di Gianni Barbacetto
Nel mondo all’incontrario in cui vive gran parte della politica italiana, i servizi segreti sono oggi un grande problema, una grande preoccupazione, un immenso cruccio. È giusto: la salute di una democrazia si misura (anche) dall’efficienza e dalla correttezza dei suoi apparati di sicurezza. Il loro controllo democratico è una delle condizioni per poter dire che le istituzioni sono salde.
Così è comprensibile che la delega governativa ai servizi sia anche argomento di discussione e di contesa tra le forze politiche. È però lunare che diventi, oggi, un grimaldello per scardinare una maggioranza di governo, come Matteo Renzi e i suoi hanno cercato di fare nelle scorse settimane (con echi ancora nel dibattito parlamentare di ieri, 18 gennaio 2020, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato di essere disposto anche a cedere la delega sui servizi a una figura di sua fiducia).
Intendiamoci, anche Norberto Bobbio, sul finire della vita, confessò di avere “sottovalutato gli arcana imperii” a cui si dedicano gli apparati segreti di Stato. Viviamo in Italia, la cui storia repubblicana è stata scandita per decenni da dossieraggi, ricatti, golpe tentati e stragi riuscite, utilizzo di gruppi eversivi e trattative con le mafie. Nessuno, a proposito di questa materia così delicata, può mettere la mano sul fuoco, ma sembra che gli attuali vertici dei servizi di sicurezza non siano stati coinvolti in scandali come i loro predecessori.
Una coazione a ripetere, una catena lunghissima di scandali, continuata anche dopo che erano finiti i tempi durissimi della guerra fredda e del Muro. L’ultima sentenza sulla strage di Bologna, che condanna in primo grado all’ergastolo Gilberto Cavallini, dedica un intero capitolo a Mario Mori, che dopo essere stato, dal 1972 al 1975, agente del Sid (il servizio segreto militare), dal 1978 al 1985 all’Anticrimine, dal 1986 al 1990 al comando dei carabinieri di Palermo e dal 1990 al 1998 alla guida del Ros carabinieri, dal 2001 al 2006 è stato direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Oggi ha una condanna in primo grado a 12 anni per la trattativa Stato-mafia. E la Corte d’assise di Bologna ha appena chiesto sia processato per testimonianza reticente a proposito della sua attività investigativa sui terroristi neofascisti.
Dopo Mori, nasce il cosiddetto “Protocollo Farfalla”, un accordo tra l’amministrazione carceraria e il servizio segreto civile (che cambia nome in Aisi): un patto che consegna agli agenti segreti, escludendo il controllo della magistratura, le informazioni attinte dalle carceri italiane.
Poi è Nicolò Pollari a essere per anni il gran cerimoniere degli arcana imperii italiani. Durante la sua direzione del Sismi (il servizio militare erede del Sid), vengono alla luce almeno un paio di scenari segreti: grazie a una inchiesta da film americano condotta dai magistrati della Procura di Milano Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, che nel 2006 danno scacco matto agli agenti della Cia e ai loro partner del Sismi: scoprono e mandano a processo – unico caso al mondo – i responsabili della extraordinary rendition avvenuta in Italia nel 2003, cioè il sequestro di persona avvenuto ai danni dell’imam Abu Omar, rapito a Milano e portato in Egitto dove è stato per mesi sottoposto a tortura. “Lo Stato”, dichiara Spataro, “non può comportarsi come l’Anonima sequestri”.
Quelli che oggi chiedono che la delega ai servizi di sicurezza sia passata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte (che la detiene legittimamente, come prevede la legge del 2007) a un sottosegretario, durante il processo per sequestro di persona agli americani della Cia e agli italiani del Sismi apposero il segreto di Stato. Così Pollari e i suoi uomini si salvarono, dopo una condanna in appello a 10 e 9 anni: dichiarati nel 2014 dalla Cassazione improcessabili per segreto di Stato, apposto proprio dal governo di Matteo Renzi, che aveva anche sollevato davanti alla Corte costituzionale, contro la Procura di Milano, il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato. In buona compagnia: lo stesso avevano fatto i governi Prodi, Berlusconi, Monti e Letta.
Il secondo scenario da brivido dell’era Pollari è la frenetica attività di Pio Pompa, strano personaggio devoto al fondatore del San Raffaele, don Luigi Verzè, diventato l’ombra (“Shadow”) di Pollari. Nel suo ufficio segreto, in via Nazionale a Roma, aveva accumulato centinaia di dossier illegali su magistrati, giornalisti, politici, intellettuali, gruppi e associazioni, da “disarticolare”, anche con “azioni traumatiche” – lessico Br – in quanto “nemici” del presidente del Consiglio pro tempore, Silvio Berlusconi. Pompa teneva anche i rapporti con i giornalisti: soffiava informazioni, chiedeva notizie, diffondeva dossier. Spesso farlocchi, come quello sulla morte del giornalista freelance Enzo Baldoni, diligentemente diffuso dall’agente Betulla, al secolo Renato Farina.
È l’Italia in cui agenti di pubblica sicurezza realizzano un sequestro di persona come quello del 2013 ai danni di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. È l’Italia di Michele Adinolfi, il generale della Guardia di finanza che fa carriera fino a diventare il numero due delle Fiamme gialle, dopo aver bloccato alcune indagini a carico di Matteo Renzi quando, tra il 2011 e il 2014, era a capo del comando interregionale di Emilia e Toscana.
È l’Italia in cui la scorta di Renzi – a raccontare l’episodio è l’ex direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli – nel 2014 caccia in malo modo da un albergo di Forte dei Marmi il giornalista del Corriere Marco Galluzzo (“Venni strattonato. Dovetti alzare la voce per dire al caposcorta di non permettersi. Lui reagì minacciandomi. Mi disse che tutta la mia giornata era stata monitorata e che di me sapevano tutto, anche con sgradevoli riferimenti, millantati o meno, alla mia vita privata”). È l’Italia in cui Renzi pretendeva di affidare la guida della cybersecurity (pubblica) al suo amico imprenditore (privato) Marco Carrai.
Dopo una storia italiana così, lo scandalo sono i servizi segreti di oggi.
19 gennaio 2021