E’ uscito da poco il saggio “Crisi, disuguaglianze e povertà. Le iniquità strutturali del capitalismo, da Lehman Brothers alla Covid-19” di Francesco Schettino e Fabio Clementi.
Pubblicato da La Città del Sole, il testo è una lettura della natura della crisi attraverso le lenti del marxismo, che fa finalmente giustizia del fatto che non esista un capitalismo buono e uno cattivo, degli speculatori buoni e degli speculatoti cattivi, ma sia ‘il capitale stesso un Moloch che pretende il mondo’.
Il libro è completato dal glossario, una piccola enciclopedia marxista tratta dalla rubrica quiproquo della rivista “La Contraddizione”-
Pubblichiamo la prefazione di Vasco Molini al saggio, invitando tutte/i a leggere il libro e a organizzare degli incontri (online e quando si potrà in presenza) per parlare dei suoi contenuti.
Le Sezioni comuniste Gramsci-Berlinguer per la ricostruzione del P.C.I.
Lo staff di iskrae.eu
Prefazione
È ancora prematuro – siamo a giugno 2020 – fare un bilancio dell’impatto socio-economico del Covid-19 tuttavia tutte le previsioni concordano che sarà elevato per l’economia mondiale in generale e colpirà in maniera sproporzionata i più vulnerabili: i disoccupati, i lavoratori a basso salario, quelli con contratti termine o che lavorano in nero e in generale le famiglie e gli individui con redditi precari.
Accanto a questi scenari, che pur estremamente probabili, sono comunque basati su previsioni e dunque incerti abbiamo alcune certezze. Una di queste è che i temi discussi in questo libro, almeno nel caso italiano, spesso trascurati o trattati in maniera superficiale sono tornati drammaticamente in auge. Crisi, disuguaglianza e povertà e, aggiungo io dati statistici, cioè i temi attorno i quali si articola questo libro sono questioni che la crisi del Covid 19 ha riportato al centro del dibattito di politica economica non solo nel nostro paese ma nel resto del mondo.
Il primo tema che il libro tratta è appunto la crisi, ma in un’accezione completamente diversa da come comunemente viene utilizzata e volgarizzata. Siamo ormai abituati a pensare la crisi (economica) come un episodio inatteso di rottura di un equilibrio ‘naturale’. Le forze di mercato, come ci insegnano buona parte degli economisti formatisi negli ultimi quaranta anni, se lasciate operare liberamente portano ad un naturale equilibrio; beninteso il sentiero d’aggiustamento verso l’equilibrio può essere contrassegnato da alti e bassi (il cosiddetto boom and bust) ma nel lungo periodo saremo tutti vivi (parafrasando Keynes) e l’equilibrio verrà raggiunto. Se cosi non è, come mostra la crisi del 2008-2009 è colpa di forze/agenti esogeni che operano contro il “corretto” funzionamento dei mercati.
Questo libro, legandosi ad una lunga tradizione eterodossa che identifica le crisi come un elemento connaturato all’economia capitalistica, ci fornisce un’interpretazione opposta. La crisi è endogena ed è diretta conseguenza del modus operandi del sistema di produzione capitalistico. La produzione capitalistica non è principalmente orientata a soddisfare un bisogno di consumo della merce bensì a generare profitti e continuare in maniera illimitata il processo di accumulazione di capitale. Non è dunque automatico che i beni e i servizi venduti siano acquistati e che quindi il loro valore si realizzi. Quindi non solo l’offerta non genera la propria domanda (contraddicendo dunque la cosiddetta legge di Say) ma come ci spiega il libro, l’accresciuta competizione caratteristica di questa fase globale del capitalismo aumenta il rischio di avere crisi sempre più intense e frequenti, crisi, appunto di sovrapproduzione. La competizione si gioca ormai su un sempre maggior investimento in capitale volto ad aumentare la produttività e su una serie di misure volte a ridurre il costo del lavoro; l’effetto ultimo è – e qui sta la grande contraddizione – che questi interventi portano ad una riduzione della capacità d’acquisto dei salari; pertanto, quando beni e servizi giungeranno al mercato rischiano di non trovare un’ adeguata domanda pagante.
Coesistono pertanto allo stesso momento sovrapproduzione e sottoconsumo, fenomeni che la teoria economica mainstream considera come frizionali e risolvibili con semplici variazioni di prezzo (se si abbassa il prezzo delle merci il consumo aumenta), ma che ad un occhio più attento risultano essere invece strutturali e che necessitano di forti interventi esterni. Questi interventi, però, mentre nel breve sembrano rappresentare una valida soluzione alla crisi, di fatto, come mostra l’esperienza del 2008-2009, ne aggravano l’intensità trasformando in breve tempo una crisi locale (il settore edile americano) in una crisi finanziaria globale capace di mettere in discussione la solvibilità d’interi stati (la Grecia) e l’esistenza stessa dell’euro.
Crisi e disuguaglianza, il secondo tema chiave del libro, sono intimamente legate. La crescente perdita di potere d’acquisto delle classi lavoratrici americane ed europee osservata dopo la caduta del Muro di Berlino si traduce in un crescente indebitamento delle stesse; indebitamento che viene, in particolare negli Stati Uniti, incoraggiato attraverso varie forme di credito agevolato e da tassi d’interesse sul debito particolarmente bassi. Il giusto desiderio di avere un tetto sulla testa o garantire un futuro migliore ai propri figli attraverso l’accesso all’educazione superiore richiede ormai crescenti livelli d’indebitamento; le famiglie spendono più di quello che guadagnano perché non guadagnano più a sufficienza per mantenere il tenore di vita di pochi anni prima. I redditi dunque perdono potere d’acquisto e la ricchezza reale delle famiglie declina ma solo per il 90 percento più povero. Negli Stati Uniti la quota di reddito del 90 percento più povero era nel 1970 circa 66%, nel giro di 40 anni si riduce a circa 52%; nello stesso periodo se guardiamo invece alla ricchezza finanziaria ed immobiliare, essa si riduce dal 40 percento a circa 25 percento (Piketty, 2014).
Disuguaglianza che ritorna al centro del dibattito economico dopo essere praticamente sparita negli anni ‘80 e ’90 sebbene costituisca, è bene ricordarlo, un tema centrale nella riflessione dei padri fondatori dell’economia classica come Adam Smith, David Ricardo e John Start Mill. Non mi dilungherò sul perché il tema disuguaglianza (e povertà) siano ritornati in auge solo di recente; è credo, ben più interessante riflettere su quali siano le tendenze attuali. Ci sono ormai una serie di fatti stilizzati che grazie alla mole di lavoro e dati analizzata da ricercatori come Piketty, Milanovic e Zucman sono ormai difficilmente confutabili. La disuguaglianza aumenta in tutti paesi, sviluppati e non. Se come metrica di disuguaglianza usiamo la ricchezza accumulata invece del reddito, il divario è ancor maggiore; se infine oltre a basarci sui dati resi disponibili dalle inchieste sui redditi dei vari paesi e sulle dichiarazioni fiscali utilizziamo anche le informazioni che si possono raccogliere sulla ricchezza nascosta nei paradisi fiscali (come fa Zucman) ebbene le grandezze diventano impressionanti.
Infine, è bene sottolinearlo, il libro si basa su una ricca base di dati e di accurati riferimenti numerici. Sembrerebbe un paradosso reiterare l’importanza dei dati e della loro corretta analisi in un’epoca in cui siamo letteralmente sommersi da dati e cifre. Tuttavia, se ancora ce ne fosse bisogno, l’attuale crisi ha ancora di più rivelato quanto dietro la supposta neutralità dei numeri si nascondano in realtà precisi assunti ideologici e che anzi il bombardamento di cifre e numeri sia in un certo senso funzionale a confondere le acque piuttosto che a chiarire la situazione. Per esempio, ogni giorno siamo sommersi di dati sull’andamento della pandemia, sul numero di morti e contagiati e vari giornali o siti internet fanno paragoni fra i diversi paesi. Tutti questi dati ci danno veramente un’idea della situazione reale e da essi possiamo estrapolare per esempio informazioni utili per capire l’impatto economico del Cv-19 per restare nel nostro settore d’interesse?
Purtroppo grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente, anzi. Vediamo di capire perché’ in poche righe. Allora in primo luogo contare i decessi, che storicamente è stato uno dei primi compiti che i sistemi amministrativi degli stati moderni si sono assegnati, si sta rivelando un esercizio piuttosto arduo e soggetto a parecchie manipolazioni. Tanto che ad oggi per esempio, nonostante l’enorme sforzo di standardizzazione di statistiche e dati amministrativi a livello europeo, è molto difficile comparare i decessi da Covid-19 di Italia, Belgio, Olanda o Spagna; figuriamoci dunque che validità abbiano le comparazioni fra Paesi europei e di altri continenti. Ma la comparazione è solo una parte del problema; a leggere per esempio i rapporti di prestigiose istituzioni statistiche (https://www.istat.it/it/files/2020/05/Rapporto_Istat_ISS.pdf) o di autorevoli quotidiani finanziari (https://www.ft.com/content/6bd88b7d-3386-4543-b2e9-0d5c6fac846c) sorge il sospetto che la manipolazione dei dati resi pubblici sia ben più profonda. E la ragione di questa manipolazione è piuttosto chiara: nascondere il problema perché’ il lockdown e altre misure di contenimento della pandemia possono essere dannose per l’economia.
Se dunque statistiche cosi “visibili” come i tassi di mortalità sono manipolabili, figuriamoci quando si passa alle proiezioni sull’impatto economico della crisi, stime per definizione (predicono l’incerto futuro) caratterizzate da incertezza. Ebbene queste sono spesso prese per oro colato non solo dall’uomo della strada ma anche da imprenditori, investitori finanziari, governi che adattano le aspettative sulla base di queste stime che, come ampiamente discusso nel libro in merito alla crisi del 2008, sono spesso soggette a drastiche revisioni. Dunque stime che si possono rivelare errate condizionavano fin da subito l’andamento reale dell’economia perché per esempio influenzano le decisioni d’investimento di un imprenditore (gli animal spirits di keynesiana memoria), possono innescare vertiginose speculazioni sui mercati finanziari o infine mettere a rischio la solvibilità finanziaria di uno Stato: pensiamo ad esempio come il balletto di cifre sull’impatto economico della crisi abbia fortemente inciso sullo spread dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi.
I fatti (e i dati ben documentati aggiungo io) hanno invece la testa dura e questo libro ne è un chiaro esempio. Una serie di ipotesi ben chiare sono espresse nell’libro e vengono corroborate da un uso scrupoloso delle informazioni disponibili. Il lettore viene preso per mano e condotto attraverso indicatori ed elaborazioni numeriche spesso complesse di cui di volta in volta vengono spiegate le assunzioni metodologiche e il significato economico e sociale. Senza dunque perdere l’approccio scientifico e il rigore nell’uso dei dati, il libro riesce a spiegare in maniera semplice cosa sia accaduto negli ultimi dieci anni all’economia mondiale e come la crisi abbia avuto ripercussioni nella vita reale. Esattamente l’opposto di quello che normalmente leggiamo nei testi accademici o nella stampa economica specializzata, in particolare italiana.
Genova, 2 Luglio 2020
Vasco Molini
Economista della Banca Mondiale, Washington DC, USA