di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Nelle dichiarazioni del neo collaboratore Geraci il racconto sul summit di cui parlò l’ex boss Vito Galatolo
“L’ordine di colpire Di Matteo resta operativo”. A questa conclusione era giunta la Procura di Caltanissetta nell’indagine archiviata sul progetto di morte nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm e al tempo uno dei magistrati dell’inchiesta “Trattativa Stato-Mafia”.
C’era stata la condanna a morte del Capo dei capi Totò Riina (oggi deceduto), poi nel 2014 le dichiarazioni di Vito Galatolo sull’organizzazione dell’attentato, l’arrivo di 150 chili di tritolo a Palermo, acquistati in Calabria, e quella richiesta di esecuzione proveniente da Matteo Messina Denaro per conto di altri soggetti (“Gli stessi di Borsellino”). Anche altri collaboratori di giustizia avevano portato elementi a riscontro di quelle dichiarazioni e tre anni dopo l’archiviazione un nuovo pentito offre un nuovo tassello.
Si tratta di Alfredo Geraci, ex mafioso di Porta Nuova, che da circa un mese riempie verbali davanti ai magistrati di Palermo raccontando di affari, estorsioni e dinamiche delle famiglie mafiose del Capoluogo siciliano.
Così come ha riportato il quotidiano La Repubblica in un verbale depositato dai pm Francesca Mazzocco ed Amelia Luise nel processo contro il clan di Porta Nuova, in cui Geraci è imputato, vi sono dei riferimenti a quella riunione del dicembre 2012 in cui, aveva raccontato Galatolo, giunse la missiva della primula rossa di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro per compiere l’attentato contro Di Matteo.
L’ex boss dell’Acquasanta aveva raccontato che a partecipare in un summit ristretto erano lui assieme al suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio. Inoltre aveva spiegato anche il motivo per cui il pm doveva essere ucciso: “si era spinto troppo oltre”.
In questi mesi Geraci ha raccontato che fu lui a procurare l’appartamento di Ballarò per quell’incontro. Lui non conosce effettivamente quelli che erano i contenuti della discussione, tuttavia il suo capo, D’Ambrogio, gli avrebbe fatto delle confidenze importanti facendo capire che Messina Denaro aveva chiesto qualcosa ai mafiosi di Palermo.
Ovviamente sulle dichiarazioni di Geraci vi è il più stretto riserbo, in quanto coperte dal segreto istruttorio, tuttavia, in quel primo verbale il riferimento è chiaro: “Mi ricordo l’appuntamento che mi è rimasto impresso, c’erano malumori perché praticamente si diceva che Giuseppe Fricano (reggente del mandamento di Resuttana e oggi detenuto, ndr) non era all’altezza di gestire il mandamento, dicevano che c’erano i Madonia seccati, dicevano che c’era Vito Galatolo nervoso per questa cosa. Un giorno mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione”. L’incontro, in base al suo ricordo, fu organizzato fra il 2012 e il 2013 “in via Albergheria 97. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia; Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio; Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate; c’era anche Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù per aprire il portoncino a chi arrivava. Mi ricordo benissimo che a Galatolo lo andò a prendere Giuseppe Di Maio in vicolo Pipitone”. Fu quella l’occasione in cui “era stata fatta la presentazione di Tonino Lipari che era stato fatto uomo d’onore di Alessandro D’Ambrogio”.
Molto probabilmente si tratta proprio dell’incontro nel quartiere Ballarò di cui riferì lo stesso Galatolo. L’ex boss dell’Acquasanta disse che si tennero due riunioni: la prima in cui si discusse di uomini e ruoli della nuova mafia, poi la seconda riunione, riservata, con Graziano e D’Ambrogio e alla presenza di Biondino.
Proprio quest’ultimo, a detta di Galatolo, avrebbe portato il messaggio di Messina Denaro che nella missiva metteva a disposizione persino un esperto di esplosivi per portare a termine l’azione.
Galatolo disse anche che quell’incontro a Ballarò sarebbe avvenuto nel pomeriggio del 9 dicembre 2012.
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Uno scatto d’archivio del boss Matteo Messina Denaro
Riavvolgiamo il nastro
Mettendo assieme tutti i pezzi, che si aggiungono alle dichiarazioni di Francesco Chiarello, ex boss del Borgo Vecchio, che disse di aver saputo che l’esplosivo era stato “trasferito in un altro nascondiglio sicuro”, a quelle del boss Carmelo D’Amico, e agli elementi acquisiti con l’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo, oggi anch’egli deceduto, si capisce la concretezza di quel progetto di attentato. Cosa nostra era pronta a colpire anche con l’utilizzo di armi convenzionali, a Roma, e aveva studiato anche alcuni luoghi in cui compiere l’attentato come il Palazzo di Giustizia di Palermo o nei pressi dell’abitazione del magistrato.
Le successive inchieste con gli arresti di D’Ambrogio, Biondino, Galatolo e Graziano hanno sicuramente portato ad un rallentamento dei piani di Cosa nostra, ma ciò che è avvenuto in quegli anni, e in quelli successivi, apre ad un’analisi profonda sul perché, e soprattutto chi, si vuole uccidere il magistrato Nino Di Matteo.
Basta ricordare le criptiche (e mai chiarite) parole del boss Graziano, colui che aveva il compito di conservare il tritolo, dette al momento dell’arresto che in riferimento all’esplosivo disse: “Dovete cercarlo nei piani alti” o ancora la considerazione di Galatolo sulle “garanzie” ricevute da Cosa nostra per compiere il delitto: “Nella lettera era scritto che facendo quell’attentato non ci dovevamo preoccupare perché questa volta non sarebbe stato come negli anni ‘90 e saremmo stati coperti”.
Pochi mesi dopo quel summit, il 26 marzo 2013, un anonimo, giunto sulla scrivania dell’allora sostituto procuratore di Palermo, avvisava che “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità”. L’autore sosteneva di essere affiliato alla famiglia mafiosa di Alcamo.
Tutto questo aleggia attorno al “mistero” dell’attentato contro Nino Di Matteo.
Partendo da tutti questi elementi, vecchi e nuovi, la Procura di Caltanissetta non solo dovrebbe riaprire quel fascicolo sul progetto di attentato, ma anche procedere con una richiesta di rinvio a giudizio per tentata strage e tentato omicidio.
Perché come dissero gli stessi giudici nell’archiviazione “l’ordine per colpire Di Matteo resta operativo” e il tritolo, ad oggi, è ancora nascosto da qualche parte nella città.
Solo con un processo ed un dibattimento potrebbero emergere nuove prove ed elementi anche su quei possibili mandanti esterni che avrebbero chiesto a Messina Denaro di perorare l’esecuzione.
Il rinvio a giudizio potrebbe essere già chiesto nei confronti di Vito Galatolo, che si è auto accusato, Matteo Messina Denaro, che inviò la lettera, Girolamo Biondino, Vincenzo Graziano e Loris D’Ambrogio, che parteciparono a quella riunione deliberativa.
Devono essere sentiti come testimoni tutti i collaboratori di giustizia che hanno parlato dell’attentato.
E in quella sede, di fronte al giudice, andrebbero approfonditi e sviscerati tutti quegli interrogativi rimasti inevasi. Perché non dimentichiamo che minacce, intimidazioni e condanne a morte sono pervenute negli anni dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, in pieno conflitto di attribuzione sollevato dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano nei confronti della Procura di Palermo sul caso delle intercettazioni che lo vedevano coinvolto con l’ex ministro Nicola Mancino, imputato al processo trattativa Stato-Mafia per falsa testimonianza.
Non dimentichiamo che quello era il periodo in cui “giornaloni” e “benpensanti” attaccavano e ridicolizzavano continuamente l’inchiesta ed il processo sulla trattativa.
La Procura nissena deve avere il coraggio di approfondire il ruolo della dama di compagnia di Totò Riina, Alberto Lorusso, che raccolse in diretta la condanna a morte espressa dal Capo dei capi.
Perché non dimentichiamo che gli inquirenti ritrovano nella sua cella una lettera scritta con l’alfabeto fenicio con all’interno parole codificate come “Attentato”, “papello” e “Bagarella”.
L’arresto del Capo dei Capi, Totò Riina
Non è mai stato chiarito se quella lettera sia stata scritta da Lorusso per recapitare un messaggio all’esterno o se invece sia stata inviata da qualcuno che voleva “suggerire” argomenti da sostenere con Riina. Interrogato dai pm sui possibili rapporti con uomini dei servizi il capomafia della Sacra Corona Unita rispose che “è meglio non parlare di queste cose”.
Magari potrebbe essere sentito come persona informata sui fatti anche l’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, quantomeno per sapere se il suo assistito gli disse qualcosa o espresse qualche considerazione. Non solo.
Per comprendere chi e perché si vuole fermare il magistrato Di Matteo si dovrebbe approfondire l’argomento degli “amici romani” che chiesero l’attentato.
Un’indagine a tutto campo che parta dalle testimonianze di chi sedeva negli scranni del potere del tempo, che con fastidio, irritazione e continui dileggi hanno contrastato l’azione del magistrato, per arrivare a chi, anche recentemente, ha clamorosamente voltato le spalle rimangiandosi promesse e impegni.
Perché anche così si comprendono i motivi per cui è scomodo.
Quindi si dovrebbero chiamare a testimoniare anche l’attuale ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, su quei dinieghi che lo portarono a non scegliere più Di Matteo come capo del Dap nel 2018; il capo politico dei Cinque Stelle Luigi Di Maio, per sapere se vi furono pressioni che lo indussero a fare una clamorosa marcia indietro nella nomina di Di Matteo come ministro dell’Interno o della Giustizia nello stesso anno; se certe scelte sono dovute a qualche pressione o se furono una mera scelta di partito; e poi ancora capire se vi furono pressioni sul procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che estromise con motivazioni prive di logica Di Matteo dal pool stragi, salvo poi tornare sui propri passi lo scorso 23 settembre con il reintegro “con effetto pienamente ripristinatorio”.
In diretta tv, nella telefonata durante il programma “Non è l’Arena” su La7, disse di aver ricevuto le rimostranze di un Procuratore di una delle Dda soggette al coordinamento della Procura nazionale che cerca di scavare sulle stragi del 1992, del 1993 e del 1994. Chi?
Potrebbe essere l’occasione per capire definitivamente quanto avvenuto per dipanare ogni dubbio di fronte al sospetto legittimo che poteri forti si siano messi in moto per impedire che Nino Di Matteo avesse certi incarichi e portasse avanti quelle indagini sui mandanti esterni di stragi e delitti eccellenti che, volente o nolente, ancora oggi condizionano la nostra Democrazia. Se si guarda a fondo si comprende che c’è un filo unico che lega tutti questi fatti. Si deve avere solo il coraggio di alzare il livello ed andare oltre. Dando la faccia!
10 Novembre 2020