di Stefano Morselli
Tra i tanti possibili spunti per raccontare pezzi di storia del Pci – nel centenario della fondazione e nel trentennale dello scioglimento, che ricorrono entrambi a gennaio del prossimo anno – finora nessuno aveva pensato a un tavolo. L’idea è venuta a Lorenzo Capitani, un tempo segretario della Federazione giovanile comunista di Reggio Emilia, poi assessore comunale alla cultura, in tempi meno lontani insegnante di storia nelle scuole superiori, nonché autore di varie pubblicazioni dedicate alle vicende dei comunisti reggiani ed emiliani. Il suo ultimo lavoro, nel quale ha raccolto contributi e testimonianze di varia umanità politica e culturale, si intitola appunto “La storia sul tavolo. Tra due epoche del Novecento, cronache, memorie, riflessioni sul Pci di Reggio Emilia”.
Dalla Casa del Fascio al Pci
“Era qualche anno che ci pensavo – spiega Capitani –. Il tavolo, già di suo, ha una storia molto particolare. Fu costruito e utilizzato in piena epoca fascista, poi con la Liberazione fu acquisito dal Pci insieme all’intera Casa del Fascio. Dopo lo scioglimento del Pci passò per diverse mani, finché nel 2007 fu comprato dal titolare di una concessionaria automobilistica, nei cui locali sta trascorrendo la sua ennesima vita. E’ una vicenda curiosa, che si presta bene a fare da filo conduttore per un libro che, in realtà, ha soprattutto lo scopo di stimolare altre ricerche, più ampie e organiche, sulla storia del Pci. Alla vigilia del centenario, mi è sembrato il momento giusto per concretizzare l’idea, anche grazie a collaborazioni preziose che mi hanno consentito di arricchire i ricordi e i materiali che avevo”.
Il tavolo, dunque, inconsueto per la forma ottagonale e per le dimensioni imponenti. Attorno ad esso si riuniva la segreteria provinciale del partito, venivano ricevuti i dirigenti nazionali fin dai tempi di Togliatti, si tenevano gli incontri più riservati, e con gli ospiti più importanti. Era collocato nella sala antistante l’ufficio del segretario e costituiva il “sancta sanctorum” del settecentesco Palazzo Masdoni Toschi Rocca Saporiti, così chiamato dalle nobili famiglie che vi dimorarono. Nel 1954 questo maestoso palazzo divenne sede di una delle più grandi federazioni comuniste d’Italia e dell’Europa occidentale. Già questo, oltre che la pregevolezza artigianale, basterebbe a giustificare il blasone dell’oggetto. Ma prima di diventare “comunista”, il tavolo aveva trascorso la sua infanzia e giovinezza in altra e ben diversa sede: la sala del Direttorio della Casa del Fascio, i cui gerarchi tra il 1929 e il 1930 decisero di rinnovare l’arredo, a maggior gloria simbolica del regime. Qualcuno ipotizza, ma forse è solo una leggenda, che vi si sedette anche Benito Mussolini.
Se la progettazione fu affidata a un esperto di sicura fede fascista, la costruzione materiale fu invece realizzata – racconta Attilio Marchesini, studioso di storia locale, già curatore dei Musei Civici – della Cooperativa lavoranti in legno e affini. Una cooperativa che non aveva voluto aderire alla centrale di regime e dava lavoro a parecchi socialisti e comunisti (tra i quali l’allora segretario della clandestina federazione giovanile comunista e futuro partigiano Desiderio Cugini). Anche le raffinate modanature, scolpite in legno di bosso, furono opera di un abile mastro intagliatore più volte diffidato e ammonito per le sue idee comuniste. Fino alla Liberazione, il tavolo fu testimone silenzioso delle decisioni assunte dai capi fascisti, alcune destinate a restare drammaticamente nella storia, come la fucilazione dei sette fratelli Cervi nel dicembre 1943.
Dalla Caritas al concessionario
Il Pci si insediò nella ex Casa del Fascio già il 26 aprile 1945. Vi rimase fino allo sfratto intimato dal governo Scelba ed eseguito da centinaia di poliziotti in assetto di guerra il 13 ottobre 1954. Ma i comunisti reggiani avevano già provveduto ad acquistare la nuova sede e, poche ore dopo, entrarono in corteo dentro l’antico palazzo di via Toschi. Al seguito, negli ampi e prestigiosi spazi, trovò degna sistemazione anche il tavolo ottagonale, arruolato definitivamente al servizio di nuovi convitati e nuovi ideali, sicuramente più affini agli artigiani che lo avevano costruito. E in servizio rimase per decenni, accompagnando impassibilmente l’alternarsi di gruppi dirigenti, linee politiche, vicende locali e nazionali.
Il libro ne ripercorre per sommi capi il percorso, attraverso riferimenti storici, riflessioni sul partito, aneddoti di costume. A volte inediti, o comunque poco conosciuti, perché il tavolo – nell’esercizio delle sue funzioni riservate – era accessibile a pochi dei sessantacinquemila e più iscritti che arrivò ad avere la federazione provinciale comunista. Federazione che, fino a quando non si allentarono le cosiddette “cinghie di trasmissione”, fu ineludibile punto di riferimento per l’intera società reggiana, dalla pubblica amministrazione all’associazionismo, dalla cooperazione al sindacato.
L’aura di autorevolezza, anche severa, che circondava il massiccio ottagono in legno era tale da inquietare chi, non avendone sufficiente grado politico, vi veniva eccezionalmente convocato. Lo ricorda, in una divertente ricostruzione, un ex giovane comunista degli anni Sessanta, che seduto a quel tavolo ebbe una solenne lavata di capo al rientro da un soggiorno sul lago Balaton, in Ungheria. Ove, architettando un clamoroso scherzo, aveva gettato scompiglio nella delegazione reggiana e perfino tra i partner meno inclini alla goliardia della Federazione Mondiale Gioventù Democratica, in particolare i sovietici.
Se il tavolo potesse parlare, di cose da raccontare ne avrebbe sicuramente tante che non basterebbe un solo libro a contenerle. Poco dopo la fine del Pci, nell’ottobre 1991 gli eredi traslocarono da Palazzo Masdoni, ormai troppo grande e di gestione troppo costosa per le declinanti risorse del partito. Non trovando spazio nella sede successiva, per parecchi anni il tavolo fece quasi perdere le proprie tracce, fino ad approdare, chissà per quali vie, in un magazzino della Caritas. Qui, un bel giorno, lo notò e lo acquistò un antiquario di buon fiuto, che lo restaurò e lo fece riapparire in una importante esposizione a Modena. Le cronache giornalistiche dell’epoca – era il novembre 2007 – scrissero che tra gli aspiranti compratori ci fu anche Francesco Storace, noto esponente dell’estrema destra, presumibilmente attratto dalla primissima fase della storia del manufatto.
Ma la spuntarono i fratelli Mauro e Fabrizio Bassinghi che, il 30 novembre, nella loro concessionaria di automobili, presentarono in pompa magna il tavolo ritrovato. “Recuperarlo – dice Mauro Bassinghi nelle prime pagine del libro – è stato un gesto di rispetto per la storia di un grande partito, alla quale mi sento molto legato sia personalmente che per il ricordo di mio padre, antifascista, operaio, attivista politico e sindacale, poi fondatore di una azienda che in quei tempi fu nota come la ceramica dei comunisti e dei contadini. Mi capita spesso, guardando la struttura e le decorazioni del tavolo, di pensare al lavoro. Al lavoro fatto bene, alle tante lotte per il suo giusto riconoscimento. E a come evitare che quelle lotte, quegli ideali vadano dispersi”.