La crisi economica insieme alla crisi di direzione delle classi politiche dominanti, determinano nel nostro paese l’inizio di una vera e propria crisi organica, in cui appare chiaro che il sistema parlamentare non è in grado di farsi portatore delle istanze che provengono dalla società. Non tutti gli strati sociali reagiscono ugualmente alla crisi, e non c’è totale coincidenza di interessi tra classi differenti, anche se in lotta contro una condizione che può apparire comune. Abbiamo più volte criticato l’idea della riduzione del conflitto di classe al livello del 99% contrapposto all’1% di chi detiene le grandi ricchezze patrimoniali, derivanti dal monopolio finanziario ed economico. Lo abbiamo fatto non perché mancasse la chiarezza nell’identificazione del nemico di classe, ma perché trovavamo riduttivo ed errato qualificare in un unico fronte, in un’unica moltitudine, tutto ciò che non fosse il grande capitale monopolistico, senza cogliere le profonde differenze esistenti. L’analisi di quanto sta accadendo impegnerà la nostra organizzazione con studi approfonditi, relazioni dai territori, per comprendere le dinamiche complessive di fenomeni in atto i cui piani di lettura sono molteplici, e tutti da considerare attentamente. Tuttavia alcuni giudizi immediati possono e devono essere dati.
Le proteste di questi giorni sono proteste di persone schiacciate dalla crisi economica, e dall’incapacità della politica parlamentare di dare risposte. Uno scollamento totale, l’inizio di una crisi organica come la abbiamo definita in cui la classe politica è responsabile del disastro dei progetti storico-politici che si chiamano Unione Europea ed euro, nei quali sono coinvolti sia i partiti di centrodestra che di centrosinistra. La composizione delle proteste è dal punto di vista sociale variegata, ma nettamente egemonizzata da un elemento rivendicativo di natura piccolo-borghese, unificato da un collante nazionalistico, che riesce a portare dietro di sé, per ora in maniera limitata, pezzi di fasce sociali subalterne. L’estrema destra ha avuto un ruolo organizzativo fondamentale, come provato da varie testimonianze ed inchieste, ma rappresenta senza dubbio una minoranza nella protesta. È probabile tuttavia che visto il tenore delle rivendicazioni ed il collante nazionalistico che unisce culturalmente la protesta, le varie sigle neofasciste che si contendono un ruolo nella protesta riescano ad avere sempre maggiore presa. Alcuni atti intimidatori compiuti da queste organizzazioni sono ben noti, e meritano con estrema nettezza una condanna senza appello e chiamano ad una continua vigilanza. Così come andranno chiariti il ruolo delle forze di polizia, dei media, di importanti apparati dello Stato, e la loro posizione in relazione alla protesta. È chiaro che i media hanno svolto il ruolo di vero e proprio megafono, fatto che appare tanto più “strano” se si riflette sulla funzione tradizionalmente contrario dei media.
Il problema centrale della fase che viviamo resta l’assenza ed insufficienza di organizzazione nel mondo del lavoro salariato, organizzazione sindacale e politica. Non è vero che l’operaio sia passivo, che la funzione storica della classe operaia sia esaurita, o che il lavoratore salariato non scenda in piazza. E’ vero piuttosto che le molteplici lotte che si sono avute in questi anni non hanno raggiunto un quadro unitario, non sono uscite da una visione ancora economico-corporativa, non hanno superato la rivendicazione economica immediata, destinata a restare perdente. Ma questo non riguarda la classe operaia, ed i lavoratori salariati, ma piuttosto il ruolo della direzione della classe. I sindacati di massa, maggiormente rappresentativi ed egemoni si sono posti apertamente nella direzione del controllo del conflitto sociale, nella politica della concertazione, dell’accordo immediato, spegnendo ogni focolaio di lotta di classe. Dal referendum alla Fiat, al recente accordo sui lavoratori dei trasporti pubblici a Genova, passando per il Sulcis, l’Ilva e centinaia di altre situazioni, i sindacati hanno tenuto ogni mobilitazione rigorosamente separata, hanno sistematicamente ricercato accordi a perdere, che hanno momentaneamente indebolito il movimento di classe.
Quest’assenza rende impossibile aggregare in questa fase, alle istanze dei lavoratori salariati quelle del ceto medio e piccolo borghese schiacciato dalla crisi, in un’ottica di avanzamento progressivo che metta in discussione il sistema capitalistico nel suo complesso e che ponga le premesse per un’uscita dalla UE in senso progressivo. Così anzi i lavoratori salariati rischiano di subire la maggiore propensione all’essere coinvolti in questo tipo di rivendicazioni, con il rischio di porsi alla coda di elementi piccolo-borghesi. Abbiamo più volte ammonito sul modo di intendere la questione dell’uscita dall’Unione Europea e dall’euro nelle modalità che avrebbero accompagnato questo processo, con un’uscita in senso progressivo, oppure regressivo. Così come siamo ben coscienti che un crisi economica non determina storicamente di per sé un’uscita in senso progressivo, anzi. Storicamente è dimostrato che dipende dal ruolo svolto falle forze rivoluzionarie, dalla capacità di reggere lo scontro con le forze della reazione, che il risultato lungi dall’essere scritto in partenza, dipende dal lavoro di direzione che i comunisti riescono ad esercitare nel movimento di massa.
Non pretendiamo di avere un giudizio completo su quanto sta accadendo, né sulle reali dimensioni del fenomeno, che riusciremo a comprendere solo in futuro. Tuttavia è chiaro che qualcosa si sta muovendo e che i tempi della storia possono subire accelerazioni improvvise, alle quali si rischia di non arrivare preparati a sufficienza, ed il riferimento non è tanto alla protesta di queste ore, quanto all’evidenza del contesto generale. Bisogna chiarire che le classi subalterne non staranno ad aspettare che la guida scenda dall’alto in virtù di una auto legittimazione, che in mancanza di essa assisteremo a continue e sempre maggiori proteste spontanee o etero-dirette. La guida politica dei comunisti deve misurarsi sul campo, deve conquistare il suo ruolo nella lotta, “sporcandosi le mani”. L’esempio delle rivolte nel Mediterraneo, al netto dell’esaltazione di molti, nei suoi risultati concreti ci ammonisce proprio su questo: la mancanza di un soggetto rivoluzionario forte, organizzato, in grado di dare uno sbocco politico chiaro alla rivolta, porta alla repressione, alla caduta nella mani del capitale internazionale o di movimenti tutt’altro che progressisti.
Riteniamo che l’obiettivo principale dei comunisti oggi sia ricostruire l’unità di classe tra i lavoratori salariati, legando la classe operaia, con i lavoratori dei trasporti e della logistica, le nuove forme di lavoro precario, i lavoratori salariati dei grandi gruppi monopolistici, i dipendenti statali minacciati dalla scure dei tagli alla spesa pubblica. Questo è il lavoro che in questi anni non è stato fatto, ed è inutile sognare ad occhi aperti la costruzione di nuovi “blocchi sociali antagonisti” da contrapporre al nemico di classe, basandosi al massimo sul risultato di singole e sporadiche manifestazioni, quando questo processo appare talmente lontano e contraddittorio da essere pressoché inesistente oggi. Assumere la centralità del lavoro salariato come base delle proprie rivendicazioni è oggi una questione determinante, oltre la quale non è possibile pensare di costruire nessuna alleanza di classe senza che questa scada nell’interclassismo, ed in definitiva nel risultato di porre i lavoratori salariati e gli studenti alla coda delle rivendicazioni piccolo-borghesi. Non è il momento di fasciarsi la testa interrogandosi su come capovolgere la direzione di una protesta che con tutta probabilità nei prossimi giorni sarà terminata, e che pone un livello di contraddizioni impossibile da gestire in queste condizioni. Così come in nessun caso la giusta e doverosa vigilanza antifascista deve essere confusa in questa fase con un fronte che comprenda le forze di governo, completamente responsabili dell’attuale condizione. Sarebbe un errore troppo grande per essere commesso. L’antifascismo deve essere antifascismo di lotta, assunto da chi lotta contro questo modello di sistema.
È il momento di rimboccarsi le maniche per riconquistare terreno all’interno della propria classe sociale di riferimento, quel lavoro che in questi anni è stato totalmente ignorato e sui cui è necessario oggi recuperare. Solo costruendo un fronte di classe a partire dai lavoratori salariati, che esca dalle semplici rivendicazioni immediate per porsi un obiettivo politico di cambiamento, sarà possibile un’uscita progressista dalla crisi, dall’Europa e dall’euro. Ma questo pone l’accento sulla questione del rafforzamento e dell’unità del sindacalismo di classe, della creazione di un fronte del lavoro, che superi gli steccati delle attuali sigle sindacali per unire sulla base di una piattaforma rivendicativa politica i lavoratori. E pone anche con straordinaria attualità la questione del Partito, della necessità di velocizzare e rafforzare il processo di costruzione del Partito Comunista in Italia, che non può più attendere. La storia non contempla il vuoto politico, ogni spazio lasciato in un momento di crisi dalle forze rivoluzionarie è uno spazio concesso alla reazione.
Segreteria nazionale FGC