Mario D’Acunto
Sommario
Il riscaldamento globale (global warming) causa maggiore dei cambiamenti climatici è dovuto alla massiccia emissione nell’atmosfera di gas serra, principalmente CO2. Questa emissione è dovuta all’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, carbone). In questo breve lavoro, attraverso la messa al centro del ruolo dei combustibili fossili quale fonte di energia verrà messa in evidenza la stretta connessione tra il ruolo degli apparati industriali-militari statunitensi, il signoraggio del dollaro e la finanziarizzazione dell’economia, quali risposte predominanti alla caduta tendenziale del saggio di profitto tipico delle economie mercantiliste.
L’altro oggetto di questo articolo è accennare anche ai criteri di classe legati alla più generale questione ambientale (sfruttamento e inquinamento delle risorse naturali come complementare allo sfruttamento della forza-lavoro), ai cambiamenti climatici, evidenziato in modo chiaro negli ultimi 50 anni. Questi criteri sono basati sui rapporti di produzione e i rapporti di proprietà tramite i quali la classe dominante si impadronisce delle risorse naturali per alimentare i cicli di accumulazione capitalistica e, sono qui, come accennato, letti alla luce della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Si analizza come la costruzione di un consenso di massa sulle questioni ambientali sia guidato e controllato dal capitale fittizio e utilizzato nello scontro inter-imperialistico tra aree produttive. Infine, viene delineata la necessità della costruzione del socialismo che porta con sé il profondo senso ecologico in quanto in grado di affrontare il doppio sfruttamento, della forza-lavoro e delle risorse naturali.
Introduzione
Negli ultimissimi anni è tornata prepotentemente al centro dell’attenzione di media e, a parole, delle classi politiche, la questione del cambiamento climatico, termine neutro per definire l’attuale processo di riscaldamento globale. Una spinta fondamentale è sicuramente stata l’apparire a livello mondiale degli scioperi ispirati da Greta Thunberg del Fridays for Future (FFF), che ha visto in ogni angolo del pianeta milioni di persone, per lo più giovanissime, chiedere un futuro diverso, almeno in senso ecologico. Un futuro che, invece, oggi sembra segnato, drammaticamente, come un treno lanciato a tutta velocità e senza macchinista alla guida. E’ sorprendente, almeno per chi ha una memoria storica di alcuni decenni, vedere come, per altrettanti decenni, gli appelli lanciati da organizzazione scientifiche non siano stati in grado di sollevare nessuna significativa reazione. Tuttavia, la questione ambientale e il surriscaldamento globale sono ben note da tempo, e, fino al 1991, la questione ambientale ha rappresentato, insieme al possibile olocausto nucleare generato da una guerra tra USA e URSS, una delle più evidenti contraddizioni del modo di produzione volto alla realizzazione del profitto. Con il crollo dell’URSS e la fine della Guerra Fredda, è stato rimosso a livello collettivo l’olocausto nucleare, rischio tuttora ben presente, il Bulletin of the Atomic Scientists fissa a 100 secondi prima della mezzanotte la probabilità di una guerra nucleare [1], mentre le questioni ambientali si sono progressivamente affievolite, rimanendo relegate a battaglie minoritarie, seppure di un certo peso, come le lotte dei contadini contro diverse multinazionali in varie parti del mondo, o come nei Social Forum ad inizio millennio.
La percezione a livello di massa di un allarme definisce anche alcune dinamiche all’interno dello sviluppo capitalistico e la capacità di reazione dello stesso. Per esempio, durante la Guerra Fredda, la paura dell’olocausto nucleare era funzionale alla paura del nemico oltre cortina (paura messa in campo dai potenti apparati industriali-militari di entrambe le superpotenze) che definiva anche l’equilibrio su cui si basava la corsa agli armamenti e il peso che il complesso industriale-militare dovesse avere nello sviluppo economico dei contendenti. Sotto l’aspetto della percezione di massa, la pandemia da Covid-19 è stata definita una sorta di cambiamento climatico alla velocità della luce [2]. Il parallelo tra riscaldamento globale e pandemia da virus è basato anche dalla replica di simili dinamiche come lo scontro tra allarmisti e negazionisti, l’affermarsi di verità alternative, e l’accusa agli scienziati di essere una lobby. Parimenti dal 1992 da quando fu organizzata la prima conferenza mondiale sul clima a Rio de Janeiro, ogni incontro internazionale sul tema si è chiuso con un protocollo di intenti, sistematicamente ignorato dai paesi firmatari. Questa incapacità di azione politica ha seguito i ritardi di intervento in merito alla pandemia dopo gli allarmi dovuti all’esplodere della pandemia prima in Cina, Dicembre 2019-Gennaio 2020, poi in Iran, Gennaio-Febbraio 2020, poi in Italia, Febbraio-Marzo 2020, prima di diffondersi in tutto il mondo. A differenza del Covid-19, pur generato dall’uso insensato delle risorse naturali [3], dove i vaccini sviluppati si avviano, mentre scriviamo (Marzo 2021), a risolvere la pandemia (che vale per questa pandemia, per le prossime pandemie si dovrà attuare una nuova corsa a nuovi vaccini), nel caso dei riscaldamenti globali, i rimedi, se ancora possibili, prima di immani distruzioni del pianeta, riguardano l’abbandono del sistema capitalistico (caratterizzato da massimizzazione della produzione e dei profitti) e la nascita di un sistema nuovo basato sul controllo dei sistemi di produzione e di una produzione intelligente e a basso impatto ambientale, in parole povere una nuova forma di Socialismo (sarebbe meglio dire una forma storicamente attuale di Socialismo).
Nel parallelismo pandemia cambiamenti climatici, analogamente alle indicazioni dei comitati tecnico-scientifici, l’idea che il processo del riscaldamento globale possa essere fermato seguendo le indicazioni di un gruppo di scienziati come l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) si basa su un precedente relativo al buco dell’ozono . Il problema dell’ozono era noto dal 1974, quando S. Rowland e M. Molina, professori alla University of California avevano pubblicato un articolo sulla rivista Nature in cui dimostravano che sostanze come i clorofluorocarburi (cfc, usati principalmente nell’industria dei frigoriferi e degli spray) causavano una riduzione dello strato dell’ozono che circonda la Terra, riduzione che aumentava l’effetto serra nei confronti delle radiazioni solari. I due scienziati non si limitarono a lanciare l’allarme, fecero un lavoro di pressione nei confronti della comunità scientifica perché si mobilitasse nei confronti dei politici per la messa al bando del cfc. A contrastare questo lavoro di Rowland e Molina, non furono solo i gruppi industriali direttamente coinvolti, ma anche parte della comunità scientifica, che criticava la pressione dei confronti della politica da parte di un mondo, quello scientifico, che si auto-rappresentava come neutro. Ci vollero 13 anni dalla pubblicazione dell’articolo di Rowland e Molina, perché nel 1987 a Montreal si firmasse un protocollo sulla messa al bando dei cfc, dopo che in ogni caso i settori industriali convolti avessero trovato una soluzione nell’identificare sostanze in grado di sostituire i cfc. Questo precedente ha stimolato l’azione dell’IPCC nella sfida al riscaldamento globale, che però ha avuto un effetto decisamente minore. Un conto è, infatti, mettere al bando i cfc, la cui industria di riferimento è limitata, e le soluzioni alternative sono relativamente facili da trovare, un altro è limitare l’emissione del principale gas serra, l’anidride carbonica. La figura 1 riporta la concentrazione di CO2 (misurata in parti per milione, ppm) in funzione degli ultimi 800 mila anni, è da segnalare la prepotente impennata della concentrazione di CO2 negli ultimi 50 anni. L’industria relativa ai combustibili fossili è molto più potente, ma soprattutto l’utilizzo dei combustibili fossili si basa su una precisa strategia dell’imperialismo USA, una strategia rifondata sulla fine degli accordi post II Guerra Mondiale di Bretton-Woods basati su un sistema di cambi fissi e sulla convertibilità del dollaro con l’oro, e quindi fissata sulla stretta relazione, e in un certo senso convertibilità, tra dollaro e petrolio. Quindi una strategia che combina controllo delle risorse petrolifere, il controllo della finanza attraverso il signoraggio del dollaro e una straordinaria supremazia militare, anzi, dell’apparato industriale-militare.
Figura 1. Concentrazione di CO2 (ppm) nel corso degli ultimi 800 mila anni, ad ogni numero corrisponde il corrispondente anno (l’asse degli anni non è in scala). La concentrazione di CO2 ha oscillato nel tempo, ma con l’avvento delle rivoluzioni industriali e l’uso massiccio dei combustibili fossili, la concentrazione è aumentata in modo massiccio fino a mostrare un aumento senza precedenti negli ultimi 50 anni. Questa articolo cerca di mostrare il motivo di questa recente impennata.
Le idee dominanti sono espressione delle classi dominanti
Abbiamo visto nell’Introduzione che il contrasto dell’industria dei combustibili fossili ha reso la vita dell’IPCC abbastanza difficile e movimentata. L’IPCC nasce nel 1988 come struttura intergovernativa composta da ricercatori e governi (a cui i primi rispondono) che suggerisce delle raccomandazioni di politica in materia climatica. Ma, sebbene sotto stretto controllo governativo, l’IPCC è sotto attacco sia da parte di una comunità scientifica sia dall’industria dei combustibili fossili, industria che nel 1989 fonda la Global Climate Coalition (GCC), una organizzazione parallela all’IPCC con il preciso obiettivo di screditare le ricerche in tema di clima e di cambiamenti dovuto all’utilizzo di combustibili fossili e di fatto alimentando una cultura negazionista. Le critiche all’IPCC da climatologi e organizzazioni più o meno legati al GCC si accentuano quando nel 2014 il quinto rapporto dell’IPCC parla di 2 gradi di aumento della temperatura media come aumento limite oltre il quale si innescherebbero dei fenomeni climatici non più controllabili. In realtà, il valore di due gradi è considerato arbitrario, frutto di una negoziazione tra ricercatori e governi, quando invece anche un solo grado di aumento della temperatura sta generando effetti disastrosi, probabilmente difficilmente reversibili [3].
La scarsa capacità di mobilitazione e reazione alle questioni ambientali di questi decenni, probabilmente è dovuta al fatto che la scala temporale dei cambiamenti climatici sia a cosiddetta insorgenza lunga, rispetto ad altri tipi di disastri la cui scala temporale è breve, come terremoti o eventi atmosferici, uragani, inondazioni, che inducono a un’azione immediata, l’emergenza climatica non ha generato la coscienza del disastro in atto e del rischio per l’umanità soprattutto per le generazioni future. Fino al Marzo 2019, in coincidenza del primo grande sciopero del FFF, la coscienza del problema dei cambiamenti climatici non è stato in agenda in nessun piano governativo, marginale nelle discussioni politiche e nelle varie tornate elezioni (elettorali). Al contrario, Oggi, malgrado l’attenzione rivolta alla pandemia di Covid-19, non c’è organizzazione che non si prodighi a segnalare il pericolo imminente, fissando, se va bene, il 2050 come l’anno del possibile punto di non ritorno se non interverremo immediatamente ed adeguatamente realizzando la neutralità in termini di emissioni di gas serra.
L’Europa che finora ha perseguito una politica di austerity agganciata da sempre all’economia neo-mercantilistica tedesca ha lanciato il Green Deal, vale a dire una nuova strategia per la crescita che trasformi l’Unione in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva in cui: 1) nel 2050 non siano più generate emissioni nette di gas a effetto serra; 2) la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse; 3) nessuna persona e nessun luogo sia trascurato. Nei toni retorici di Ursula von der Leyen, il Green Deal Europeo dovrebbe diventare la tabella di marcia per rendere sostenibile l’economia dell’UE. L’idea è realizzare questo obiettivo trasformando le problematiche climatiche e le sfide ambientali in opportunità in tutti i settori politici e rendendo la transizione equa e inclusiva per tutti [5]. In realtà, il Green Deal è la via europea nel rafforzare l’industria continentale nello scontro inter-imperialistico e resistere alle future turbolenze dovute alla riduzione dei combustibili fossili e al signoraggio del dollaro. Il Fondo di investimento BlackRock, il primo fondo d’investimento mondiale che gestisce capitali per ben 7 mila miliardi di dollari, ha annunciato nel 2019 di orientare le proprie scelte d’investimento verso quelle aziende che modelleranno il proprio business non solo sul profitto ma anche sulla sostenibilità ambientale, secondo l’acronimo ESG (Etico, Sostenibile, Green) [6]. Di fatto il peso del fondo di investimento è di orientare la produzione ed il consumo secondo standard decisi dal fondo stesso che possono tagliare fuori dal mercato la produzione di interi paesi. Un esempio sono le pubblicità di auto che, in concomitanza con i proclami di fondi di investimento e governi, sono tutte orientate ad offrire al consumatore modelli di auto elettriche proposte in nome della tutela dell’ambiente, tacendo ovviamente che, ad oggi, produrre auto elettriche comporta maggiori emissioni di CO2 rispetto alle auto tradizionali e tacendo che il 95 % dei tragitti delle auto sono effettuati nel raggio di pochi chilometri, distanze per le quali, altri tipi di mobilità realmente compatibili sono ovviamente alla portata degli stessi consumatori.
Recentemente, la Bank of International Settlements (la Banca dei Regolamenti Internazionali, fondata negli anni ‘30 da Banca di Inghilterra e dal finanziere nazista Hjalmar Schacht e accusata in passato di aver aiutato i nazisti nel depredare i paesi occupati durante la seconda guerra mondiale), ha lanciato l’allarme coniando il termine di cigno verde, come emerge dal titolo del suo rapporto: “Cigno verde. Cambiamenti climatici e stabilità del sistema finanziario: quale ruolo per banche centrali, regolatori e supervisori” a cura di L.A. Pereira de Silva, P. Bolton, M. Desprès, F. Samama e R. Svartzman [7]. Stando a questo studio i cigni verdi sarebbero simili ai cigni neri ma provocati dai violenti cambiamenti climatici in corso, e gli “approcci tradizionali alla gestione dei rischi consistenti nell’estrapolazione di dati storici e su ipotesi di distribuzioni normali sono in gran parte irrilevanti per valutare i rischi futuri legati al clima”. Proprio in “virtù” del fatto di essere legato a disastri naturali che prima o poi si concretizzeranno, un cigno verde avrebbe effetti più devastanti di un cigno nero, poiché provocherebbe un effetto a catena devastante per l’intera umanità, in primis, ed in secondo luogo per il sistema economico-finanziario. Dato che i cambiamenti climatici hanno implicazioni sulla stabilità finanziaria e dei prezzi, secondo questo rapporto le banche centrali non possono rimanere ferme ed indifferenti aspettando che le autorità governative facciano qualcosa: così la BCE, ad esempio, ha annunciato che considererà il rischio climatico nelle regole su prestiti e acquisto titoli. Non solo, qualora iniziassero ad accadere fenomeni naturali estremi, le banche centrali dovrebbero fungere da prestatori di ultima istanza a presidio del clima, costrette all’acquisto di asset svalutati. Tutto ciò avrebbe comunque degli effetti positivi poco pronunciati, dato che l’iniezione di ingenti quantità di capitali nei mercati non potrebbe avere effetti positivi sulle conseguenze irreversibili del “climate change”; in altre parole le istituzioni finanziare non disporrebbero di strumenti per contrastare in modo efficace gli effetti di un cigno verde!
La questione del problema: le dinamiche del Capitalocene.
Le dinamiche del Capitalocene
Allora il nostro obbligo è quello di mettere al centro della discussione le cause del cambiamento climatico, partendo dalla domanda Antropocene o Capitalocene?
Quello di Antropocene, altrimenti noto come Cambiamento Climatico Antropogenico, un termine introdotto da Stormer e Crutzen [8], è diventato il concetto ambientalista più importante e diffuso, ma è anche una colossale mistificazione. Il cambiamento climatico non è risultato dell’azione umana in astratto, ma la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è capitalogenico [9]. Il fatto che il concetto di Antropocene abbia avuto grande diffusione sui movimenti green fin dagli anni ’70 è che questa idea, mentre ammette i cambiamenti climatici, assolve le classi dominanti dalle loro responsabilità. Ma ci sono anche altre ragioni che sono alla base del successo di questa idea. L’Antropocene di Creuten e Stoermer possiede la “virtù” richiesta a tutte le idee alla moda: il tempismo e l’essere un contenitore semi-vuoto, un pò come il concetto di globalizzazione affermatosi negli anni ‘90. Un significante che poteva essere riempito con ragionamenti di pensatori anche molto lontani tra di loro, ma che avessero in comune una visione di popolazione e ambiente governata dall’uso delle risorse ma astratta dal punti di vista delle classi e dalle politiche di rapina tipico dell’imperialismo. I pensieri dominanti dell’Antropocene oscura di fatto i rapporti di produzione. La fortuna quindi dell’Antropocene è stata quella di adattarsi al realismo capitalista. Realismo capitalista è un termine coniato da Mark Fisher, a volte attribuito ad altri, ma che può essere sintetizzato dal concetto semplice che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” [10]. Vale a dire la percezione diffusa che il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, e che sia impossibile anche immaginare un’alternativa coerente e credibile. Di fatto, il capitalismo occupa tutto l’orizzonte del pensabile. Nel caso dei cambiamenti climatici, il capitalismo non li nega, anzi favorisce gli scioperi mondiali per il clima e li ingloba organizzando il possibile attacco all’esistente creato dal capitale come occasione di marketing e di nuovi mercati. Secondo questa visione, creare una coscienza ambientalista significa allora promuovere l’auto elettrica al posto del diesel. Oppure attaccare il consumo di carne rossa, o prodotti confezionati in plastica quando l’organizzazione del valore agroalimentare per il suo carattere irrazionale basato sulla massimizzazione della produzione fa in modo che si produca cibo per una popolazione equivalente a quasi 12 miliardi di persone, lasciandone però nella popolazione reale mondiale, fatta di quasi 8 miliardi di persone, quasi un miliardo senza cibo o con quantità di cibo non sufficienti. La produzione di cibo richiede l’impiego del 70 % dei combustibili fossili e l’85% delle risorse idriche totali utilizzate. Il solo spreco alimentare rappresenta il terzo emettitore di gas serra dopo USA e Cina con 3.3 miliardi di tonnellate annue di CO2 [11].
Se dunque la nostra epoca è caratterizzata dal modo di produzione capitalista, questo deve essere, anche se a grandi linee, delineato nei suoi aspetti caratteristici.
Il modo di produzione capitalistico si caratterizza per il continuo aumento del capitale di partenza in una accumulazione senza limiti. L’accumulazione del capitale dipende dalla produzione di profitto e dalla riconversione più o meno grande di questo profitto in nuovo capitale, riconversione che prende il nome di investimento potenziato. Pertanto il modo di produzione capitalistico si caratterizza principalmente per la capacità di produzione di profitto attraverso un ciclo di riproduzione, dove il ciclo di riproduzione del capitale può essere descritto dalla regola: D(capitale)-M(merci prodotte e vendute)-D'(capitale accresciuto), dove D’>D. Quindi la produzione di profitto che è l’obiettivo principale, se non l’unico, del capitale, si ottiene tramite la produzione, circolazione e vendita delle merci in un contesto che è il mercato. La merce è in primo luogo un oggetto che per le sue qualità deve soddisfare un bisogno, di qualsiasi tipo. Una merce può essere utile, caratterizzata dal suo valore d’uso che si realizza nel suo consumo. Ma tale valore d’uso è nello stesso tempo anche valore di scambio, che si presenta prima di tutto come rapporto quantitativo, dove valori d’uso sono scambiati con valori d’uso di altro tipo. Oltre alla produzione, circolazione e vendita di merci, è nel modo di produzione delle merci che gli esseri umani entrano in relazione tra di loro. La proprietà dei mezzi di produzione è dei detentori del capitale (i capitalisti, che posseggono il capitale sotto forma dei mezzi di produzione e sussistenza) è separata dalla forza-lavoro, cioè da quella classe di lavoratori salariati che sono in grado di eseguire un certo lavoro e produrre una certa merce. Pertanto, in un sistema capitalistico, il profitto si realizza dalla capacità, presente solamente nella forza-lavoro, di produrre più valore, sotto forma di merci, e quindi di quello che è necessario per sostenersi (sempre sotto forma di merci) che viene corrisposto tramite il salario. Nel ciclo di produzione delle merci, la caratteristica principale del capitalismo è quello di appropriarsi del plusvalore prodotto della forza-lavoro. Infatti, la giornata lavorativa di un salariato si divide, in due sezioni. Una in cui il lavoratore riceve dal datore di lavoro sotto forma di salario e che corrisponde al valore delle merci che gli sono necessarie per riprodurre se stesso e corrispondono ai mezzi di sussistenza. Questa sezione della giornata lavorativa prende il nome di tempo di lavoro necessario. L’altra sezione della giornata lavorativa corrisponde a quella in cui il lavoratore continua a lavorare producendo merci di cui si appropria il capitalista. E’ in questa sezione della giornata lavorativa che vengono prodotte le merci che costituiscono il profitto, prendendo il nome di tempo di pluslavoro, ovvero lavoro non retribuito al lavoratore. Come descrive Marx nel libro I del Capitale, la massa di plusvalore dipende (a) dal grado di intensificazione del tempo di lavoro, allungandolo, (b) dal livello del salario, abbassandolo, (c) dall’aumento degli operai da sfruttare, (d) dalla produttività del lavoro sociale che riduce i costi di produzione della forza-lavoro, (e) macchinari e materie prime [12]. Si ha dunque produzione di merci o di servizi quando esiste un sistema di rapporto sociale nel quale i singoli produttori creano merci e servizi (prodotti) di qualità diversa (divisione sociale del lavoro), e tutti questi prodotti sono resi uguali l’uno all’altro mediante lo scambio.
Le strategie del capitale per estrarre quanto più plusvalore (la riproduzione allargata che si differenzia dalla riproduzione semplice delle società precapitalistiche) sono essenzialmente due. La prima consiste nell’aumentare la giornata di lavoro, senza che a questo aumento di tempo lavorato corrisponda un aumento corrispondente di salario. Questo primo metodo generalmente è contrastato dalle organizzazioni del movimento dei lavoratori e spesso il risultato di queste lotte ha comportato che la durata della giornata lavorativa è fissata per legge. Queste conquiste oggi sono spesso contrastate dal capitale, e molti servizi sono organizzati in modo che il tempo di lavoro sia gestito da algoritmi come per esempio per i riders (in italiano, ciclofattorini) che portano il cibo a casa. La seconda strategia, prevalente oggi, (grazie alle tecnologie informatiche intrecciate, come abbiamo visto, alla prima) consiste nella ripartizione relativa della giornata lavorativa tra i due tempi, quello di lavoro necessario e quello di pluslavoro, riducendo, a parità di lavoro totale fisso, quello di lavoro necessario, a vantaggio di una estensione del pluslavoro e quindi di plusvalore. Questa seconda strategia si realizza con innovazioni produttive che riducono i tempi di produzione e aumentano la produttività, in termini di merci prodotte, del lavoratore. Siccome questa seconda strategia è predominante, il modo di produzione capitalistico si caratterizza dalla spinta continua all’aumento della produttività, che si realizza nell’innovare in modo incessante le condizioni di lavoro, attraverso il continuo modificare dei metodi e tecniche di produzione cercando di realizzare un aumento della scala di produzione, che permetta di ottenere una più efficiente divisione e articolazione del lavoro, un risparmio dei mezzi di produzione e l’applicazione tecnologica della scienza per la trasformazione dei processi produttivi e la crescita della produttività del lavoro.
Il capitale tende ad aumentare non propriamente solo il plusvalore, ma più precisamente il saggio di plusvalore che è il rapporto tra plusvalore e capitale variabile. Il capitale variabile è la parte di capitale che viene investita in forza-lavoro. Si chiama variabile perché contiene in sé la capacità di produrre più valore di quello necessario alla sua riproduzione, in quanto il capitalista può far lavorare oltre il tempo di lavoro necessario. Il resto del capitale è il cosiddetto capitale costante, chiamato così perché non produce plusvalore, ma viene incorporato nel valore della merce. Marx chiama il capitale variabile, capitale vivo, il capitale costante invece capitale morto. Il saggio di plusvalore aumenta parallelamente alla produttività della forza-lavoro, perché ogni lavoratore è messo in grado di produrre una unità di prodotto in un tempo inferiore, riducendo il tempo necessario ed aumentando il tempo di pluslavoro. Questa condizione si realizza sia attraverso una migliore organizzazione del lavoro, taylorismo, toyotismo, industria 4.0 ne sono un esempio, sia attraverso l’introduzione di macchine sempre più efficienti.
Sebbene legata a una innovazione che costringe anche gli altri capitalisti ad innovare, in quanto capitale costante, le macchine non producono plusvalore, ma il loro costo viene trasferito alla merce il cui valore complessivo (M) risulta composto da: (i) capitale costante, (c) valore dei mezzi di produzione, (ii) capitale variabile (v) salari e (iii) plusvalore (pv).
Il profitto può essere quantificato come massa di profitto corrispondente alla massa di plusvalore ed è pari al plusvalore del singolo lavoratore moltiplicato per il numero dei lavoratori complessivamente impiegati da un dato capitale variabile. Il saggio di profitto, p‘, è invece un indicatore molto più importante, perché legato all’efficienza economica. Il saggio di profitto è costituito infatti dal rapporto percentuale tra il plusvalore totale e l’intero capitale investito C=c+v, che è composto dal capitale variabile v e dal capitale costante c: p=pv/(c+v). In relazione al capitale complessivo anticipato, il plusvalore assume il ruolo di saggio di profitto. Come detto, il capitale per aumentare il saggio di plusvalore interviene aumentando la produttività del lavoro, e questo aumento si realizza attraverso l’introduzione di macchine e processi produttivi sempre più efficienti con la conseguenza che, a ogni ciclo di accumulazione, la parte del capitale costante tende ad aumentare a scapito della parte del capitale variabile che tende a diminuire. La proporzione in cui vengono a trovarsi capitale costante, c, e capitale variabile, v, quindi (c/v) è definita come composizione organica del capitale. Ciò che caratterizza quindi il processo di accumulazione capitalistica è la tendenza ad aumentare la composizione organica di capitale, cioè ad aumentare il rapporto relativo in cui si trovano capitale costante e capitale variabile. La sostituzione della forza-lavoro con le macchine è uno dei processi che sta dentro questa tendenza. Un altro processo legato all’aumento della composizione organica del capitale è quello della crescente concentrazione dei mezzi di produzione e di capitale in sempre meno cosiddetti agenti del capitale, che si traduce in un predominio di poche imprese sempre più grandi e internazionalizzate. Questo meccanismo porta alla costituzione di oligopoli o monopoli, la costruzione di aziende multinazionali e transnazionali che generano prodotti interni lordi ben maggiori di stati di medie o grandi dimensioni.
Conseguenza dell’aumento della composizione organica del capitale è il ruolo sempre più forte del sistema del credito, banche e mercati finanziari, nel mettere a disposizione delle imprese i capitali necessari a sostenere sia il processo di accumulazione, sia le acquisizioni che portano alla centralizzazione dei capitali. E’ da sottolineare che la centralizzazione dei capitali è cosa diversa dalla concentrazione degli stessi. La centralizzazione indica un fattore di accelerazione del processo di accumulazione, attraverso l’aggregazione fra loro di singoli capitali individuali. Invece la concentrazione dei capitali indica l’ingrandimento dei capitali individuali all’interno del processo di accumulazione.
Occorre specificare che il capitale finanziario, che è una componente fondamentale del capitale costante, deve essere distinto dal capitale fittizio. Infatti il capitalismo sopravvive precariamente alla crisi della valorizzazione basandosi su capitale fittizio che alimenta bolle finanziarie destinate prima o poi a scoppiare facendo emergere il processo precario di auto-valorizzazione. Il meccanismo per cui il capitale fittizio prende il sopravvento sull’economia di produzione è la caduta tendenziale del saggio di profitto.
La caduta tendenziale del saggio di profitto.
La conseguenza più importante dell’aumento della composizione organica del capitale è la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Da questa legge, descritta da Marx nella terza sezione del III libro de Il Capitale [12], si possono comprendere appieno sia l’andamento instabile del modo di produzione capitalistico, caratterizzato da alternanza di cicli di crisi e di espansione, sia dal processo più generale di globalizzazione dei mercati. Questa legge tendenziale (e il suo carattere tendenziale, cioè la caduta è evidente solo su opportune scale temporali, va sempre tenuto ben presente) può essere così riassunta: a ogni ciclo di accumulazione, il capitale tende ad aumentare la sua composizione organica, aumentando la componente costituita dal capitale costante in rapporto alla parte costituita da quello variabile. Siccome il plusvalore è prodotto solamente dal capitale variabile, se questo rimane costante a fronte di un aumento del capitale costante, avremo una diminuzione del plusvalore in rapporto al capitale totale investito. Siccome il saggio di profitto è dato dal rapporto tra plusvalore complessivo e capitale totale impiegato, ad ogni ciclo di accumulazione si osserverà una caduta (diminuzione) dello stesso.
Siccome la caduta del saggio di profitto non implica una diminuzione assoluta del capitale variabile e della forza-lavoro, perché la composizione organica del capitale ha carattere relativo, a fronte di una caduta del saggio di profitto, possiamo avere un aumento della massa del profitto, in quanto la massa del profitto è data dal saggio di profitto moltiplicato per il capitale totale. Inoltre, una conseguenza molto importante è data dai fattori che comportano un aumento dei salari reali. Questa condizione si ottiene quando si ha aumento di capitale variabile con l’aumento della produttività. L’aumento della domanda di forza-lavoro, insita nell’aumento di capitale variabile, e la riduzione del valore delle merci, conseguenza della maggiore produttività, producono una maggiore quantità di merci acquistabili con il salario. Quello che però si verifica nei cicli successivi, è che la diminuzione del capitale variabile in proporzione a quello costante, richiederà una quota sempre maggiore di capitale costante per mantenere attiva la forza-lavoro già occupata. Perché non venga a crearsi una eccedenza di lavoratori salariati, che si traduce nella creazione di una massa di lavoratori disoccupati e sotto-occupati, è che il numero complessivo di merci prodotte dalla singola unità di capitale e del sistema capitalistico complessivo aumenti richiedendo la necessità di un mercato sempre più ampio che sia in grado di assorbirle al prezzo di produzione permettendo così la realizzazione di una massa di profitto adeguata. La dinamica di fondo del capitale dunque, e che sta alla radice di ogni crisi di accumulazione, è la sovrapproduzione di capitale, vale a dire la condizione per la quale si è investito troppo capitale rispetto alla capacità del capitale stesso di realizzare un adeguato profitto. Sovrapproduzione di merci e carenza di domanda non sono che la misura della sovrapproduzione di capitale, conseguente alla caduta del saggio di profitto, alla diminuzione della massa salariale complessiva.
Le conseguenze dal punto di vista anche dell’impatto ecologico sono fortissime, anzi possiamo sostenere che sono alla radice dell’inquinamento e della distruzione delle risorse del pianeta. E’ interessante notare che Marx che aveva già enunciato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto nei Gründisse, manoscritto del 1857-58 [13] aveva dimostrato come gli economisti classici (Smith, Ricardo) pur essendosi accorti della tendenza del saggio di profitto a diminuire erano caduti in errore di interpretazione. Smith aveva attribuito la tendenza alla caduta del saggio di profitto al fattore della concorrenza: con il progredire del processo di accumulazione del capitale, si sarebbero esauriti i campi di investimento profittevoli e l’accresciuta concorrenza tra i capitali avrebbe fatto diminuire progressivamente il saggio del profitto. Invece Ricardo riteneva che la concorrenza potesse far diminuire i profitti ad un livello medio nei diversi settori dell’industria, livellando il saggio, ma non poteva ridurlo in maniera tendenziale perché altrimenti la capacità produttiva, ad un certo punto, si sarebbe ridotta a zero dato che la concorrenza era inevitabile. Inoltre, con l’aumento dei redditi aumenta la domanda (sia di beni di consumo che di mezzi di produzione), per cui anche i profitti debbono per forza tornare a salire.
I meccanismi di freno alla caduta del saggio di profitto cercano di ridurre la quota del capitale costante sul totale del capitale. Possiamo affermare che il mondo con le sue contraddizioni è l’effetto combinato e correlato di questi meccanismi. Marx individua sei possibili cause antagoniste alla caduta del saggio di profitto:
(i) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro;
(ii) Riduzione del salario al di sotto del suo valore. Ai danni della forza-lavoro vi sono varie strategie: riduzione del salario o degli oneri sociali; intensificazione dello sfruttamento (per esempio, utilizzo del lavoro nero); maggiore intensità dei ritmi di lavoro; allungamento della giornata lavorativa; totale flessibilità della manodopera; crescita della disoccupazione per tenere bassi i salari, ecc.
(iii) Diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante;
(iv) la sovrappopolazione relativa; vale a dire aumento dei disoccupati e la conseguente creazione di un esercito industriale di riserva.
(v) Il commercio estero;
(vi) L’aumento del capitale azionario. In questo meccanismo rientrano la svalutazione del corso della moneta, quindi svalorizzazione di una parte del capitale investito. La trasformazione di una parte del capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione. La defiscalizzazionie del profitto o riduzione della rendita fondiaria.
Altri meccanismi attivi sono la creazione di nuovi rami produttivi in cui occorre più lavoro immediato o poco sviluppato rispetto al capitale; la creazione di processi di concentrazione sotto forma di oligopoli o monopoli. Nell’ambito della creazione di monopoli posiamo inserire anche l’economia di scala che tende a razionalizzare le aree produttive in poli sempre più concentrati. La nascita dell’Euro è per esempio la realizzazione di un’economia di scala, altri esempi sono il rapido processo di riunificazione nazionale caratterizzanti l’Italia e la Germania nell’Ottocento come realizzazione di economie di scala in seguito all’invenzione del treno, che permetteva di trasportare merci più rapidamente di quanto non facessero precedentemente i carretti, rendendo obsoleti i micro-stati in cui le due nazioni erano suddivise al tempo del Congresso di Vienna del 1815. Un altro meccanismo è l’accettazione di un minor tasso di sviluppo a fronte di un maggior volume del profitto lordo, in ragione della grandezza del capitale (Marx parla di motivo di consolazione). Per una descrizione esauriente delle cause antagoniste descritte da Marx nel capitolo XIV del libro III de Il Capitale il lettore può fare riferimento a Giacché [14].
Dall’analisi di Marx, che mantiene intatta tutta la sua profondità, un meccanismo che è diventato predominante è l’utilizzo della distruzione del capitale tramite conflitti bellici, su scala sempre maggiore. La corsa alla creazione di un apparato industriale militare legato alla guerra è uno dei meccanismi più efficaci al contrasto della caduta tendenziale del saggio di profitto, come la Germania di Hitler e il ruolo assunto dagli Stati Uniti inseguito al secondo conflitto mondiale hanno dimostrato. In termini di emissioni di CO2, il solo esercito statunitense produce il 5% delle emissioni mondiali annuali [15].
Come esempio della caduta tendenziale del saggio di profitto e dell’effetto dei meccanismi di contrasto ad esso in figura 2 viene presentato il saggio di profitto degli Stati Uniti dal 1946 al 2012.
Figura 2. Caduta tendenziale del saggio di profitto USA. Il tasso di profitto cade a causa del carattere specifico delle innovazioni tecnologiche, il fattore principale del suo dinamismo. Le innovazioni da una parte aumentano la produttività del lavoro, cioè ogni lavoratore crea una quantità sempre maggiore di merci con l’aiuto di mezzi di produzione sempre più avanzati. Dall’altra, le innovazioni rimpiazzano lavoratori con mezzi di produzione. Le fasi di crescita nelle oscillazioni, cioè la crescita locale del saggio di profitto nel grafico, corrispondono alle guerre combattute, Corea, Vietnam, Golfo e annunciate (lo scudo spaziale di Reagan degli anni ‘80) [16].
Qui non ci interessa approfondire i singoli meccanismi di antagonismo alla caduta del saggio di profitto quello che invece interessa è descrivere come questi meccanismi sono alla base del processo di allargamento dei mercati per assorbire merci e dei processi di globalizzazione che si sono succeduti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo. Infatti uno dei meccanismi più importanti di contrasto alla caduta del saggio di profitto è il commercio estero, sia direttamente sia in correlazione con altri meccanismi come la creazione di un esercito industriale di riserva e l’abbassamento del salario al di sotto del suo livello normale. Innanzitutto l’esportazione di merci consente di rialzare il saggio di profitto in due modi principali [17]. L’aumento di produttività genera una eccedenza di merce che ha bisogno di nuovi mercati per essere smaltita e questo può avvenire i mercati esteri, e questo è il primo modo. Si realizza così una massa aumentata di plusvalore che compensa la caduta del saggio di profitto. Lo scambio su nuovi mercati produce anche come conseguenza la nascita di nuovi bisogni che richiedono nuove varietà di merci e quindi la necessità di far crescere nuovi settori produttivi che in partenza hanno una composizione organica più bassa e quindi permettono di innalzare il saggio medio di profitto. Il secondo modo con cui l’export di merci incide nel contrastare la caduta del saggio di profitto è lo sviluppo di migliori economie di scala (in pratica si allarga il mercato in grado di assorbire merci) che comportano riduzione dei costi di produzione e l’aumento del saggio di profitto. Inoltre l’allargamento della scala di produzione e commercio consente al capitale di migliorare gli strumenti di produzione e di approvvigionarsi di materie prime a migliori condizioni riducendo i costi di produzione. Nel periodo in cui Marx scriveva il Capitale le potenze europee risolsero il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto avviando una spaventosa ricerca di territori da colonizzare e in cui praticare l’esportazione dei capitali: praticamente dagli anni ’70 del XIX secolo sino alla II guerra mondiale non si fece altro che suddividere il globo in zone di influenza, scatenando guerre catastrofiche. Le colonie non sono state solo un mercato di sbocco per le merci capitalistiche o un luogo ove reperire materie prime a buon mercato o manodopera sottocosto, ma anche l’unica area in cui fosse possibile ampliare il capitale senza dover affrontare la concorrenza intrasettoriale. Marx poté vedere questo fenomeno solo nella sua fase iniziale, ma lo vide bene Lenin, che lo analizzò nel suo testo sull’Imperialismo [18]. Tornando al secondo modo con cui il commercio estero contrasta la caduta del saggio, cioè l’economia di scala e quindi a una organizzazione del lavoro che contrasta la caduta del saggio pur in presenza di un aumento della composizione organica del capitale, un ruolo importante è dato dall’introduzione nel processo produttivo di una sempre maggiore automazione che riduce il capitale variabile, gli esempi più noti, già citati, sono quelli dell’organizzazione fordista, toyotista e dell’attuale industria 4.0.
Come ha segnalato V. Giacché solo per limitarci agli ultimi decenni, abbiamo avuto una notevole verifica della legge della caduta del saggio di profitto: Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è senz’altro riscontrabile. Nel periodo che va dal 1973 al 2008, il saggio di crescita del prodotto interno lordo pro capite (un proxy del saggio di profitto) è stato all’incirca la metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe ancora inferiore. E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti, e il decennio successivo si è chiuso con la peggiore crisi mondiale degli ultimi ottanta anni. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto ad un ritmo inferiore al 4 per cento; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto ad un ritmo superiore al 4 per cento, ed è quasi sempre risultato molto inferiore. Dopo il 2008, le cose non sono andate meglio: la crescita del pil nei cosiddetti paesi emergenti non è riuscita a compensare il brusco calo, e poi l’affannoso e stentato recupero nei paesi a capitalismo maturo. Per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto, la più completa ricerca in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo convergere su livelli simili nei principali Paesi dell’Occidente industrializzato. [19]
Dollaro, petrolio, emissioni di CO2 e capitale fittizio
Un aspetto importante dei meccanismi di risposta alla caduta tendenziale del saggio di profitto è il progressivo processo di finanziarizzazione dell’economia, processo che crea capitale fittizio che stimola bolle. Le crisi finanziarie, che sono l’esplosione delle bolle generate dal capitale fittizio, hanno origini lontane nel tempo e meccanismi che generano conseguenze nel tempo. Uno degli eventi economici e politici più significativi che hanno avuto un impatto notevole nell’aumentare la curva relativa alla concentrazione di CO2, figura 1, avvenne il 15 agosto 1971, quando Nixon decise di chiudere gli accordi di Bretton Woods, accordi che prevedevano un sistema di cambi fissi fra varie monete internazionali e con la convertibilità del dollaro in oro, di fatto legando il dollaro non più all’oro ma al petrolio, figura 3.
Prima di parlare delle conseguenze di questa scelta, dobbiamo fare alcuni passi indietro. E ripartire almeno dalla fine della I Guerra Mondiale. Con la fine della I Guerra mondiale si assiste all’emergere della potenza economica e militare degli Stati Uniti. Potenza che ottiene una straordinaria crescita economica e finanziaria che sfocerà nella crisi del 1929. Nel 1929, dopo quattro decenni di crescita continua, l’aumento dei valori della borsa di Wall Street divenne così avulso dai valori della realtà produttiva che la crisi che ne derivò portò a una stagnazione che fu parzialmente risolta solo da un massiccio intervento degli Stati. La crescita economica conseguente a questo intervento statale permise agli USA di ridurre la disoccupazione al 15% e soprattutto a una crescita della Germania di Hitler che, finanziata in larga parte dal capitale finanziario di matrice statunitense, riuscì a ottenere una economia con piena occupazione guidata da un massiccio piano di riarmo. Conseguenza di questa crescita fu la II Guerra Mondiale, vera risposta alla crisi finanziaria del 1929. Dal punto di vista economico e finanziario, uno dei grandi risultati della II Guerra Mondiale furono gli accordi di Bretton Woods, dal nome della cittadina dell’Hampshire dove si tenne la conferenza nel 1944 con delegati da 44 paesi. Gli accordi di Bretton Woods prevedevano di dar vita a un sistema di tassi di cambio tendenzialmente fissi e di riconoscere al dollaro statunitense il ruolo-guida del sistema monetario internazionale. Agli Stati Uniti veniva richiesto un preciso impegno: l’obbligo di convertire in oro i dollari presentati dalle banche centrali estere. Conversione basata su un cambio fisso di 35 dollari per oncia di oro fino. In questo meccanismo, il dollaro statunitense era l’unica valuta a dover essere convertibile in oro, mentre tutte le altre valute dovevano essere convertibili in dollari a tassi prefissati. Nella logica di Bretton Woods, i dollari, e non più l’oro, diventano la fonte di liquidità dell’economia mondiale, oltre alla componente fondamentale delle riserve degli Stati. In questo modo di fatto si sancì il passaggio dalla valuta merce alla valuta cartacea [20-21]. Fino alla fine degli anni ‘50 gli accordi di Bretton Woods sembrarono funzionare, anche grazie alla fase espansiva dell’economia dovuta alla ricostruzione post-bellica. Ma la crisi per la convertibilità dollaro-oro fu segnata dalla crescente necessità di risorse finanziarie per gli impegni bellici statunitensi e per mantenere l’enorme apparato industriale-militare statunitense.
Le spese militari sono, a tutti gli effetti, una forma di spesa pubblica per il rilancio dell’economia. Si tratta di una forma di spending deficit attraverso la quale lo Stato stimola l’economia per mezzo del debito pubblico che prende il nome di warfare. La Germania di Hitler, e gli Stati Uniti dal 1945 sono i massimi campioni di questo sistema di rilancio dell’economia che prende il nome di warfare [22]. L’apparato industriale-militare statunitense può attingere a risorse pubbliche in dollari anche se il paese si ispira in economia a politiche liberiste, che prevedono invece un basso intervento pubblico per le spese sociali, in campo sanitario, scolastico, previdenziale, questo perché le spese in campo militare servono a proteggere il paese da attacchi militari di potenze che vogliono distruggere gli Stati Uniti (cosa che più o meno vale per qualsiasi paese), espressione del “Bene” contro il “Male”, ieri rappresentato dai comunisti e l’Urss, oggi dai fondamentalisti islamici o la Cina. Quindi la “sicurezza nazionale” ha ogni priorità di fronte all’opinione pubblica. Inoltre, la stretta relazione tra economia e apparato industriale-militare è contrassegnata dal fatto che l’industria bellica opera in regime di monopolio, in quanto protetta dalla concorrenza straniera, dal punto di vista produttivo, e di regime di monopsonio (vale a dire diversi produttori, un solo acquirente, lo stato USA) per l’acquisto. Inoltre, proprio dovuta agli stretti rapporti tra multinazionali del settore bellico e gli apparati statali, i finanziamenti e i progetti industriali possono essere pianificati in archi temporali di decenni, e questi archi temporali richiedono l’idea di un nemico permanente. Quindi l’industria bellica tende ad attirare nella sua orbita le aziende più innovative, negli Stati Uniti, l’apparato industriale-militare include circa centomila aziende che occupano diversi milioni di lavoratori. Inoltre, le armi hanno, come qualsiasi merce, un valore di scambio, possono essere vendute nei circuiti internazionali senza i vincoli che il WTO applica alle altre merci, e un valore d’uso, possono intimidire gli avversari minacciando di usarle contro di loro, o un valore d’uso strettamente legato al loro utilizzo nel fare la guerra ai nemici.
Non si può disconoscere che il 15 agosto 1971 prese di fatto le mosse la transizione, che essendo la causa principale della crisi energetica della fine del 1973, cambiò già nel volgere di pochi anni il volto del mondo capitalistico. Se nel breve periodo, questo significò il brusco passaggio dal più lungo ciclo di crescita economica della storia (i “trenta gloriosi anni” del fordismo-keynesismo post bellico) alla instabilità e alle incertezze che dagli anni ‘70 hanno contrassegnato le bolle finanziarie dei decenni successivi.
Figura 3. Prezzo del greggio in dollari dal 1946 al 2016.
Per usare un’immagine semplice, ma a mio avviso efficace, possiamo dire che la conversione dollaro-oro non permetteva agli Stati Uniti lo status di potenza economica-militare per i costi enormi che questo ruolo implicava, solo sostituendo questa conversione con la più vantaggiosa conversione dollaro-petrolio, in quanto l’emissione di dollari avrebbe permesso il permanere della potenza USA come egemone a livello planetario. Conseguenza di ciò è stata una doppia emissione, quella massiccia di dollari e quella di emissioni di gas serra in termini di CO2, figure 1 e 3. Perché questo meccanismo di conversione dollaro-petrolio possa funzionare occorre preservare il signoraggio del dollaro che altre valute non hanno:
1) Stabilità di valore: sin dagli anni 80 la Federal Reserve (FED) è riuscita a mantenere livelli di inflazione bassi e stabili. 2) Liquidità: il mercato finanziario statunitense ed in particolare il Treasury market (il mercato dei titoli di Stato americani) è il più liquido al mondo e una delle ragioni è proprio la persistente preferenza del dollaro americano nel commercio internazionale. 3) Sicurezza: Nonostante l’oltraggioso debito, c’è una grande disponibilità di asset in dollari che sono considerati molto sicuri, un paradiso sicuro (safe heaven). 4) Lender of last resort (Prestatore di ultima istanza): la FED può fornire dollari durante i periodi di crisi attraverso la cosiddetta linea di swap con 14 banche centrali. Ciò vuol dire che fornisce dollari alle banche centrali straniere che a loro volta trasferiscono alle diverse banche nei periodi di crisi. [23]
Come detto, per mantenere attiva questa conversione dollaro-petrolio, gli Stati Uniti avrebbero dovuto preservare il signoraggio del dollaro controllando le fonti di petrolio. Se con l’URSS in vita questo non era particolarmente difficile, in quanto l’URSS esportatore netto di combustibili fossili aveva tutto il vantaggio di scambiare petrolio e gas per monete di riserva capitalistiche, con la fine della guerra fredda, il controllo delle risorse petrolifere ha generato diversi conflitti, Guerre del Golfo I (1991) e II (2003), destabilizzazioni di intere aree come il Medio Oriente critiche per l’estrazione del petrolio. Anche la guerra in Kossovo (1999) è legata a questo signoraggio. Fu un ammonimento all’Europa dell’Euro, la cui potenza economica poteva minacciare il signoraggio del dollaro con l’emissione di una moneta, l’Euro appunto, che poteva diventare valuta di riserva internazionale.
Inoltre, un altro punto importante, è che con la prima crisi petrolifera del 1973 e l’aumento del prezzo del petrolio, figura 3, di fatto le potenze economiche come l’Europa occidentale e il Giappone non erano più in grado di attuare politiche di stampo keynesiano che fino a quel momento, complice la crescita dell’economia post-bellica, avevano permesso di attuare una piena occupazione in un regime di inflazione contenuta. Il pagamento di una pesante bolletta energetica a partire quindi dai primi anni ’70 rendeva impossibile contenere l’inflazione, generando una inflazione di fondo che si sarebbe riverberata sull’aumento di un esercito industriale di riserva, sulla precarizzazione del lavoro e sul taglio progressivo della spesa sociale. Inoltre, l’aumento della bolletta energetica avrebbe acuito il solco tra le potenze economico-militari quali gli Stati Uniti e le potenze prettamente economiche come l’Europa (leggi Germania) e Giappone, economie prettamente neo-mercantiliste (soprattutto quella tedesca) votate all’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto (entrambe sia Germania che Giappone). Oggi la Cina è emersa come un ibrido rispetto a queste due forme di potenze, e in parte anche la Russia è una sorta di ibrido, potenza militare ed esportatore di combustibili fossili, petrolio e gas.
Dal punto di vista della finanza, l’emissione di dollari (e quindi l’aumento di emissioni serra di CO2) come contrasto alla caduta tendenziale del saggio di profitto genera la crescita di capitale fittizio e quindi la precarizzazione del lavoro. La profonda relazione tra la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione di capitali e le crisi economiche, implica che la sovrapproduzione di capitali, non trovando ambiti sufficientemente remunerativi nella produzione, vadano verso la speculazione, verso la creazione di ulteriore capitale fittizio, contribuendo alla formazione di bolle speculative il cui unico approdo è l’esplosione del sistema finanziario con tutte le ricadute, che sono sotto i nostri occhi, sull’economia reale. La caduta del saggio medio di profitto, almeno nella forma che ha prodotto la crisi che tuttora perdura, prende le mosse dalla seconda metà degli anni Settanta, quando il ciclo di crescita seguente alla Seconda Guerra Mondiale si esaurisce in Occidente, sebbene tra il 1982 e il 1998, i saggi di profitto nei Paesi di vecchia industrializzazione (Usa, Giappone, Francia, Inghilterra, Germania e Italia) siano aumentati, tuttavia non sono cresciuti a sufficienza rispetto al picco negativo degli inizi degli anni Ottanta. Infatti, quando si parla di legge della caduta del saggio di profitto viene indicata come tendenziale, ossia va osservata su periodi lunghi, all’interno dei quali si possono verificare fasi, più o meno lunghe, di recupero e di ricaduta, vale a dire fluttuazioni che, mediate, portano ad una caduta su periodi sufficientemente lunghi, indipendentemente dalla politiche di contrasto a questa caduta. Politiche di contrasto che come descritto, in genere, si possono sintetizzare in rilancio della domanda, indebitamento degli stati, e disoccupazione.
Ma alla caduta del saggio di profitto, va ad aggiungersi il dollaro come moneta privilegiata negli scambi internazionali, soprattutto quelli legati al petrolio. Infatti, nel percorso di vita del capitale fittizio, il capitale fittizio (finanziario) nasce come promessa di un pagamento, in beni o in moneta, come moneta il dollaro ha il ruolo privilegiato nel garantire i capitali, come ha detto Alan Greenspan “Gli Stati Uniti sono in grado di pagare tutti i debiti che hanno, perché noi possiamo sempre stampare i soldi per farlo. Quindi non esiste alcuna probabilità di default” [20]. Mentre una moneta è uno strumento di facilitazione degli scambi, una promessa di pagamento è più complessa e richiede anche fiducia nell’assolvere la promessa. Chi possiede una promessa di pagamento ha in genere due possibilità: incassare alla scadenza, oppure cercare possibili acquirenti alla propria promessa di pagamento tra coloro che hanno moneta accumulata a sua volta dal ciclo classico delle merci. L’acquisto trasforma quindi la promessa in moneta e quindi in capitale. Il titolo così acquistato può di nuovo essere prestato o venduto di nuovo, e produrre una nuova promessa di pagamento che è derivata dalla prima, da cui il nome di derivati. Oggi, nel mondo si stima una massa di derivati di oltre 640 mila miliardi di dollari, pari a più di 10 volte il PIL mondiale [24]. La nuova promessa può essere messa in vendita un’altra volta e il ciclo continua come in una catena di Sant’ Antonio. All’inizio di questo ciclo il capitale finanziario assume una vita propria completamente distaccata dal bene o servizio da cui era partita ed assume un proprio mercato. Nel 2007-08, qualcuna di queste promessa ha vacillato ed ha innescato la crisi che conosciamo. Questi meccanismi, in quanto legati alla finanza fittizia invece che all’economia reale, sono difficilmente scardinabili, gli USA possono stampare tutti i dollari he vogliono (per esempio, La Fed ha progressivamente aumentato la base monetaria degli USA, fino al fenomenale balzo di 905.176 milioni di dollari dell’Ottobre 2008 che ha permesso di raggiungere nell’Aprile 2012 i 2.646.537 milioni di dollari, con un incremento del 292 per cento [20]) ma anche inglobare i debiti privati nei debiti sovrani, in questo modo si compie l’operazione di associare ad un debito di carta straccia le ricchezze possedute da quel paese che si accolla i debiti privati.
Il capitalismo moderno, in modo particolare dagli anni Novanta in poi, è stato costretto a mettere in atto, dilazionando nel tempo la deflagrazione delle sue contraddizioni che, ben lungi dall’essere superate, si sono ripresentate virulente, mettendo sul lastrico milioni di lavoratori, bruciando in poche settimane miliardi di capitale fittizio, creando le condizioni per l’emergere di tensioni sociali e del rischio di ulteriori guerre per la conquista dei mercati fondamentali, da quello della materie prime a quello energetico, da quello finanziario a quelli della forza lavoro a basso prezzo. In tuti questi decenni, i combustibili fossili hanno alimentato il motore dell’economia mondiale e le emissioni di CO2 sono schizzate via senza controllo.
Alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, quando il capitalismo statunitense prima, seguito dalle altre economie del G7 poi, si è trovato nella pesante e pressante situazione di fare i conti con un saggio del profitto che era sceso di oltre il 50%, ha reagito mettendo in atto una serie di misure che avevano lo scopo di opporsi a quello che sembrava essere, ed era, una sorta di cancro che metteva in seria difficoltà i meccanismi di estrazione del plusvalore e, quindi, della valorizzazione del capitale. Un così basso saggio del profitto, infatti, non solo rendeva sempre più difficoltosa la profittabilità dei capitali nell’economia reale; non soltanto restringeva i margini di profitto per ogni fase di produzione; rendeva altresì problematico il processo di accumulazione, favorendo una sovrapproduzione di capitali che non trovando margini di profittabilità sufficienti nell’ambito della produzione, si videro costretti a prendere la strada della speculazione. Quindi è la crisi da caduta del saggio medio del(di) profitto che ha posto in essere le “necessarie” risposte del capitale. Non a caso il cosiddetto neoliberismo nasce in quegli anni; la deregulation, che ne è stata la spina dorsale, non ha fatto altro che accompagnarne il cammino sulla rotta del tentativo di recupero del “profitto perduto” sulla scorta di tre grandi direttrici che hanno legato i processi di finanziarizzazione con i processi di precarizzazione e di massacro dell’ambiente naturale: 1) attacco alla forza lavoro sul salario diretto, indiretto, sui contratti, sui ritmi e sull’intensità di sfruttamento; 2) decentramento produttivo verso le aree dove il costo della forza lavoro è minore sino a 10-15 volte; 3) finanziarizzazione della crisi. Quindi questi meccanismi di precarizzazione del lavoro e di crescita del capitale fittizio sono aumentati di pari passo al monopolio dell’utilizzo dei combustibili fossili nel crescente consumo energetico dell’economia mondiale e al conseguente aumento delle emissioni serra di CO2.
Nel primo caso, complice una quasi inesistente risposta da parte dei lavoratori, il capitale ha avuto buon gioco nel mettere in campo una serie di pesanti misure atte a tentare di riguadagnare margini di profitto. Sul terreno del salario diretto ha posto in essere un contenimento dei salari bloccandoli di fatto per un ventennio. Alle soglie del 2000 i salari reali, cioè il loro potere d’acquisto, erano rimasti quelli degli anni Settanta, nonostante l’incremento della produttività del lavoro.
I contratti a termine hanno fatto il resto. Per il capitale non era più possibile mantenere gli stessi livelli di occupazione anche quando la profittabilità del capitale era in diminuzione o nulla. Per cui si sono proposti contratti che avessero lo scopo di usufruire della forza lavoro quando esistevano i termini economici di una buona estrazione di plusvalore, e di allontanarla automaticamente quando queste condizioni venivano meno o erano pressoché inesistenti. Sul salario indiretto ha operato attraverso un progressivo smantellamento dello Stato sociale, tagliando su pensioni, sanità e scuola, ovvero su quegli ‘oneri passivi’ per il capitale che erano – e sono – sempre meno compatibili con la crisi dei profitti. Il che ha rappresentato un recupero, anche se modesto, del saggio del profitto, accentuando la forbice tra profitti e salari come mai era accaduto nei decenni precedenti.
Proposte alternative, decrescita, beni comuni.
Le alternative alla crisi climatica e ambientale hanno trovato negli ultimi anni due tipi di risposta. Quella della decrescita e quella dei beni comuni, in parte queste due proposte si sovrappongono a seconda dei soggetti che le sostengono. Entrambe queste proposte stanno all’interno della logica del realismo capitalista cioè non mettono in discussione il sistema di produzione e i rapporti di produzione all’interno del capitale. Si limitano genericamente a indicare una strada che principalmente limita il consumo come la decrescita, in quanto qualsiasi azione altera il sistema ecologico, o la messa in comune di beni e servizi dimenticando spesso l’universalità di questi beni. Nel caso della decrescita, risparmio la critica all’utilizzo di concetti come quello di decrescita utilizzato in modo astratto e senza i vincoli storici, mi interessa qui far notare che, senza una contestazione dei fondamenti del capitale e dei rapporti di produzione, il concetto di decrescita non ha alcun significato e resta un contenitore vuoto o semi vuoto che chiunque può riempire a suo piacimento. Una critica analoga può essere riservata al concetto di beni comuni. Quella dei beni comuni, almeno nell’utilizzo di vari gruppi politici che ne hanno fatto recentemente, è un’etichetta meramente decorativa, come è avvenuto con l’aggettivo “sostenibile”, inventato dall’ambientalismo profondo e poi divenuto una qualifica che non si nega neppure all’insostenibile. Il rischio concreto è che quella dei beni comuni diventi l’ennesima retorica, buona per tutti e per nessuno. Sebbene si accetti che le risorse siano finite e che, come per i decrescisti, una crescita continua sia impossibile, le possibili risposte avanzate del benicomunismo sfociano in uno statalismo astratto svuotato di significato dimenticando che, come ci segnala Marx, la peculiare forma di proprietà capitalistica si dà non come mero possesso di cose mobili o immobili, ma come potere sul lavoro altrui, e che «la ricchezza odierna poggia sul furto del tempo di lavoro altrui» [9].
Altre posizioni critiche, che qui non è il caso di analizzare dettagliatamente perché ci interessa una loro critica sintetica (per un approfondimento si rimanda a [25]) assolvono il capitalismo, in quanto il sistema capitalista viene ad essere, in queste critiche, sostituito genericamente da un sistema tecnico in quanto non è più il lavoro a creare valore ma la tecnica. Secondo queste tesi, la tecnica ha dissolto le strutture sociali tradizionali, sia le strutture sociali dei lavoratori sia quelle dei capitalisti. Un’altra corrente di pensiero che evita di chiamare in causa il capitalismo è quella che possiamo inglobare nel termine di collassologia, o fatalismo del collasso [25]. Secondo questa visione, ormai non è più possibile porre rimedi al disastro ambientale. Sebbene questa visione del collasso, a partire dal quale sarebbe possibile costruire un mondo nuovo eco-compatibile, non muova una critica al modo di produzione corrente, ricorda per certi aspetti la Teoria del Crollo, teoria molto forte nel movimento marxista degli anni ’30, e che aveva invece una base di analisi più consolidata, in quanto giustificata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto.
La comune questione delle proposte alternative può essere sintetizzata dalla seguente domanda: Se non poniamo al centro della discussione il modo di produzione capitalista, sono possibili transizioni ampie (scala planetaria) e rapide (un decennio o due) in un’economia di mercato? Ovviamente la risposta è no, questo perché il modo di produzione capitalista è un meccanismo indipendente anche dai soggetti che ne godono i maggiori privilegi essendo questi agiti dal meccanismo del capitalismo stesso.
Centralità della questione di classe. Transizione ecologica o transizione al socialismo?
In realtà ciò di cui abbiamo bisogno è un radicale piano anticapitalista e internazionalista. Un piano di stampo socialista che preveda il controllo dei mezzi di produzione da parte della collettività, che avvii una radicale transizione volta a trasformare la produzione per il profitto con la produzione per i bisogni reali in senso ecologico. Cosa fare e come farlo è il punto da mettere al centro dell’analisi e dell’attività politica. E la domanda che ne consegue è: chi può avviare questa transizione? Quale soggetto sociale è oggi l’avanguardia in grado di porre la questione dell’ambiente come una componente strutturale della contraddizione capitale-lavoro? Non certo gli attuali sindacati, che allineati all’inevitabilità del capitalismo si aggrappano ancora all’idea illusoria che occupazione e salari migliorano se si rilancia l’accumulazione capitalista. Lo abbiamo visto anche con la pandemia di Covid-19, chiudere le persone in casa, ha significato chiudere in casa lavoratori e consumatori, che nell’attuale sistema coincidono, il risultato è stato un miglioramento generale dell’ambiente, meno emissioni di gas serra, da un lato e la caduta brusca dei consumi dall’altro. La preoccupazione della caduta dei consumi e di tutti gli indicatori economici hanno subito avuto il sopravvento sulla salutare risposta dell’ambiente ai lockdown planetari.
Se il capitalismo è il protagonista dei cambiamenti climatici dobbiamo porci la questione di un suo superamento, dobbiamo iniziare a porre la questione della transizione al socialismo. Il socialismo del XXI secolo sarà lungo una traiettoria ecologista o non sarà. Le grandi proteste dei FFF hanno posto principalmente l’accento sulle emissioni di CO2, tralasciando il ruolo dell’impronta ecologica e dell’esaurirsi delle risorse dominate da un modo di produzione irrazionale che si giustifica solo attraverso il feticcio del mercato. E’ necessario invece che la popolazione più avveduta e accorta che è scesa in piazza analizzi l’ambiente e il suo progressivo degrado quale risultato della contraddizione capitale-lavoro.
La costruzione del socialismo quale superamento di questa contraddizione, ha due grandi vincoli a cui porre grande attenzione, vale a dire: 1) il controllo collettivo dei mezzi di produzione e 2) il superamento del concetto di mercato e del denaro come lo conosciamo oggi. In una parola, dovremo pensare ad un sistema di economia pianificata in cui è un’intelligenza collettiva che decide cosa produrre per chi produrla e con quali mezzi. Se l’attualità di Marx nel mostrarci le dinamiche del capitale è incontrovertibile, dovremmo anche recuperare quello che io definisco il “marxismo applicato” cioè i modelli di pianificazione, ad esempio, sovietici che di fatto rappresentano il più grande esperimento di pianificazione dell’economia, quale strumento di realizzazione dei bisogni reali, di sviluppo di un’economia non dominata dal mercato, che non a caso aveva come imperativo l’ottimizzazione delle risorse. Analogamente alle soluzione ecologiche trovate a Cuba per sopravvivere a poche miglia dalla potenza imperialista più grande al mondo. Certo il fallimento dell’URSS nulla toglie all’attualità di quei modelli di pianificazione, basti pensare che le economie mercantili dominate dal capitale, in occasioni speciali pianificano, per esempio durante le guerre, perché i sistemi pianificati sono molto più efficienti ed efficaci. Un piccolo assaggio lo abbiamo avuto proprio con la crisi del Covid-19, in cui centralizzazione delle decisioni è stato uno dei fattori di pianificazione di scelta in termini di contrasto all’avanzare della pandemia.
Il messaggio di Greta Thunberg che ha avuto grande presa soprattutto nel mondo giovane in diversi angoli del pianeta è semplice e diretto, si tratta di una denuncia del sistema attuale che non cede a compromessi e che ha utilizzato due strumenti tipici del movimento del lavoro, vale a dire lo sciopero di massa e la piazza. Nell’ultimo decennio anche il movimento femminista internazionale ha posto all’attenzione il fatto che lo sfruttamento della donna è spesso un doppio sfruttamento, dal capitale, da una parte, e di genere, dall’altro, in quanto i lavori domestici e di cura ricadono quasi sempre sulle donne, anche in questo caso la lotta si è riappropriata dello sciopero e della piazza, oltre ovviamente ai social networks e a tutti gli strumenti digitali a disposizione. Il punto è convogliare questa grande energia messa in campo dal movimento FFF e delle donne con gli strumenti di analisi e di lotta del movimento dei lavoratori del secolo precedente verso il socialismo, attualizzato alle sfide nel contesto corrente. Sarà importante che i movimenti scesi in piazza mantengano solidità e coerenza e non si facciano inglobare dal(le) svariate forme con cui il capitalismo assorbe la critica ad esso, ma che invece porti una critica radicale al modo di produzione capitalista e che si metta al centro la transizione verso una produzione legata ai bisogni reali. Sarà inoltre fondamentale unire la lotta per l’ambiente alla questione del lavoro che ne è uno specchio, i processi di aggressione e di rapina delle risorse ambientali e naturali sono solo l’altra faccia dello sfruttamento della forza-lavoro. Diritti, lavoro dignitoso, stipendi adeguati, sia nei salari diretti che nei salari indiretti (welfare) vanno di pari passo con la tutela delle risorse naturali. Infine, lo strumento della democrazia deve essere praticato per allargare la critica e la discussione su come avviare la transizione verso il socialismo in senso ecologico attraverso una elaborazione collettiva, un dibattito aperto e la rappresentanza attraverso delegati eletti e revocabili a tutti i livelli e in ogni momento.
Se non è l’emergenza ambientale a farci mettere al centro della discussione e dell’azione politica il socialismo e la pianificazione cosa può farlo?
Bibliografia
[2] G. Wagner, Project Syndicate, 18/03/2020, bit.ly/37Lrmmi, sito visitato l’11 Gennaio 2021.
[3] D. Quammen, Spillover, Adelphi, 2013.
[4] E. Pedemonte, Limes 12/2020, pp. 33-40.
[5] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it sito visitato il 27 Marzo 2021.
[6] https://www.blackrock.com/ch/individual/en/themes/sustainable-investing/esg-integration, sito visitato il 19 Marzo 2021
[7] L.A. Pereira de Silva, P. Bolton, M. Desprès, F. Samama e R. Svartzman Cigno verde. Cambiamenti climatici e stabilità del sistema finanziario: quale ruolo per banche centrali, regolatori e supervisori scaricabile su https://www.researchgate.net/publication/340578881_The_green_swan_Central_banking_and_financial_stability_in_the_age_of_climate_change
[8] Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene!, a cura di Andrea Parlangeli, Mondadori, 2005
[9] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, 2017
[10] M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero editore, 2018.
[11] R. Passaro, Food Action, https://webthesis.biblio.polito.it/6711/1/tesi.pdf
[12] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, 1994.
[13] K. Marx, Gründisse, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, https://www.sitocomunista.it/marxismo/Marx/grundrisse/grundrisse_indice.html
[14] V. Giacchè, Il Capitalismo e la crisi. Scritti scelti di K. Marx, Derive e Approdi, 2009.
[15] M. Correggia, https://altreconomia.it/anche-la-guerra-e-nemica-del-clima/
[16] G. Carchedi, http://www.antiper.org/2017/03/15/carchedi-tmp-coc-usa/
[17] D. Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, 2015.
[18] Lenin, L’imperialismo fase superiore del capitalismo, La Città del Sole, 2020.
[19] http://www.marx21.it/index.php/internazionale/economia/26008-stagnazione-secolare-o-caduta-tendenziale-del-saggio-di-profitto# sito visitato 17 Marzo 2021
[20] G. Bellini, La bolla del dollaro, Odradek, 2013
[21] D. Basosi, Alle radici della rivoluzione neoliberista, Nixon e l’abbandono di Bretton Woods, Italiua contemporanea, n. 239-240, pp.275-301, 2005
[22] V. Giacchè, in Escalation, Anatomia della guerra infinita, a cura di Dinucci, Giacchè, Burgio, Derive e Approdi, 2005.
[23] M. Girardi, https://www.invenicement.com/blog/il-dollaro-americano-la-valuta-piu-pontente-del-mondo/ sito visitato il 18 Marzo 2021.
[25] D. Tanuro, E’ troppo tardi per essere pessimisti, Alegre editore, 2020.
Nota.
Il presente saggio rielabora il mio intervento di conclusione al seminario su Capitalismo e cambiamenti climatici, tenutosi a Lari (Pisa), il 1 Marzo 2020. Nel frattempo la pandemia di Covid-19 ha richiesto una rielaborazione aggiuntiva.
Foto di Axel Holen