di Gianni Barbacetto
Con precisione matematica e tempistica perfetta, il Guastafeste del Pio Albergo Trivulzio è stato duramente punito. Pietro La Grassa, operatore tecnico specializzato, categoria Bs, ma soprattutto sindacalista della Cgil che non è mai stato zitto di fronte a quello che vedeva succedere dentro la “Baggina” ai tempi del coronavirus, ha ricevuto ieri una sospensione cautelare dal lavoro per 30 giorni. Mercoledì La Grassa ha raccontato ancora una volta a Gad Lerner la situazione del Trivulzio. Giovedì mattina le sue parole sono arrivate in edicola, nell’articolo del Fatto Quotidiano (“Gran repulisti al Pio Albergo Trivulzio: in due mesi 120 provvedimenti disciplinari al personale tra sanzioni e ritorsioni”). Il tempo di leggerlo, di buon mattino, e i vertici del Pat fanno scattare la rappresaglia: un mese di sospensione.
Se l’aspettava?
Sì. Ero certo della vendetta. L’avevo detto anche ai miei colleghi. E infatti alle 12.20 di giovedì 12 novembre è arrivata la sospensione.
Non è la sua prima punizione.
È il settimo consiglio disciplinare a cui vengo sottoposto. Per 31 anni sono sempre andato bene, da giugno a oggi ho subito sette giudizi disciplinari. Tutto è cominciato a giugno, quando Gad Lerner ha raccontato su Repubblica la strage di nonni del Trivulzio, riportando anche la mia testimonianza.
Non è l’unico ad aver subito provvedimenti disciplinari.
No, sono stati ben 120 in due mesi, settembre e ottobre. Subiti da medici, infermieri, tecnici. Negli anni precedenti erano interventi rarissimi, 50 in tanti anni. Ora sono 120 in due mesi.
Dove pensa vogliano arrivare?
A spaventarci. A licenziarmi. Mi vogliono cacciare dal Trivuzio. Eppure io non ho detto niente di falso, ho solo raccontato quello che ho visto dentro il Pat.
Le è arrivata una lettera che le contesta fatti avvenuti qualche giorno fa. E l’amministrazione del Pat, in una nota, dichiara che la sospensione “è connessa a un suo scomposto e grave comportamento nei confronti delle sue dirigenti, segnalato il 10 novembre”.
Martedì scorso arrivo alla farmacia del Trivulzio, dove lavoro, e la mia capa mi dice: “Ora facciamo una riunione, ma tu non vieni, tu stai fuori”. Io esco. Alla fine della riunione rientro e ho una discussione con la collega, ero nervoso per essere stato escluso. Ma ora mi accusano addirittura di averla minacciata: e io non l’ho fatto e non lo farei mai. Qui dentro c’è chi ha provocato la morte dei pazienti, ma la contestazione disciplinare la mandano a me.
L’hanno convocata il 9 dicembre per una sorta di processo per aver tenuto un “atteggiamento minaccioso” e per “gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui”. Fatti che “qualora accertati”, “sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro”.
Non ho minacciato nessuno. Io lo so, sono un rompicoglioni, non sono uno che sta zitto. Ho denunciato quello che accadeva fin dai tempi dell’affittopoli del Trivulzio, ma solo adesso si sono scatenati contro di me. Dopo la denuncia di come hanno affrontato l’emergenza coronavirus. Vogliono vendicarsi. E cacciarmi via da questa azienda. Il capo (il direttore generale Giuseppe Calicchio, ndr) la sta gestendo in un modo che non assicura il futuro alla nostra struttura pubblica. Per paura, dopo i tanti morti della primavera scorsa, ha chiuso i ricoveri: abbiamo solo 58 pazienti su 380 letti accreditati per lunghe degenze.
13 novembre 2020