Aaron Pettinari e Alessia Candito
Depositate le motivazioni della sentenza di condanna per Graviano e Filippone. Atti trasmessi alla Procura per nuove indagini. Forza Italia indicata come “referente delle organizzazioni”
Per anni si è ritenuto che la ‘Ndrangheta non avesse mai avuto a che fare con la stagione stragista. Ventisei anni dopo a Reggio Calabria si è giunti ad una nuova verità e si può affermare che Cosa nostra e l’appoggio della criminalità organizzata calabrese non era solo morale, ma concreto.
E’ questo il quadro emerso nel processo ‘Ndrangheta stragista che lo scorso luglio ha portato alla condanna all’ergastolo del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone.
Entrambi ritenuti responsabili, in qualità di mandanti, di quegli attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, in cui persero la vita anche gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo (uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio, ndr).
Il Mammasantissima di Meliccuco è stato condannato anche a 18 anni per il reato di associazione mafiosa (la procura ne aveva chiesti 24) e il suo compito è stato determinante non solo per la realizzazione degli attentati ma anche nascondere la firma della ‘Ndrangheta, scaricando la responsabilità sulle spalle di due giovanissimi picciotti (Consolato Villani e Giuseppe Calabrò), pronti a raccontare quegli omicidi mirati come frutto di una bravata. Invece, come emerso nel corso del processo, erano inseriti all’interno di una logica decisa dal sistema criminale di cui le mafie fanno parte.
Spiegano i giudici che quegli attentati contro i militari vanno considerati a tutti gli effetti come inseriti nel contesto della strategia stragista di attacco allo Stato e che rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” dettata da ragioni economiche e politiche e nelle motivazioni della sentenza il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria Ornella Pastore mette in evidenza proprio questo aspetto sottolineando come “di tale strategia, i tre attentati ai carabinieri (fortunatamente non tutti andati a buon fine) hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”.“Il culmine di tale attacco allo Stato – scrive sempre la Corte d’Assise – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decine e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”.
Una conclusione, quest’ultima, molto simile a quella a cui era giunta la corte d’Assise di Palermo nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Forza Italia come referente
Secondo la corte d’Assise l’attentato ai carabinieri in Calabria e la tentata strage dell’Olimpico sarebbero avvenuti “in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria'”.
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici analizzano anche quanto riferito da Gaspare Spatuzza sull’incontro che avrebbe avuto con il boss Graviano all’interno del bar Doney di Roma, pochi giorni prima del fallito attentato all’Olimpico, che si sarebbe dovuto verificare il 23 gennaio.
“Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa – aveva raccontato in più occasioni – Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella”. “Poi – aveva proseguito – aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti (cornuti, ndr) dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra”. “‘Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene’”, avrebbe detto Graviano. “Poi – aveva concluso – mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”.
E’ possibile che Dell’Utri e Graviano si siano incontrati nei giorni precedenti?
Secondo la Corte “può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”.
Nel corso del dibattimento è emerso che proprio in quel periodo Marcello Dell’Utri si trovava nella Capitale presso l’Hotel Majestic, a poche centinaia di metri dal bar Doney, dove si svolgeva una convention di Forza Italia.
La caccia ai mandanti esterni
Sfogliando le carte della sentenza si evince in maniera chiara che la condanna dei due capimafia è solo il primo step di un’inchiesta che può scavare anche su quelle ombre che hanno resistito in questi ventisei anni e che riguardano i mandanti dal volto coperto di quella stagione di sangue e terrore.
Perché dietro a stragi ed attentati non vi erano solo Cosa nostra o la ‘Ndrangheta, ma anche un altro potere.
Scrivono sempre i giudici della Corte d’assise che “non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.“Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – si legge sempre nella sentenza – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame. Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo motivo, “con riferimento alla identificazione di tali soggetti”, la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha trasmesso alcuni atti del processo alla Procura della Repubblica perché continui a indagare.
Il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano
Del resto lo stesso procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, durante la requisitoria, lo aveva annunciato che le indagini non si sarebbero fermate. Per lui, e per la Procura di Reggio Calabria diretta da Giovanni Bombardieri, le mani che hanno disegnato quella stagione di sangue non erano per nulla esterne. Sono espressione del medesimo sistema criminale complesso di cui fanno parte i vertici dei clan. E nel contatto con loro diventano “alta mafia”, che nulla ha a che fare con coppole e lupare.
Dalla rilettura dei fatti che si sono sviluppati attorno alle stragi, dalle dichiarazioni rabbiose che lo stesso Giuseppe Graviano ha rilasciato in aula con le sue dichiarazioni spontanee, trasferite anche in una memoria depositata agli atti.
Parole con cui il boss di Brancaccio ha accusato Berlusconi di aver ricevuto per anni finanziamenti occulti dalla sua e da altre famiglie siciliane. Soldi “serviti per l’edilizia, le televisioni, per tutto” e mai restituiti. Denaro di cui – ha affermato il boss di Brancaccio in aula – ci sarebbe prova in una scrittura privata in mano alla sua famiglia, che sembra far eco a quel “quadernetto che poteva provocare un terremoto” che Toni Calvaruso dice di aver ricevuto da Bagarella e consegnato a Graviano.
E’ anche da questi elementi che si riparte. Passando anche per quei denari che Cosa nostra e ‘Ndrangheta hanno investito al nord.
Un filone investigativo che si intreccia anche con altri processi ed indagini, come quella sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ammazzato in Calabria nell’agosto del ’91, mentre preparava l’accusa per il maxiprocesso alla Cupola di Cosa Nostra che di lì a qualche mese sarebbe arrivato in Cassazione.
O ancora il processo Gotha o quello che ha visto la condanna dell’attuale sindaco di Imperia, Claudio Scajola, a due anni di carcere (con pena sospesa) per aver aiutato l’ex parlamentare Amedeo Matacena, tuttora latitante a Dubai, a sottrarsi ad una condanna definitiva per mafia. Anche in quelle carte c’è l’immagine di un sistema di potere che non è finito, che si autoalimenta e si protegge. E come aveva commentato Lombardo dopo la sentenza “c’è un lavoro che da questo processo, deve iniziare e proseguire”.