Angelo Ruggeri – Centro Salvatore d’Albergo-Il Lavoratore
Dalla prima Tangentopoli alla seconda Tangentopoli del golpe economico-politico delle privatizzazioni e svendita del patrimonio economico sia nazionale che locale, in un decennio in cui non si osa denunciare la confusione morale e sociale e la spregiudicatezza economica dell’alta società, per cui servirebbe la penna di Balzac o di Maupassant. Draghi, come un inquietante Proteo senza passato cerca di cassarlo, perché abituato da tempo a decidere ogni mattina dell’avvenire dell’Europa, e troppo occupato a pensare il futuro dell’Europa del capitale atlantico che ha aiutato ad edificare.
Pur sapendo che porterà altre ingiustizie e confusione tra bene e male, può preparare – immagina – anche sorprese utili per gli adoratori del «denaro nostro Dio visibile da cui nasce il potere», come dice Shakespeare in Timone di Atene: «denaro e oro fiammeggiante sufficiente per fare nero il bianco, ingiusto il giusto, codardo il coraggioso […] che unisce e infrange le fedi, benedice i maledetti, rende gradita l’orrida lebbra, onora i ladri per colpa del denaro nostro Dio visibile e dei suoi sacerdoti», tra cui, ovviamente, i banchieri come Draghi oggetto dei più ditirambici riti quotidiani da parte di giornali e giornalisti, intellettuali e parlamentari che li applaudono ed onorano senza interruzioni, come fossero ladri, appunto…
Come guidato dal “destino manifesto”, espressione di una provvidenziale “missione divina” dei fondamentalisti americani, contro i nativi e poi verso l’intero mondo, culminante in una sacralizzazione della politica come religione civile americana e del ”nostro grande Dio visibile”.
Nella numerologia di Draghi, di decennio in decennio, quello che torna di frequente è il numero uno. Nel 1981 viene scoperto il Piano P2 (che c’entra? C’entra: la P2 è connessa alla P1 al cui interno stanno i vertici delle Banche Centrali, come la Federal Reserve e la BCE da cui “la chiamata” di Draghi a “capo di governo”). Nel 1991, direttore generale del Tesoro e nella presidenza dell’IRI, Draghi privatizza e svende ai WASP (White Anglo-Saxon Protestant) angloamericani e germani, il patrimonio industriale e finanziario dell’Italia, sensibile unicamente al denaro: anche quello macchiato di sangue o di fango come dovrebbe sapere chi da privatizzatore, ha privatizzato anche le autostrade responsabili del crollo e delle morti del ponte Morandi. Nel 2011 lascia Bankitalia dove aveva inteso bene l’assioma di Vespasiano (riferito da Svetonio) per cui la moneta, anche macchiata di sangue o di fango, non rivela niente e rappresenta tutto. Sicché, come un figlio di Proteo senza passato, in un Fiat passa da allievo del keynesiano Federico Caffè al culto della ortodossia liberista dell’irriformabile UE e, nel 2011, diventa governatore d’Europa grazie alla carica nella BCE, e subito scrive, col presidente uscente Trichet, la famosa lettera al governo italiano in cui sollecitava di ridurre gli stipendi, aspre misure di austerità e drastica riduzione del debito.
Nel 2021, anniversario del trentennio draghista, da Emerito Capo Supremo dei Banchieri Euroatlantici, diviene capo di governo e vero uomo del “destino manifesto”, che come un inquietante Proteo cassa il passato e scrive l’articolo sul Financial Times dicendo «non bisogna preoccuparsi del debito pubblico, perché la priorità è salvare l’economia» (sic!): si intende tutta l’economia capitalista. Come? Nel mondo del capitalismo in cui vige la legge della giungla, quello che non si può ottenere con negoziati da posizioni di forza lo si cerca forzando la situazione e dietro la facciata dei negoziati si preparano (e già è in corso) la guerra economica e quella commerciale di cui fanno parte quella sul Covid e i vaccini.
Ma sia benedetto il Covid, perché “copre” l’attuale grande crisi economica del capitalismo (paragonabile e superiore a quella del 1929) che era in corso già da molto tempo, ma per fortuna dei capitalisti è comparsa una pandemia che permette di giustificare il ricorso alle risorse, «senza più preoccuparsi del debito» come ha detto Draghi, per salvare l’economia capitalista. In una società borghese, anche in questa fase come nella precedente, ciò ovviamente significa anzitutto la protezione dei profitti delle imprese a spese della classe lavoratrice, che come già è stato rilevato anche nel corso di questa prima fase della pandemia, ha incrementato i profitti e la ricchezza di alcuni e depresso quella di operai e ceti deboli.
La ragione e la misura in cui la classe al potere può fare questo dipende dalla forza con cui i lavoratori perseguono la loro lotta di classe, che però a causa della ripulsa del metodo del materialismo storico, a cui consegue la rinunzia all’autonomia culturale, ha portato i vertici sindacali – anche di CGIL, da Epifani a Camusso a Landini – a conclamare che la lotta di classe «è finita» (sic). Ragione per cui da oltre un trentennio – che per altro corrisponde al trentennio draghista, iniziato nel 1991 come ho detto, assistiamo ad una lotta di classe “unilaterale” a favore dei profitti e di un potere di impresa, di cui ci si è limitati a conclamare le conseguenze del cosiddetto precariato. Trascurando, però, dietro gli imbelli slogan sul “post-moderno”, “post-industriale”, “post Stato”, “post marxismo”, di perseverare in un più sistematico attacco alla continuità del dominio internazionale e nazionale di un capitalismo sempre preda di crisi “cicliche”. E’ cosi che Warren Buffett, tra gli uomini più ricchi del mondo, ha potuto asserire che: «certo che c’è la guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta. L’hanno vinta i ricchi».
A tal punto che non solo non si parla più di sfruttamento, ma neanche si nomina quello che pure è il suo nome storico, oggettivo: capitalismo. Che ciclicamente alterna al male dell’inflazione il male della depressione, per cui si ricorre alla manipolazione della finanza pubblica da parte degli Stati, illudendosi di poter regolamentare l’economia per mezzo di pressioni economiche contraddittorie e distorsioni causate dall’inflazione e dal continuo aumento dei prezzi.
Infatti, l’esperienza anche degli ultimi decenni europei, mostra con grande evidenza che le tecniche utilizzate per stimolare artificialmente l’economia, da un lato non risolvono le contraddizioni del capitalismo monopolistico e, dall’altro, oltre ad incrementare il debito, non invertono la tendenza alla stagnazione.
In realtà i metodi realmente utilizzati per moderare le crisi negli affari e creare posti di lavoro, portano con sé nuove distorsioni e nuovi squilibri, che a loro volta richiedono misure sempre più inflazionistiche e rendono l’intera economia assuefatta a simili stimoli.
L’intero sistema è organizzato in modo da favorire gli abbienti e contro i meno abbienti. L’unico problema è dato dal fatto che questo sistema più funziona così, peggio funziona.
Si tenga sempre presente e non si scordi che il cosiddetto liberismo – che in realtà è statal-liberismo – non solo non esclude ma esige l’intervento di sostegno dello Stato (quanto meno da dopo il ‘29). Anche in regime di liberismo o di statal-liberismo più sfrenato, non vien mai meno – e cosi è stato anche negli ultimi decenni liberisti d’Europa e del mondo – l’azione compensativa di iniezione di denaro pubblico a sostegno dei consumi e dell’economia capitalista. Come sta avvenendo, del resto, in questi mesi negli Usa e in Europa.
Donde la crescita smisurata del debito pubblico in ogni Paese, per cui si invocano e si praticano le più aspre misure di austerità che colpiscono i ceti deboli e favoriscono, una volta di più, i fruitori del debito pubblico creato a loro vantaggio.
Cioè, il debito pubblico è sempre una forma di valorizzazione del capitale e di sostegno ad esso e il capitalismo non può mai farne a meno, che sia o non sia in crisi.
Il fatto è che, come è stato già molte volte dimostrato, l’economia del capitalismo monopolistico è sempre in pericolo di cadere in uno stato di profonda stagnazione.
La ragione fondamentale di ciò è che i capitalisti cercano di mantenere i salari, e quindi il potere d’acquisto dei lavoratori, ad un livello minimo, incrementando allo stesso tempo il loro capitale al ritmo più rapido possibile. Ne consegue, quindi, con le parole di Marx, che: «»anto più la forza produttiva si sviluppa e tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. E non vi è nulla di inspiegabile nel fatto che, su questa base piena di contraddizioni, un eccesso di capitale sia collegato con un eccesso crescente di popolazione e quantunque la massa di plusvalore risulterebbe aumentata nel caso che assorbisse l’eccesso di popolazione con l’eccesso di capitale, si accentuerebbe il conflitto tra le condizioni in cui questo plusvalore è prodotto e quello in cui invece è realizzato» (K.Marx Il Capitale, III, Editori Riuniti, p.297).
Questa fonte di stagnazione (“eccesso di capitale” e “eccesso di popolazione” uguale a impianti inutilizzati e lavoratori disoccupati) è inerente al capitalismo in tutti gli stadi del suo sviluppo, ma è di gran lunga più importante nello stadio del capitalismo monopolistico a causa dell’enorme potere delle imprese giganti nel controllo dei prezzi e dei salari a loro esclusivo favore.
Inoltre nello stadio monopolistico i consumatori sono regolarmente derubati (nel caso dei lavoratori per una secondo volta) a livello della circolazione dei beni ad opera degli intermediari monopolistici, venditori al dettaglio, usurai, speculatori, ecc. Il risultato è un’ulteriore diminuzione della capacità di consumo sociale a causa di una concentrazione del reddito addizionale nelle mani di quanti sono soliti spendere solo per acquistare beni di lusso ed investimenti.
Devono agire quindi forze compensative che del resto esistono, altrimenti l’intero sistema sarebbe andato gambe all’aria già da tempo. Dunque, da un lato deve esserci una massiccia iniezione di potere d’acquisto per supplire alla diminuzione dei consumi causata dal normale funzionamento del sistema, iniezione che oggi si prevede come la più massiccia e senza precedenti, così almeno si dice grazie alla pandemia, senza la quale non si sarebbe nemmeno immaginata una tale iniezione di denaro – al netto dei calcoli veri da fare – in forma svincolata dal debito pubblico che già cresce in modo esponenziale. D’altro canto bisogna sempre e continuamente mantenere gli incentivi sia diretti – come quelli che ci sono da decenni, incentivi un po’ su tutto: macchine, edilizia, risparmio energetico, incentivi su questo e su quello, ecc. – e indiretti, sotto forma di una crescita dei prezzi lentamente ma costantemente in ascesa, tali da incoraggiare la minoranza ricca ad investire i propri copiosi guadagni maturati sia nella fase statal-liberista della Santa Trinità – privatizzazioni, liberalizzazioni, flessibilità – sia in questa fase pandemica. Come una gomma bucata, l’economia capitalistica deve essere continuamente gonfiata perché si sgonfi e si fermi del tutto.
Ecco perché dopo l’auspicio di aspre misure di austerità, Draghi si propone di salvare l’economia capitalista fondata sul pompaggio di risorse pubbliche, richiamandosi ai polli keynesiani del capitale.
Dopo la crisi del 1929, per fortuna dei capitalisti, comparve John Maynard Keynes che sosteneva di salvare e mantenere stabile il capitalismo e soprattutto di garantire la piena occupazione, attraverso un’opportuna combinazione di politiche di pompaggio di risorse finanziarie e monetarie.
Questa ricetta è stata ben volentieri accolta non solo dalla grande maggioranza degli economisti filo-capitale, ma anche dalle classi dirigenti dei paesi capitalisti sviluppati, in particolare dal presidente USA, Franklin Delano Roosevelt, che non ebbe difficoltà ad ammettere: «Nessuno crede più fermamente di me nel sistema dell’iniziativa privata, della proprietà privata e del profitto privato» e «le politiche keynesiane del New Deal dell’amministrazione, non mirano a cambiare l’economia capitalistica ma al contrario a salvarlo e a salvare il sistema del profitto privato e dell’iniziativa privata dopo che esso era stato trascinato sull’orlo della rovina» (discorso del 1936).
Da liberale dichiarato non meno di Draghi, Roosevelt non esitò a fare uso del potere politico e del governo dello Stato per intervenire sul mercato pur di salvare il sistema del capitale. Addirittura, ad esempio, prima ancora che il Congresso approvasse senza né esaminare né dibattere, Roosevelt, il primo giorno del suo mandato, aveva già fatto ricorso al suo potere esecutivo (quasi come un DPCM del capo di governo Conte…) per varare un provvedimento di temporanea chiusura delle banche di interesse nazionale.
La crisi keynesiana del New Deal
La verità è che fu solo con la seconda guerra mondiale e poi con la guerra fredda che la situazione cambiò e il capitalismo uscì dalla crisi grazie alle grandi spese militari, aumentate come mai nella storia e che sono diventate la norma.
E’ con lo scoppio della seconda guerra mondiale che Roosevelt riuscì a fare una politica pianificata controllata, però, dalle maggiori corporation industriali private e non più regolata dalla concorrenzialità.
Come già nella prima guerra mondiale, furono i maggiori responsabili delle corporation private a dirigere la pianificazione dell’economia. Il governo garantì che non sarebbe stata presa alcuna misura antimonopolistica, che i contratti d’appalto governativi avrebbero previsto clausole per la maggiorazione dei costi così che agli industriali andarono spese per la difesa che aumentarono il disavanzo in modo pressoché sconfinato.
Accadde lo stesso con lo svilupparsi della guerra fredda (e si capisce perché gli USA dominati dalle corporation del Kombinat militare-politico, avessero grandi interessi per perseguire volutamente la scelta del confronto militare, la corsa agli armamenti e la guerra fredda!) nei confronti dell’Unione Sovietica e della Cina comunista che furono una magnifica giustificazione per massicci investimenti governativi nel settore della difesa che in massima parte finì nella casse delle corporation industriali più importanti.
Con in più l’impegno sottoscritto col New Deal di Roosevelt durante la guerra, secondo cui le organizzazioni sindacali, dovevano entrare a far parte dell’establishment, per evitare la lotta di classe ed ogni conflittualità tra capitale e lavoro, come già negli anni 30 e 40 di Roosevelt avevano fatto anche i sindacati comunisti e il Partito comunista (alienandosi il sostegno di tanta parte della classe operaia).
L’attuazione della strategia keynesiana richiedeva che vi fossero iniziative di spesa pubblica sufficientemente ampie, oltre ad un sistema monetario e creditizio flessibile. La prima di queste condizioni non è mai stata realizzata nel corso degli anni Trenta, col risultato che anche nella fase culminante della ripresa ciclica del 1937 vi era una disoccupazione di oltre il 14 % della forza lavoro.
Fu solo nel 1940 che Roosevelt fece riferimento, in un suo messaggio al Congresso sul bilancio, al fatto che il governo avrebbe dovuto operare costantemente e per sempre sull’economia per sostenere il capitalismo e il suo sistema di accumulazione del capitale.
Quando i polli keynesiani vanno e vengono dal pollaio del capitale
L’esperienza del dopo ‘29 era stata talmente drammatica, per i gestori del capitalismo, che essi giurarono che non si sarebbe mai più ripetura.
Così, ogni volta e ad ogni minaccia di recessione o di peggioramento che può tramutarsi in depressione, la reazione dei gestori del capitalismo e dei circoli governativi è stata di volta in volta di ricorrere al pompaggio di risorse e al deficit della spesa pubblica a debito.
E ad ogni segno di disordine finanziario o minaccia di eccessivo tasso di disoccupazione che, abbiamo visto, sta sempre dietro l’angolo, si determina una pressione sulla Banca Centrale ad immettere più denaro nel sistema, stampando moneta, quindi creando inflazione.
Come ha fatto anche Draghi da liberale convinto quanto Roosevelt, che per rafforzare i modelli di accumulazione capitalistica esistenti e pur di sopprimere il radicalismo e il rischio dei comunisti si dimostrò pronto ad intraprendere spese assistenziali e improduttive, atte a tenere sotto controllo la disoccupazione. Sicché bastò ridurre nel 1936 le spese governative per l’assistenza, per provocare una recessione ancora più acuta e il raddoppio della disoccupazione, superata solo con le spese militari per la guerra. «Col keynesismo sto conducendo una battaglia contro il comunismo e per salvare il sistema capitalistico», dichiarò Roosevelt (memento per chi crede che “sinistra e keynesismo” sono sinonimi).
Donde che anche il proteico Draghi ha già aumentato le spese militari e come un pollo keynesiano del capitale torna a Federico Caffè: è convinto che il sistema di pompaggio di risorse pubbliche nell’economia capitalistica da parte degli Stati è e deve essere permanente, ma anche che in questa crisi trentennale, come dal ’29 in poi, serve un pompaggio eccezionale di risorse. Quindi i polli keynesiani, almeno per qualche tempo, possono uscire dal pollaio del capitale, per gonfiare la gomma bucata dell’economia capitalista, con deficit di spesa pubblica e aumento dell’offerta di denaro, due cose strettamente connesse tra loro.
Questa analogia abbastanza semplicistica della gomma, è tuttavia pertinente almeno per un aspetto. Fino a che l’economia viene pompata in maniera sufficiente per andare, tutte le forze monopolistiche lavorano indefessamente per aumentare la propria parte di profitti. Ciò può significare o significherà prezzi più alti, tariffe più care, costi sempre maggiori, come si può ben vedere già anche nel nostro Paese in cui le tariffe, dopo le privatizzazioni capeggiate da Draghi, sono cresciute in modo esponenziale anche indipendentemente dagli investimenti, andando semplicemente ad incrementare i guadagni delle compagnie private che gestiscono le autostrade piuttosto che l’energia, i mezzi di trasporto urbano o le ferrovie, ecc.
Privatizzazioni predatorie che per altro, ad esempio nel campo energetico, colpiscono l’efficientamento energetico e le rinnovabili, che richiedono grandi investimenti realizzabili solo con l’intervento pubblico.
Questa scalata ad avere sempre di più da parte dei potenti e dei privilegiati, accentua ed esaspera gli squilibri che sono all’origine del cattivo funzionamento del sistema. Per continuare la nostra analogia, dovremmo però dire che sia la gomma che il buco crescono col passare del tempo e richiedono quindi un pompaggio sempre più forte.
Se diamo uno sguardo ai più importanti meccanismi di pompaggio che contribuiscono a mantenere gonfia la gomma, si può intuire o vedere quanto tali meccanismi siano stati straordinariamente attivi in questi ultimi anni e lo siano ancora (questo, senza addentrarci, vale anche per altri sistemi keynesiani di pompaggio).
Rivolgendo l’attenzione alla pompa o meglio all’insieme dei meccanismi di pompaggio che contribuiscono a mantenere gonfia la gomma, considerando prima i più importanti di questi meccanismi si può vedere anche in che misura siano straordinariamente attivi tali meccanismi.
I tre più importanti meccanismi di pompaggio possono essere considerati i seguenti:
1) il sistema creditizio; 2) la finanza pubblica; 3) la Banca Centrale Europea.
Come si sa e come vediamo, questi tre sistemi di pompaggio sono stati attivati nel corso di questo lungo periodo di crisi economica e in procinto di essere potenziati in nome dell’emergenza, che in realtà è diventata la forma di governo.
Il sistema creditizio, che potrebbe essere ben definito come il sistema di indebitamento, dal momento che credito e debito sono due facce della stessa medaglia, comprende le banche commerciali e di risparmio, i vari istituti di credito speciale, le sezioni creditizie delle imprese di produzione e vendita, insomma tutto il sistema creditizio di istituti, enti, ecc. Semplificando al massimo il discorso, quello che il sistema creditizio e bancario fanno non è altro che ottenere in prestito denaro ad un certo tasso di interesse da coloro che hanno possibilità di depositare denaro o tramite i vari fondi, pensionistici, sanitari, ecc., per reimprestarlo ad un tasso di interesse maggiore a quanti pensano di averne bisogno anche in misura maggiore di quanto ne possiedono già.
In questa maniera viene assicurata la circolazione della moneta, mentre cresce l’ammontare dell’indebitamento, usandolo anche per speculazioni e nel mercato borsistico, utilizzando anche i fondi di risparmiatori che sono tenuti del tutto all’oscuro di come vengono impiegato i risparmi di cui sono i titolari.
La finanza pubblica nella pratica opera per lo più in modo inflazionistico. Ciò che distingue la sovranità, osservava Thorstein Veblen, è il diritto di dichiarare guerra. Avrebbe dovuto aggiungere quello di battere moneta, senza cui si può solo chiedere prestiti alle banche – sotto la spada di Damocle dello spread – la cui capacità di concedere prestiti dipende, però, dalle riserve dei loro depositi nella Banca Centrale, e normalmente le norme riguardanti tali riserve possono essere cambiate dalla politica della Banca Centrale; e quando un governo sovrano come il nostro, spende più di quanto incassa ciò che fa più frequentemente nella realtà moderna, è chiedere in prestito alle banche la somma di cui ha bisogno. E la Banca Centrale verosimilmente non farà difficoltà alle banche perché prestino il denaro allo Stato per coprire il proprio deficit: cosicché il risultato è ancora un’iniezione supplementare di potere di acquisto al sistema più o meno in proporzioni simili all’ammontare del deficit.
Infine la Banca Centrale, può aumentare le riserve delle banche e quindi il loro potere di concedere prestiti anche al di là del procedimento usato per finanziare il deficit pubblico: ciò é fatto attraverso quelle che sono chiamate operazioni su mercato aperto, ossia mediante acquisti da parte della Banca Centrale di titoli ed obbligazioni pubbliche.
Ogni segno di disordine finanziario o la minaccia di un aumento eccessivo del tasso di disoccupazione, che sta sempre dietro l’angolo, determina una pressione sulla Banca Centrale ad immettere più denaro nel sistema. Essendoci poche pressioni di segno opposto, salvo qualche economista prudente, il risultato è immissione e stampa di moneta, quindi più inflazione. E quindi i dati sull’aumento del debito riflettono l’attività di pompaggio svolta dal sistema creditizio.
Inutile dire che tutto quanto il meccanismo non è diverso, anzi, è ricalcato ad immagine e somiglianza di quello americano essendo il capitalismo finanziario tale in ogni continente.
Lo spettro che ossessiona il mondo capitalistico di oggi è la possibilità di un collasso delle sue istituzioni finanziarie e la crisi economica mondiale che vi si accompagnerebbe, come si temette all’indomani dei fallimenti bancari del 2008, quando specie il governo americano dovette intervenire con un pompaggio senza precedenti di denaro pubblico dei contribuenti per salvare il sistema finanziario.
Sicché, a proposito del meccanismo di pompaggio “finanza pubblica” è evidentemente diventato un luogo comune dire che il bilancio in deficit costituisce la regola non l’eccezione, al giorno d’oggi.
Con tutti questi meccanismi di pompaggio in piena attività e con l’aumento dei prezzi e delle tariffe, ci si potrebbe aspettare come minimo che questi anni e l’ultimo periodo di tempo siano stati relativamente pieni di occupazione e di manodopera e di pieno utilizzo delle capacità produttive. Invece come ben sappiamo e vediamo, non è così, anzi… nonostante tutta l’attività di pompaggio, l’occupazione e l’economia sono rimaste ben lontane dall’essere al pieno delle proprie capacità.
Inoltre il grado di reattività del sistema alla sempre più vigorosa azione di pompaggio sembra andare riducendosi. Sicché anche il mandare all’aria il bilancio potrebbe ugualmente non avere successo – così come tutti gli altri sistemi di pompaggio che indubbiamente sarebbero collegati – nel prevenire l’avvio o l’aggravio di una recessione, mentre farebbe aumentare sicuramente il ritmo di inflazione.
Il fatto è che per il capitalismo non ci sono alternative.
Ecco dunque spiegato perché negli anni e nei decenni, in apparenza, si assiste ad una alternarsi di fasi. Dopo una fase espansiva e di pompaggio durata per tre decenni dalla fine della guerra, negli anni 70 i polli keynesiani vennero fatti tornare nel pollaio del capitale, avviando da allora ad oggi una cosiddetta stretta “liberista”, che si realizza come stretta dei finanziamenti al sociale, ma continua a mantenere attiva la pompa “finanza pubblica” a favore delle imprese e del capitale.
Solo che però, da allora ad oggi la crisi non è mai stata superata, toccando un picco esplosivo nel 2008, e per la prima volta dopo la “grande depressione”, il sistema bancario e commerciale, per salvarsi, ha potuto basarsi esclusivamente su grandi quantità di prestiti governativi, per scongiurare la materializzazione dello spettro del crollo delle istituzioni finanziarie che ossessiona il mondo capitalistico atlantico. Donde che a fronte di una crisi che dagli anni 70 e ancor più dal 2008 da ciclica è diventata, in pratica, crisi permanente, anche in questa fase come nella precedente, si dovrà continuare in modo pressoché permanente l’iniezione di risorse di finanza pubbliche. Donde che oggi come in passato, quando si paventa una recessione e il tramutarsi in depressione, si ricorre di volta in volta al deficit della spesa pubblica e agli strumenti monetari e creditizi di cui sopra.
Sicché stante che anche il preteso “liberismo”, ovvero statal-liberismo, non rinuncia alla pompa “finanza pubblica”, in alternativa al pompaggio di risorse pubbliche nell’economia delle imprese private, ci sarebbe solo il lasciare che la recessione abbia il suo corso naturale e si cada nella totale depressione, come nel 1929.
Ma la grande depressione come punto di raffronto con la situazione odierna, genera panici come allora.
Quindi si torna a parlare di keynesismo, che è il migliore sistema di pompaggio di cui dispone il capitalismo, come si profila e si ipotizza o si pensa di realizzare in Europa: con strumenti e programmi di pompaggio di grandi quantità di risorse finanziarie e monetarie a credito e a prestito, tramite la Banca Centrale e tramite finanziamenti degli Stati o reperite nel mercato con titoli vari garantiti da Stati e Unione.
Ma anche in questa fase come nelle precedenti, aumenti dei prezzi, struttura gonfiata del credito, speculazioni febbrili: ciò è stato e dovrà essere tollerato e addirittura stimolato allo scopo di evitare la temuta deflazione, che in passato è stata la cura “naturale” del capitalismo. Tutto questo, aggiunto al calo della produzione industriale e al sempre maggiore tasso di disoccupazione in tutto il mondo, mette i politici di fronte all’ardua scelta tra accettare una recessione (o peggio) o spingere ancora l’offerta di denaro, creando inflazione e aumento dei prezzi. Fino a quando il dolce stimolante, del 2-3% di inflazione che i polli keynesiani del capitale si erano abituati a prevedere e salutavano come il benvenuto, negli anni 70 si è trasformato in un torrente impetuoso, al di fuori di ogni controllo.
Ecco dunque spiegato perché negli anni e nei decenni, in apparenza si assiste ad un’alternarsi di fasi, da una fase espansiva e di pompaggio durata per tre decenni dalla fine della guerra, a una cosiddetta di stretta “liberista” che si realizza come stretta dei finanziamenti al sociale ma continua a mantenere attiva la pompa “finanza pubblica” a favore delle imprese e del capitale.
Da cui si crede di poter ripristinare i fasti del dopoguerra quando nei tre decenni di grande pompaggio, il capitalismo concesse ai polli keynesiani del capitale di scorrazzare in libertà e sembrava il migliore modo possibile nel migliore dei possibili mondi capitalistici. La tendenza alla stagnazione economica tipica del capitalismo monopolistico induce lo Stato ad intervenire maggiormente nell’attività economica. Questa maggiore attività economica dello Stato assume forme diverse, ivi compresa la manipolazione monetaria e la spesa governativa destinata a creare un ambiente favorevole agli affari.
Ma quanti manipolano la finanza pubblica si illudono di poter regolamentare l’economia in maniera tale da ottenere un continuo e moderato tasso di crescita dei prezzi (a favore degli affari).
Ciò che si è ignorato – e che ancora oggi sembra riconosciuto soltanto dai marxisti, a “sinistra” e da finanzieri accorti, a destra – è che questa strategia comporta necessariamente un incremento ricorrente della struttura debitoria della società, che cosi diventa più vulnerabile alle scosse che tradizionalmente scatenano il panico. Per prevenire servirà aumentare il tasso d’inflazione. Il quasi panico scatenato dal fallimento della Lehman Brothers è stato contrastato con una massiccia iniezione di credito e risorse pubbliche.
Stante che per quanto siano state attive le pompe inflazionistiche, esse non sono riuscite a portare l’economia nel suo insieme a un livello soddisfacente di occupazione e utilizzo delle risorse, è possibile che dopo qualche accento keynesiano e qualche libera uscita, potremmo vedere che i polli keynesiani tornano nel pollaio del capitale.
Anche perché il pompaggio è una droga che da stimolante può diventare tossica. Probabilmente il paziente, e cioè il capitalismo monopolistico, si è abituato a questo veleno, il che richiede di aumentare le dosi del pompaggio di grandi risorse. In mancanza di radicali riaggiustamenti, si adottano misure temporanee come quelle conseguite e perseguite dalla UE sino ad ieri, che assieme alla stagnazione sono strumenti per trasferire il peso della crisi da una classe o uno strato, ad un’altra classe o strato.
L’alternativa è un periodo di disintossicazione talmente spaventoso per le sue implicazioni, che è estremamente dubbio che il paziente sia in grado di superare una simile prova: perciò ricorrono ancora di più e sempre più a diverse forme di pompaggio, come quelle in atto o che si intende mettere in campo sempre e ancora con la “scusa” dell’emergenza: emergenza che dura ormai da almeno due decenni e che con la UE e nella UE, in realtà l’emergenza è diventata forma di governo: forma di governo d’emergenza grazie alla quale ed in suo nome si riesce a governare; sicché è una “emergenza” che sostituisce la democrazia, la Costituzione, la sovranità nazionale e popolare.
Emergenza prima economica, poi anche pandemica, poi pandemica ed economica in cui però sempre e comunque prevarrà quella economica: tanto che in nome dell’emergenza economica divenuta forma di governo non si son messe in campo nessuna delle misure di prevenzione o anche solo di incremento dei posti letto e del personale, nonostante fosse risaputa e ripetuta la previsione delle nuove ondate pandemiche.
Quello che manca o meglio è venuto meno negli ultimi decenni, specialmente al conservatorismo/progressista o progressismo/conservatore del sistema di produzione, è la consapevolezza che «la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso un incontrollato sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esse contenuto, ma nello stesso tempo tale produzione ha come suo primo e unico scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione». Questo ancor più oggi, nella fase del capitalismo finanziario, in cui «l’attività bancaria e il credito sono divenuti gli strumenti più efficaci per spingere la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti naturali, ed uno dei veicoli più efficaci delle crisi e della speculazione» (K.Marx, Il Capitale, III).
Questo spostamento in favore di un più diffuso uso del capitale derivante da fonti finanziarie esterne ha due origini:
1) la spinta ad un aumento del tasso di profitto e 2) la pressione costante ad un aumento della massa dei profitti. Anche se, secondo le parole di Marx citate, questo significa «spingere la produzione capitalistica al di là dei propri limiti» e dover ricorrere all’indebitamento a causa dell’insufficienza dei capitali che i capitalisti sono capaci di formare anche internamente o di recepire attraverso l’emissione di nuove azioni per finanziare così l’espansione, anche se per quanto l’indebitamento a lungo termine sia cresciuto, non è mai riuscito a saziare l’appetito capitalistico di accumulare.
E per questo le società, con la collaborazione delle banche e degli altri istituti finanziari, hanno cominciato da tempo a dipendere sempre più dal credito a breve termine, come mezzo per ottenere capitali sia per nuovi investimenti in impianti e macchinari sia per le spese correnti.
L’aritmetica del profitto
Un’espansione del credito e’ un fenomeno la cui esplosione ha due facce:
A) I capitalisti prendono a prestito quanto più possono non solo per necessità ma, cosa più importante, anche per aumentare il loro tasso di profitto individuale e B) le banche e gli altri istituti aumentano con una politica selvaggia i loro prestiti come mezzo per massimizzare i profitti.
Questa aritmetica del profitto è ciò che sta dietro a una gran parte della grossa espansione dell’indebitamento. A partire dalla grande depressione, la rapida accumulazione di capitale da parte delle imprese, ha interessato sia gli investimenti azionari sia l’indebitamento, ma la crescita nell’uso delle obbligazioni e delle ipoteche è stato di gran lunga superiore a quello della azioni, le cui origini sono indicate nei due punti.
Questo ancor più nell’attuale fase di massimo sviluppo del capitalismo finanziario che porta ad usare maggiormente l’attività bancaria come strumento per finanziare e spingere la produzione capitalistica, per un aumento del tasso di profitto e della massa dei profitti.
E’ questa arimetica del profitto che è il movente unico delle attività economiche capitalistiche, che sono capaci di finanziare lo sfruttamento anche con l’indebitamento, che per quanto aumenti non basta mai.
Quali furono le cause della crisi del 1929? La causa fu una sola: il sistema di produzione capitalistico.
Quali le cause della crisi degli anni 70 e di quella degli anni 2000, specie dal 2008 in poi? La causa è una sola: il sistema di produzione capitalistico.
Dal momento che la tendenza alla stagnazione economica tipica del capitalismo monopolistico induce gli Stati ad intervenire sempre più nell’economia, e stante che questa maggiore attività economica dello Stato assume forme diverse, ivi compresa la manipolazione finanziaria e le spese governative destinate a creare un ambiente favorevole agli affari delle imprese private, si tratta di decidere verso quali forme e quali obbiettivi e fini indirizzare gli interventi degli Stati nell’economia: se per fini di profitto o per fini d’uso.
Va dunque cambiato lo scopo come non sa fare e a suo tempo non ha saputo e non poteva fare, il keynesismo e il New Deal americano, vale a dire: invertire gli scopi della produzione, con una pianificazione economica e un programma che implichi mutamenti di vasta portata in ogni direzione, cioè la sostituzione della produzione per il profitto con la produzione per l’uso.
Ma tra inflazione, stagnazione e recessione, la misura in cui le classi al potere possono fare questo o quello, dipende dalla forze con cui i lavoratori perseguono la loro lotta di classe che, come si sa, langue tanto più in Italia dove gruppi politici e sindacato della sinistra trasformista sono stati cooptati e si atteggiano a parte integrante delle classi dominanti.
Non di meno si palesa la subalternità della classe dirigente, incapace di gestire la crisi e la pandemia se non come e tramite l’emergenza che in tal modo risulta ingestibile, in mancanza di piani e pianificazione dell’economia ed anche di piani di prevenzione su larga scala territoriale, che richiedono investimenti che sottrarrebbero risorse finalizzate agli armamenti e alla difesa degli affari e dei profitti privati, per cui si esita a ricorrervi.
In mancanza del radicale riaggiustamento di cui sopra, si adottano misure temporanee come quelle conseguite e perseguite dalla UE da Maastricht in poi, che assieme alla stagnazione sono strumenti per trasferire il peso della crisi da una classe o uno strato ad un’altra classe o strato. La sola difesa contro il male alterno dell’inflazione e della depressione, sarebbe l’abolizione del sistema capitalistico.
Ma a differenza degli esseri umani, i sistemi sociali non periscono spontaneamente. Essi devono essere rovesciati da agenti umani che non ritengano più di poter sopportare le proprie sventure.
Che questi agenti e specialmente i lavoratori dipendenti di tutto il mondo, che sono le principali vittime di questo sistema, faranno un passo in avanti sulla scena della storia e prenderanno nelle loro mani il grande compito di salvare non soltanto se stessi ma l’intera umanità, non è certamente cosa da essere messa in dubbio, o meglio non può essere assolutamente messa in dubbio da chiunque creda che l’umanità ha ancora un futuro.
Ma quando questo accadrà e quali forme assumerà la lotta, non siamo ancora in grado di prevederlo.
Forse solo Draghi può prevederlo. «Noioso come un banchiere ma con una testa genovese sulla cui vita riposano enormi capitali» come scrive Balzac, ma che da uomo del destino manifesto forse potrebbe persino prevedere il futuro…