Antonio Mazzeo
Una vicenda che ha fatto registrare difese d’ufficio di ex amministratori verso un sistema immutato e immutabile. Feriscono e offendono attestati di fiducia e stima che gli antimafiosi continuano ad esprimere pubblicamente a funzionari, imprenditori, politici vecchi e nuovi, che mai hanno preso le distanze
Ieri sera si è concluso il processo di primo grado contro i diretti rappresentanti del clan Santapaola a Messina e i loro (presunti) colletti bianchi. Ho seguito l’inchiesta giudiziaria sin dai suoi primi passi e ho narrato tutte le fasi più importanti del dibattimento, anche perché convinto – congiuntamente al processo sul cosiddetto Terzo livello – che si trattasse di uno dei procedimenti giudiziari più rilevanti della storia dell’intera provincia di Messina. L’operazione Beta ha infatti messo a nudo un solido sistema di alleanze e contiguità tra criminalità organizzata, noti professionisti (alcuni dei quali con strutturate relazioni con la politica e le amministrazioni pubbliche), costruttori, imprenditori, ecc..
Aldilà dei risvolti prettamente penali che, sinceramente, neanche adesso mi interessano e/o entusiasmano – le indagini hanno documentato le modalità d’infiltrazione mafiosa nel tessuto socio-economico e politico della città e – come già accaduto in passato con meno fortunate inchieste (vedi tra tutte Arzente Isola nei primi anni ’90 su un vasto traffico di armi destinate a paesi in guerra), la forza e la capacità della borghesia mafiosa peloritana nel proiettarsi negli affari leciti e illeciti a livello nazionale e internazionale (opere pubbliche, complessi immobiliari, sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie in Africa, turismo e casinò a Malta, ecc.).
E’ a questi processi intrinsecamente contaminanti e socialmente devastanti che i cittadini, le forze politiche e sindacali, le associazioni di Messina avrebbero dovuto guardare. E invece, ed è questo il vero fallimento di questa lunga vicenda, il processo Beta – seguito a debite distanze da migliaia e migliaia di lettori – è scivolato sulla città senza lasciare alcun segno o alimentare alcuna riflessione collettiva. In tutti questi anni, infatti, mai un incontro pubblico, un dibattito, una riunione consiliare, una dichiarazione di un esponente della cultura o della città che conta, una trasmissione televisiva, men che mai una manifestazione antimafia. Niente.
Così, aldilà di una sentenza (di primo grado, lo ricordiamo) con condanne che non avremmo immaginato così pesanti specie sul fronte della cosiddetta zona grigia (espressione non certo corretta dal punto di vista sociologico, ma ampiamente utilizzata sui media), l’assenza di qualsivoglia reazione emotiva testimonia che ancora una volta a vincere sono solo sempre coloro che da decenni ripetono che a Messina la Mafia non esiste e che la borghesia è una classe onesta, produttiva ed esente da contaminazioni/collaborazioni o contiguità.
Personalmente continuo a pensarla in modo del tutto diverso. Abbiamo provato a denunciare da tempo immemorabile che Messina è culturalmente mafiosa e le sue classi dirigenti sono oscenamente permeabili. Tutte. Trasversalmente. A destra e a sinistra, ammesso che ancora in città si possa parlare di sinistra. Sono testimone diretto dell’incapacità, ad esempio, di quella parte dell’altra Messina che ha guidato per una breve parentesi la vita amministrativa locale di rendersi conto della necessità di rompere con ogni formula consociativa del passato e, soprattutto, che non era sostenibile il cambiamento senza un’analisi attenta delle modalità con cui le relazioni amicali, familiari e d’affari hanno governato la città, costituendone di fatto il blocco – immutabile – del potere.
Ad oggi – e lo dico con profonda amarezza – continuo a non comprendere le difese d’ufficio di ex amministratori verso un sistema immutato e immutabile e men che meno resto basito (e offeso) per gli attestati di fiducia e/o stima che gli antimafiosi continuano ad esprimere pubblicamente nei confronti funzionari, imprenditori, politici vecchi e nuovi, ecc. che mai hanno inteso prendere le distanze – neanche in sede processuale – dagli imputati accusati (e oggi condannati) per gravi reati. L’ennesima conferma, questa, che la borghesia è mafiosa, secondo la definizione del più importante studioso dei fenomeni mafiosi, Umberto Santino del Centro Siciliano di Documentazione “Peppino Impastato” di Palermo: professionisti, imprenditori, pubblici amministratori, politici e rappresentanti delle istituzioni che siedono accanto a boss e capimafia alla guida del blocco sociale dominante. Si tratta cioè di sistema relazionale transclassista, fatto di scambi reciproci, entro cui agiscono i gruppi criminali mafiosi e si riproducono domini e poteri. Messina è stata ed è proprio questa e gli inquirenti lo hanno bene documentato con l’Operazione Beta.
Una vera opposizione alle mafie si può costruire oggi solo prendendo atto della gravità socio-politica del caso Messina. E pur nella difesa ad oltranza dei valori della democrazia e del garantismo nei confronti di tutti, è assolutamente doveroso partire da un’analisi di quanto accaduto in questi ultimi decenni. Facendo autocritica tutti. Per gli errori commessi e per non aver mai voluto mettere in discussione antichi equilibri e consolidate alleanze.
Sono purtroppo pessimista, non certo per indole, ma per la consapevolezza che Messina ha perso le sue difese immunitarie e finanche la memoria. Senza anticorpi sociali, culturali ed economici ogni cambiamento è impossibile.
Articolo pubblicato in Messina Today il 23 dicembre 2020, https://www.messinatoday.it/blog/editoriale/sentenza-beta-borghesia-mafia-analisi-mazzeo.html