanni Falcone parlava nell’aprile del 1986 a Courmayeur, in un convegno dal titolo “La legislazione premiale”.
Già allora il magistrato parlava dell’esistenza di “realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati”.
Alla luce degli elementi raccolti è doveroso farsi delle domande: quanto questi “ibridi connubi” sono riusciti nel loro intento? Certi rapporti esistono ancora oggi? In che misura?
Per dare una risposta a questi interrogativi è necessario andare oltre a quelle verità preconfezionate ed osservare l’evoluzione che le nostre mafie (capaci di esistere e resistere da oltre un secolo) hanno avuto nel corso del tempo.
Un lavoro che la Procura di Reggio Calabria, con pm come Giuseppe Lombardo, in questi anni ha compiuto in maniera meticolosa. Un percorso tutt’altro che semplice, specie laddove per anni (almeno fino al 2007 se non oltre) si era rappresentata l’immagine di un’organizzazione criminale orizzontale, di tipo familistico.
La realtà, invece, era ben diversa e pezzo dopo pezzo si è dimostrato che la ‘Ndrangheta non finisce a Polsi, dove l’ala militare della ‘Ndrangheta converge per il summit annuale, fotografato dall’operazione Crimine, ma si proietta oltre.
Un modus operandi costruito sin dai primi anni Settanta, sperimentato con il golpe Borghese ed i “moti di Reggio”, in cui la ‘Ndrangheta aveva avuto un ruolo – E’ in quel momento che è nata la cosiddetta “‘Ndrangheta evoluta”. Un ulteriore salto, poi, è avvenuto con la fine della seconda guerra di mafia con alcune famiglie che hanno assunto un peso criminale enormemente superiore a tutte le altre. Di questo direttorio, nel corso del processo ‘Ndrangheta stragista, ha parlato il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Giacomo, ex reggente del clan catanese dei Laudani negli anni delle stragi, spiegando che era in quella struttura che venivano prese le decisioni più importanti. Ed ha anche raccontato che gli interlocutori principali di Cosa nostra in terra calabrese vi erano “i Piromalli della Piana di Gioia Tauro e i Mancuso di Limbadi”. Le stesse figure di cui parla, intercettato nell’ambito dell’indagine Rinascita Scott, l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, accusato di concorso esterno. L’avvocato, per gli inquirenti “riservato” del boss Luigi Mancuso, assicurava che in Calabria “ci sono due mafiosi che sono i numeri uno in assoluto, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso che è più giovane e forse più potente. Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… L’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni…”. Sono loro due membri, dunque, della “cupola calabrese”.
La rete degli invisibili
Chi fosse parte di quella sorta di direttorio non era cosa nota a tutti. Perché all’interno della ‘Ndrangheta, come ha ricordato più volte Lombardo, vi è una sorta di doppia dimensione: una visibile ed una invisibile. Quella che conta è quella invisibile. E lo dice in maniera chiara il boss Sebastiano Altomonte in uno storico dialogo con la moglie, registrato nell’ambito dell’inchiesta “Bellu lavuru”: “C’è una che si sa e una che non la sa nessuno, perché se no oggi il mondo finiva; se no tutti cantavano. Perché c’è la visibile e l’invisibile (…) noi altri siamo nell’invisibile. Capisci? E questo conta”. E’ da quelle parole che si ricava la chiave di lettura per leggere l’intricato crocevia di interessi del sistema criminale.
L’esistenza della struttura riservata è stata ampiamente riconosciuta dalle sentenze del processo “Meta” in cui si spiega che è “composta da soggetti significativamente definiti dagli stessi indagati come ‘gli invisibili’ (…) la cui adesione alla ‘Ndrangheta, anche per ragioni di maggiore tenuta della stessa organizzazione, è e deve rimanere ignota agli stessi altri affiliati”. Il tutto inserito nell’ambito di “un’ulteriore strategia di auto-protezione verso attacchi esterni ed interni”, quindi “segreta persino rispetto agli ordinari affiliati ‘visibili’ ossia quelli dei quali è nota (…) l’appartenenza all’organizzazione ‘ndranghetistica”.
Collaboratori di giustizia come Consolato Villani hanno spiegato il bipolarismo della ‘Ndrangheta che da una parte bada alla “forma” e un’altra che è di “sostanza”, in cui “gli invisibili, che sono più in alto, hanno contatti con il mondo politico, con altre parti della società, sono massoni”. E proprio in base al racconto dei pentiti si è compreso anche che le due dimensioni di ‘Ndrangheta sono imprescindibili: ovvero non può esistere l’invisibile senza la visibile, e viceversa.
Quel legame con le logge
Un discorso molto simile a quello che il collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio, massone di alto rango finito al servizio del clan Molé, ha fatto sulla massoneria al processo Breakfast spiegando la differenza tra le logge ufficiali e quelle “coperte”: “Le une non possono esistere senza le altre”. “Ci sono le logge che hanno il ‘maglietto pulito’ che rispettano la legge Anselmi – aveva poi aggiunto -, ma poi c’è anche il ‘maglietto coperto’ in cui si inseriscono i ‘Sussurati all’orecchio’ ed i ‘Sacrati sulla Spada’. I primi sono persone istituzionali importanti che non vogliono apparire negli elenchi. I secondi sono persone che magari hanno condanne o sono fuoriusciti dalla massoneria perversa come la P2. Noi le chiamavamo logge ombra”. Tanto ai magistrati reggini, quanto a quelli di Catanzaro, Virgiglio ha raccontato elementi sul “mondo di mezzo” in cui ‘Ndrangheta e massoneria arrivano a mescolarsi fino a diventare un’unica cosa.
I primi mettono sul piatto gli ingenti denari (una liquidità frutto in particolare del traffico internazionale di stupefacenti di cui è di fatto monopolista in occidente), la capacità militare, e una diffusione capillare su tutto il territorio che si traduce in sostegno politico. I secondi (espressione della politica, dell’imprenditoria, della finanza, delle banche, della sanità o della pubblica amministrazione), la loro rete di contatti, la possibilità di accedere all’universo degli appalti e dei grandi affari.
Un’inquietante commistione di interessi di cui ha parlato un’altra figura di riferimento dell’universo di “mantelli e grembiuli”: Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia).
Anche quest’ultimo è stato ascoltato nel corso del processo ‘Ndrangheta stragista ed ha raccontato fatti spaventosi che in un Paese normale avrebbero fatto sobbalzare un intero Stato. Non ha riferito solo di rapporti ma di una vera e propria “compenetrazione” tra massoneria e ‘Ndrangheta. Secondo Di Bernardo, inoltre, mentre “nella massoneria siciliana non c’era, per così dire, un punto di vista unitario” in Calabria “al di là di tutti i contrasti che esistevano tra le obbedienze massoniche di quel territorio, c’era una mente che regolava tutti. Si percepiva un filo conduttore”. Ma Di Bernardo ha anche rappresentato “un ruolo della massoneria nella strategia di attacco allo Stato”. Quindi ha riferito elementi inquietanti su Licio Gelli e la loggia P2, asserendo che nonostante la legge Anselmi, si è solo sciolta una sigla e che a tutt’oggi “non si è intaccata la sostanza della loggia P2”. Tanto che i veri elenchi della P2, ha sostenuto il Gran Maestro, non sono stati trovati.
Il “Gotha” che decide
Possono cambiare le longitudini e le latitudini sulla cartina, ma il quadro che emerge è quello di un “circuito” in cui vari poteri dialogano tra loro, tirando le fila e decidendo strategie ed affari. Una sorta di cupola, fatta di insospettabili personaggi, in passato chiamata in causa nei momenti più importanti per l’organizzazione (anche per decidere sui fatti più gravi come la stagione degli attentati in continente), ma che ancora oggi, in Italia e all’estero, stabilisce le macrostrategie economiche e finanziarie, individua, recluta e struttura i massimi referenti al di fuori dell’organizzazione.
Al suo interno vi sono personaggi che non si è abituati ad immaginare all’interno di una ‘ndrina, e che invece ben incarnano la capacità di cambiare pelle e che permette alle mafie di sopravvivere grazie ai rapporti con le leve istituzionali, economiche, politiche e finanziarie dell’Italia.
Attualmente a Reggio Calabria è in corso il processo “Gotha”, che racchiude inchieste delicatissime come “Mamma Santissima”, “Fata Morgana” e “Sistema Reggio”, “Reghion” ed “Alchimia”. Le accuse, a vario titolo, sono di associazione mafiosa, voto di scambio, violazione della legge Anselmi, corruzione, estorsione, truffa, falso ideologico e rivelazione di segreti d’ufficio.
Principale imputato di questo troncone è Giorgio De Stefano, cugino dei boss Paolo, Giovanni e Giorgio De Stefano (uccisi negli anni ‘70 e ’80), secondo l’accusa elemento di vertice dell’omonima cosca e testa pensante della ‘Ndrangheta reggina assieme all’avvocato Paolo Romeo, ex deputato del Psdi vicino alla destra eversiva e a strutture paramilitari come Gladio, che diversamente ha scelto di essere giudicato con il rito ordinario. Due nomi che tornano ripetutamente nelle inchieste della magistratura e definiti dai pm come dei “soggetti ‘cerniera’ che interagiscono tra l’ambito ‘visibile’ e quello ‘occulto’ dell’organizzazione criminale”; una struttura segreta legata alla massoneria per interagire riservatamente con istituzioni, politici, imprenditori, ammorbando la vita democratica del capoluogo e della sua provincia.
De Stefano, già condannato definitivamente per concorso esterno nel processo “Olimpia” e in primo grado condannato in abbreviato a 20 anni, nella sentenza di primo grado viene inquadrato dal gup Laganà come un soggetto che “già a partire dalla fine degli anni ’90, al vertice della ‘Ndrangheta, in un contesto criminale che interagisce stabilmente, attraverso associazioni segrete caratterizzate dalla ‘segretezza’ dei ‘fini’ e dalla ‘riservatezza’ dei ‘metodi’ (massoneria deviata), con il mondo dell’imprenditoria, della finanza, della magistratura e, più in generale, delle Istituzioni (organi amministrativi e politico-rappresentativi degli enti locali e del governo centrale)”.
Nel medesimo troncone sentenza di condanna è stata emessa anche nei confronti del nipote, Dimitri De Stefano (13 anni e 4 mesi, rampollo della cosca e figlio del cugino di Giorgio De Stefano.
Una famiglia che a Reggio, e non solo come dicono i pentiti, “tutto possono”. Figure di “governo” a cui facevano riferimento una pletora di soggetti legati al mondo della politica, dell’economia, della grande finanza e della società civile. Così, in primo grado, sono stati condannati soggetti come l’ex sindaco di Villa San Giovanni, Antonio Messina, l’ex cancelliere del tribunale Aldo Inuso, il commercialista Natale Saraceno e l’imprenditore Angelo Frascati.
L’inchiesta ed il processo condotto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ed i sostituti della Dda Stefano Musolino, Roberto Di Palma, Walter Ignazitto, Sara Amerio, Gianluca Gelso e Giulia Pantano ha dimostrato l’esistenza dell’associazione segreta capace di infiltrarsi negli enti locali e dettare gli indirizzi politici.
Romeo e De Stefano, dunque, sono i rappresentanti di quel livello di vertice formato, così come emerso da alcune conversazioni intercettate, da sette persone (lo stesso numero di cui parlava l’ex boss Di Giacomo) inserite all’interno delle famiglie al vertice dei tre mandamenti in cui la ‘Ndrangheta si divide: i Piromalli per la zona tirrenica, i De Stefano-Tegano per Reggio città, i Nirta-Scalzone (la Maggiore) per la Jonica. E oggi come ieri, hanno spiegato in più occasioni gli inquirenti, sono sempre loro ad avere l’ultima parola sulle grandi strategie di tutta l’organizzazione.
Dalle motivazioni della sentenza emessa nel marzo 2018 si evince come quella struttura “ha rappresentato una sorta di evoluzione delle strategie messe in campo da Romeo per etero-condizionare l’azione di governo locale ai fini illeciti del sodalizio criminale di stampo mafioso di cui lo stesso Romeo fa parte da oltre trent’anni”.
E sempre appoggiandosi a quella struttura sarebbero state costruite intere carriere politiche come quella dell’ex senatore Antonio Caridi, imputato nel processo con il rito ordinario, o l’ascesa di Giuseppe Scopelliti, nelle file del centrodestra, prima come sindaco e poi come Governatore della regione Calabria.
A processo ci sono anche altri nomi di rilievo come l’ex presidente della Provincia Giuseppe Raffa (Forza Italia), l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra (ex An), il magistrato in pensione Giuseppe Tuccio e il prete di San Luca don Pino Strangio. A settembre si tornerà in aula, in ordinario, dove attualmente si sta procedendo con l’esame degli imputati, che l’appello in abbreviato.
Filo eversivo
Per meglio comprendere la forza degli “invisibili”, la sentenza “Gotha” parla di “osmotico interscambio di uomini e mezzi, elementi di vertice del sodalizio criminale ed esponenti della società civile, dell’associazionismo, delle istituzioni, delle forze dell’ordine, della magistratura, è stato reso possibile proprio grazie allo stretto legame ‘Ndrangheta-politica”.
Un rapporto che ha permesso alla cupola e alle sue emanazioni di determinare e condizionare le scelte politiche, economiche e imprenditoriali della città, accaparrandosi il controllo degli appalti, dei lavori e dei finanziamenti pubblici. Anche così, senza dover per forza fare ricorso alle bombe, si sovverte una democrazia. Un sottile piano eversivo che ha attraversato la storia criminale del Paese.
Basti ricordare le dichiarazioni di pentiti come Nino Fiume, ex killer dei De Stefano. Parlando proprio dell’avvocato De Stefano ha raccontato come questi fosse ritenuto il “consigliori” della famiglia, nonché “erede di quelle relazioni riservate che il defunto boss Paolo (De Stefano, nda) aveva iniziato ad intessere ed a coltivare sin dagli anni ’70”.
E proprio nel corso del processo Gotha è stato ricostruito il rapporto che la famiglia De Stefano aveva con gli ambienti dell’eversione nera che parte “nel periodo antecedente all’inizio della prima guerra di ‘Ndrangheta e, in particolare, nel periodo di svolgimento del summit di Montalto nell’ottobre dell’anno 1969, in occasione del quale l’organizzazione avrebbe dovuto ‘formalizzare’ l’adesione a progetti eversivi anche attraverso il fattivo ausilio in azioni di stampo terroristico”.
Un legame che risale, non casualmente, ai moti di Reggio Calabria degli anni ’70 quando si sono registrati legami strettissimi “tra esponenti dei movimenti politici di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, tra i quali il terrorista di estrema destra Franco Freda, ed elementi di vertice della ‘Ndrangheta, nella specie il defunto boss Paolo De Stefano”. A parlarne è il collaboratore di giustizia Barreca che di Freda avrebbe gestito la latitanza per conto degli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Secondo il pentito il terrorista nero è stato tra i fondatori in Calabria di una “superloggia segreta di cui facevano parte appartenenti alla ‘Ndrangheta e alla destra eversiva”. Una struttura nascosta “in una loggia massonica ufficiale” e simile a quella che Michele Sindona stava realizzando a Catania nel medesimo periodo.
Cosa unica
Ancora una volta, mafia, massoneria ed eversione nera unite in un unico disegno. Un legame raccontato anche dai “siciliani” Gioacchino Pennino (“mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”) e Leonardo Messina.
Quest’ultimo, ex boss di San Cataldo, tra gli ultimi ad essere interrogato da Paolo Borsellino quando era in vita, quando fu ascoltato davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia il 4 dicembre 1992 rivelò che “molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Disse anche che “Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia” era alla ricerca di un “compromesso” con “l’interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. … Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada”. In un successivo interrogatorio disse anche che “Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata”. E su questi intrecci oggi i magistrati sono tornati ad indagare. Non solo per trovare quei pezzi mancanti di verità sugli anni bui delle stragi, ma anche per definire ciò che accade nel tempo presente.
Stato parallelo
Perché il sistema criminale è in continua evoluzione e i circuiti di connessione possono giungere a livelli altissimi di potere.
Basta andare a rileggere i contenuti di un’informativa della Dia reggina, finita agli atti del processo Breakfast che in primo grado ha visto la condanna a 2 anni dell’ex ministro Claudio Scajola per procurata inosservanza della pena in favore dell’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, ancora oggi latitante a Dubai dopo la condanna definitiva a tre anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
In quel documento, denominato “Stato-parallelo” si parla dell’esistenza di una “superassociazione al cui interno si colloca anche l’organizzazione di tipo mafioso, di certo al pari di altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato”. Una sorta di “stato parallelo”, appunto, in cui si manifestano una serie di “interlocuzioni costanti con apparati istituzionali e professionali” e che si basa su “un’ampia rete relazionale e di interessi che caratterizza il mondo imprenditoriale, economico nazionale e internazionale, in collegamento sinallagmatico con le più evolute manifestazioni operative della ‘Ndrangheta”.
Nel corso del processo contro Scajola venne affrontato anche l’argomento della tentata fuga dell’ex senatore e fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, arrestato proprio a Beirut, anche lui condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nelle motivazioni della sentenza i giudici scrivono che era “altamente verosimile che le due latitanze siano maturate nell’ambito dello stesso contesto con un trait d’union che è stato di certo Speziali Vincenzo (faccendiere e parente dell’ex presidente del Libano Amin Gemayel, ndr), naif quanto pare, ma certamente in grado di intessere legami e relazioni”. Si tratta, specifica il Tribunale, di “rapporti vischiosi tra personaggi appartenenti al mondo della politica, del commercio, della finanza, dell’imprenditoria, della massoneria”.
Una macchina che si era mossa per proteggere soggetti come Dell’Utri e Matacena, anelli di congiunzione tra mafia e politica, in un giro di interessi politici ed economici di altissimo livello.
La Dia, senza mezzi termini, parla degli interessi sugli appalti italiani in Libano, della realizzazione di infrastrutture e dello sfruttamento di giacimenti petroliferi. Tutti argomenti affrontati tra riunioni e cene nella Capitale italiana.
E’ lo specchio di quel sistema criminale integrato che in molti fanno finta di non voler vedere.
Ma forse è solo questione di tempo. Perché come ricordava il pm Lombardo durante la requisitoria del processo ‘Ndrangheta stragista, il percorso verso la verità, citando le parole del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, “passa per tre gradini: viene ridicolizzata, viene contrastata, e infine viene accettata come ovvia”.
07 Agosto 2020