Il nuovissimo libro di Pietro Ratto, che svela il meccanismo delle “porte girevoli”, attraverso il quale la capacità di discernere le differenze tra pubblico e privato, tra interessi collettivi ed individuali, diventa sempre più labile.
“Lobbying”. Da “Loggia”, ovvero il porticato anticamente utilizzato come sala d’aspetto, per attendere di essere ricevuti dal Signore locale. A partire dal secolo XVIII, tale termine è stato anche utilizzato per riferirsi alle Logge Massoniche.
Ma che cosa intendiamo, oggi, per lobbying? Si tratta, in sostanza, di vere e proprie attività professionali, esercitate formalmente da società specializzate, ma anche informalmente da gruppi di interesse, “think tanks” ed organizzazioni internazionali, per influenzare quello che dovrebbe essere il democratico processo legiferativo ed esecutivo di ogni Stato, ente o struttura le cui decisioni ricadono sulla vita di interi popoli. Ogni lobbista ha i propri uomini politici di riferimento, così come ogni politico si tiene ben stretto il suo esercito di lobbisti. I lobbisti sono ricompensati con montagne di denaro, i politici tramite la metodologia delle “porte girevoli”, che permette loro di proseguire la loro carriera in grandi aziende e società multinazionali, magari proprio le stesse favorite durante il proprio percorso all’interno di quelle istituzioni che, teoricamente, dovrebbero essere democratiche.
“Lobbying”. Di tale attività, sembra che non se ne possa proprio più fare a meno. E questo da moltissimo tempo. Esistono, tuttavia, attività di lobbying e attività di lobbying. Storicamente, infatti, tali pratiche sono state utilizzate per tutelare gli interessi delle minoranze, dei più deboli, dei meno favoriti, dei popoli. Il lobbismo odierno, invece, ha finalità diametralmente opposte: la tutela degli interessi dei più forti, dei più ricchi, dei pochi a discapito dei molti. E questo ormai avviene in qualsiasi settore, e coinvolge schieramenti politici sia di destra che di sinistra. Il Dio denaro, del resto, non discrimina nessuno. Chiunque può essere suo amico, nella misura in cui è disposto ad inchinarsi al suo cospetto.
USA ed Europa
L’attività di lobbying è sicuramente preponderante negli Stati Uniti d’America. Un esempio eclatante è quello offerto dalla “Ricchetti Inc.”, in mano al lobbista Jeff Ricchetti, il cui fratello Steve è stato vice Capo Staff di Clinton dal 1998 al 2001, e ricopre oggi la carica di Consigliere del Presidente Joe Biden, al quale i due fratelli sono molto vicini. La Ricchetti Inc. è specializzata nel ramo sanitario ed assicurativo. La società ha ricevuto, nel corso dell’anno 2020: $60.000 da Amazon, “per bloccare la Inform Consumer Act”, che permetterebbe di identificare l’identità dei venditori “in nome della trasparenza, impedendo così alle organizzazioni criminali di vendere al dettaglio merci contraffatte o pericolose per la salute”; $30.000 da Evofem Biosciences, $80.000 da Eagle Pharmaceuticals; $50.000 da Neurocrine Biosciences; $50.000 da Vaxart, “per ingraziarsi i favori del Congresso nei confronti del suo vaccino orale anti Covid 19”; $130.000 da Horizon Therapeutics, “interessata a contrastare a tutti i costi l’iniziativa Medicaid (…), tesa ad impedire alle farmaceutiche l’arbitrario e consueto aumento del prezzo dei loro articoli…”; $80.000 da GlaxoSmithKline (GSK), “offerti proprio per contrastare qualsiasi legge che ponga un freno al continuo aumento dei prezzi dei medicinali”. Soldi sborsati dalle più grandi multinazionali del pianeta, per vedere i propri interessi tutelati all’interno del Congresso americano. E non sono da meno, ad esempio, i fratelli Podesta, fondatori nel lontano 1988 della famosissima società di lobbying “Podesta Group”, ufficialmente chiusa nel 2017. In quell’anno, la società, specializzata nel ramo bancario e militare, ha ricevuto: $330.000 dalla Bank of Montreal; $220.000 da British Petroleum; $150.000 da Credit Suisse; $260.000 da Philip Morris; $300.000 da Walmart; $440.000 da BAE Systems, società inglese del settore aerospaziale e della difesa; $500.000 dalla Lockheed Martin, produttrice assieme alla Leonardo degli F35 utilizzati dall’Aeronautica Militare e dalla Marina Militare italiana; $260.000 dalla Nestlé; $550.000 dalla Wells Fargo, grande multinazionale di servizi finanziari la quale, nel 2008, ha acquisito la Wachovia, istituto banco-finanziario colpevole di aver favorito il riciclaggio di $378 miliardi provenienti dal traffico di droga, uscendone per altro illeso e versando nelle casse del governo americano circa $160 milioni, pari al 2% del Pil annuale.
John Podesta, fratello del lobbista Tony ed ex Capo di Stato Maggiore sotto la seconda Amministrazione Clinton, anche molto vicino a Barack Obama, ha fondato nel 2003 il Center for American Progress, “istituto politico bipartisan indipendente dedicato a migliorare le vite di tutti gli americani”; lo stesso istituto che, a gennaio, ha pubblicato uno studio intitolato “NATO’s Financing Gap – Why NATO should create its own bank”, facilmente consultabile presso il sito dello stesso think tank e scritto da Max Bergmann e Siena Cicarelli, nel quale viene paventata l’idea della creazione di una banca targata NATO, volta a finanziare i Paesi alleati incapaci di far fronte all’aumento delle future spese militari, richieste dalla stessa Organizzazione Atlantica. Presidente del Center for American Progress è Neera Tanden, nominata Direttore dell’Ufficio Gestione e Bilancio della Casa Bianca da Joe Biden.
Il neo-eletto Presidente USA può contare fedelmente sulla sua cerchia di lobbisti, come lo poteva fare Trump, attorno al quale ne ruotavano più di 3.000, tra cui Brian Ballard, della Ballard Partners, e Jeff Miller. Il tycoon americano “ha incassato, per la sua campagna elettorale del 2020, $35.5 milioni da BlackStone, di cui Jacob Rothschild è grande azionista, e addirittura $60 milioni da Timothy Mellon, nipote del grande banchiere Andrew Mellon, fondatore nel 1869 della potentissima Mellon Bank”.
Non che in Europa le cose vadano meglio, anzi. Il Corporate Europe Observatory (CEO), un gruppo di ricerca “al lavoro per esporre e sfidare l’accesso privilegiato e l’influenza di cui godono le corporations ed i loro gruppi lobbistici all’interno del processo decisionale politico dell’Unione Europea”, ha istituto nel 2005 gli Worst EU Lobbying Awards, un ironico premio assegnato alle peggiori performance di lobbying dell’anno di società, personaggi politici, gruppi lobbistici. Vinto da Exxonmobil, Porsche, BMW, Abengoa Energy, Piia-Noora Kauppi, Monsanto, Shell e American Petroleum Institute, esso non è più stato riproposto dal 2010, quando la medaglia d’oro è stata assegnata alla Goldman Sachs, finita al primo posto davanti alla Royal Bank of Scotland ed alla società di lobbying International Swaps and Derivatives Association, l’ISDA.
Mario Draghi
La Goldman Sachs, sì. La stessa Goldman Sachs di cui Mario Draghi, attuale Presidente del Consiglio italiano, è stato advisor, managing director e vicepresidente dal 2002 al 2005. La stessa Goldman Sachs che pare abbia truccato i conti della Grecia per permetterle di rispettare i parametri per l’idoneità all’ingresso nell’Euro. Il Paese ellenico venne messo in ginocchio nel 2015 proprio dal nuovo Primo Ministro italiano, allora Presidente della BCE, il quale decise di sospendere la cosiddetta “esenzione” alle banche greche prima, e di mantenere inalterato il livello massimo stabilito per il programma ELA poi. Insomma, Draghi ed il Consiglio Direttivo della BCE decisero di “chiudere i rubinetti” alle banche greche. Il risultato? Dal 28 giugno al 20 luglio 2015, i greci non ebbero la possibilità di accedere formalmente ai propri conti. Non solo. La BCE forma, insieme alla Commissione Europea ed al Fondo Monetario Internazionale, la cosiddetta “Troika”, colpevole di aver messo in ginocchio lo stesso popolo greco negli ultimi anni, a colpi di riforme, tagli alla spesa pubblica, aumento della tassazione, privatizzazioni. A seguito dei brutali tagli alla spesa pubblica per la sanità, la mortalità infantile nei primi mesi di vita dei bambini è aumentata del 43%.
Nella continuazione del suo ruolo come Presidente della BCE, Mario Draghi ha affidato, nel 2016, la supervisione degli stress test ad una delle più grandi società di investimento al mondo, BlackRock. Situazione, questa, che ha palesato immediatamente l’enorme conflitto di interessi di una società che, avendo in gestione circa $8.000 miliardi, ha dovuto verificare la stabilità finanziaria delle stesse banche di cui era, ed è, azionista. L’8 aprile 2020, la Commissione europea ha affidato a BlackRock la consulenza per decidere i criteri di sostenibilità ambientale per le banche. Come scrive Pietro Ratto nel suo libro, in sostanza, “il compito di BlackRock è quello di indicare la via per una transizione dei finanziamenti europei verso una economia sempre più a favore dell’ambiente”. La Commissione Europa, però, si è evidentemente dimenticata che la stessa società “detiene $87.3 miliardi in azioni di società petrolifere e del gas, e $2.5 miliardi in quote di multinazionali direttamente responsabili del processo di deforestazione in Amazzonia. Le sue partecipazioni sono state quantificate (dal CEO, ndr), in 9,5 gigatonnellate di emissioni di anidride carbonica”. E, di nuovo, BlackRock è grande azionista delle più importanti banche europee, le quali hanno investimenti attivi nel mondo dei combustibili fossili, come Deutsche bank, BNP Paribas, e ING.
La stessa BCE, tramite le operazioni di Quantitative Easing, ha continuato ad investire in azioni di società che prosperano sui combustibili fossili. Acquistando immense quantità di “corporate bonds”, la BCE ha sostenuto di fatto società come BMW, Daimler, Volkswagen, Repsol, Eni, Atlantia, Auto Routes du Sud de la France. Nel 2017, proprio Mario Draghi, su esplicita richiesta di 41 parlamentari europei, si è rifiutato di rivelare nel dettaglio gli importi investiti dalla BCE in bonds di specifiche società.
1992
L’anno più drammatico della storia della nostra Repubblica, probabilmente. Come scrive l’autore: “Insomma, quel 1992 era stato un anno da dimenticare. O, invece, da tenere presente il più possibile. Da studiare e ricordare nei dettagli, così da capire un po’ meglio il presente”.
Tutto è iniziato con la sentenza del Maxiprocesso, quel 30 gennaio. Un totale di 2.665 anni di carcere per mafia, con gli ergastoli di Greco, Riina, Provenzano…. Poi la firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio, lo scoppio di Tangentopoli, l’omicidio di Salvo Lima, la terribile Strage di Capaci, proprio nei giorni in cui si teneva la riunione del Gruppo Bilderberg a Evian-les-Bains, in Francia. Dieci giorni dopo, la riunione sul Britannia, il 2 giugno; la stessa riunione che ha avuto come conseguenza la graduale privatizzazione del 48% delle aziende italiane. Quel 1992 rappresenta un cambio totale dal punto di vista del modello economico per il Bel Paese: arriva “il libero mercato” washingtoniano e londinese, che negli anni successivi si sarebbe preso tutto, ed è ancora ben operante. Mario Draghi, quel 2 giugno, era presente più che mai, in veste di Segretario Generale del Ministero del Tesoro italiano. Egli era assolutamente consapevole dei “possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione”, la quale sarebbe potuta “aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza”, e del fatto che era proprio la “privatizzazione ad essere percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche”; l’allora Direttore Generale del Tesoro non si è dimenticato di ricordare che i mercati vedevano “le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi”. A bordo del Panfilo, quel giorno, vi erano “Prodi, Amato, Bernabé, Andreatta, Riccardo Galli dell’IRI, il Presidente di Banca Warburg Herman van der Wyck, il direttore generale di Confindustria Innocenzo Cipolletta, il Presidente di Ina Assitalia Lorenzo Pallesi, il direttore esecutivo di Barclays de Zoete Wedd Jeremy Seddon, il presidente di Banco Antonveneto Bazoli, il Presidente di ENI Cagliari, il presidente del Comitato scientifico-consultivo sulla Gestione del debito pubblico Spaventa, il faccendiere Leon Brittan (anch’egli presente alla riunione del Bilderberg qualche giorno prima, ndr), il presidente di Crediop Antonio Pedone”. Ma, quel giorno, a bordo dello Yacht della Corona inglese vi era anche Mario Monti, allora “nel CdA di Comit, la grande Banca Commerciale Italiana che aveva appena acquisito la Banca Sicula, da poco finita nel mirino del commissario di polizia Calogero Germanà e della Commissione Parlamentare Antimafia, col sospetto di fungere da strumento di riciclaggio di Cosa Nostra. Una banca, la Sicula, di proprietà della famiglia D’Alì, nelle mani di quell’Antonio D’Alì jr. – figlio del piduista Antonio D’Alì senior – che, di lì a poco, sarebbe stato tra i fondatori di Forza Italia per poi essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa”. Lo stesso Monti aveva partecipato, qualche giorno prima, proprio alla riunione del Gruppo Bilderberg di cui sopra, insieme a Giovanni Agnelli, oltre che al “giornalista de La Stampa Sergio Romano, l’ex ministro per il Commercio Estero, anche membro dei CdA di Fiat SpA e Citigroup, e il vicepresidente della divisione affari internazionali di Fiat SpA e capo delle attività dello stesso gruppo in URSS Paolo Zannoni. Con un piede in Goldman Sachs”.
Il giorno dopo, il 3 giugno, Guido Carli, negoziatore e firmatario del Trattato di Maastricht, sosteneva con fermezza, tramite il quotidiano La Repubblica, la necessità di “colpire pensioni e salari, puntare alla crescita zero dei dipendenti pubblici e privatizzare”.
Quell’anno terribile è poi andato avanti, con la manovra economica da 30 miliardi del 5 luglio, il decreto di privatizzazione di ENEL, INA, IRI ed ENI, il prelievo forzoso del Governo Amato del 6 per mille tra il 9 ed il 10 luglio, lo scioglimento della terza finanziaria dello Stato, l’EFIM. Il 19 luglio, invece, dopo il giudice Falcone, a saltare in aria toccava anche al collega e amico Paolo Borsellino: “Due delitti che andrebbero forse meglio ridefiniti, in un contesto come quello del 1992, anche alla luce delle ‘fastidiose’ indagini che i due coraggiosi magistrati stavano ormai conducendo, sui flussi internazionali di denaro sporco che collegavano la mafia ai grandi circuiti finanziari nazionali e internazionali. Quegli stessi circuiti che, in qualche caso, è possibile che fossero gli stessi particolarmente interessati al processo di privatizzazione stabilito per l’Italia”.
Del resto, durante l’ultima intervista di ANTIMAFIADuemila all’ex giudice Carlo Palermo, sopravvissuto alla strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985, nella quale persero la vita Barbara Rizzo ed i figli Salvatore e Giuseppe Asta, alla domanda dell’intervistatore, Pier Giorgio Caria, “Falcone dove stava arrivando, quindi?”, la risposta dell’ex magistrato, oggi avvocato, è secca: “Esattamente a Rockefeller”. Lo stesso Rockefeller fondatore del Gruppo Bilderberg, assieme al sacerdote gesuita Josef Retinger e all’ex agente segreto per conto delle SS naziste Bernhard van Lippe Biesterfeld, oltre che ex Principe consorte dei Paesi Bassi dal 1948 al 1980. Lo stesso Rockefeller fondatore della Commissione Trilaterale, assieme a Zbigniew Brzezinski e a Henry Kissinger; promotore della fondazione del Gruppo dei 30, di cui Mario Draghi fa oggi parte. David Rockefeller, magnate del mondo bancario e della finanza, morto nel 2017 all’età di 101 anni.
G30 e l’Ombudsman
Il G30, la più importante lobby di banchieri, economisti ed accademici al mondo. Finita per ben due volte tra le grinfie dei coraggiosi ragazzi del Corporate Europe Observatory (CEO), di cui sopra, così come sulla scrivania dell’Ombudsman europeo, il cosiddetto “mediatore”, che ha il compito di indagare sulle denunce relative a casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o di altri organi dell’UE. Entrambe le volte, i fascicoli portavano il nome di Mario Draghi. Per il CEO, infatti, l’appartenenza di Draghi al G30 rappresentava un palese conflitto di interessi, in quanto tale organismo “esercita un impatto sulla struttura attuale e futura del sistema finanziario globale, fornendo raccomandazioni attuabili, direttamente alle comunità politiche pubbliche e private”. Il G30, oggi, include, tra gli altri, Jacob Frenkel, ex Governatore della Banca Centrale d’Israele ed ex Presidente della JPMorgan Chase International, Jean Claude Trichet, ex Presidente della BCE, Mark Carney, ex Governatore della Bank of England, Agustin Cartens, General Manager della Banca dei Regolamenti Internazionali ed ex Governatore del Banco de México, William Dudley, ex Presidente della Federal Reserve Bank di New York, Timothy Geithner, ex Segretario del Tesoro USA e Presidente della Warburg Pincus, Paul Krugman, Lawrence Summers, ex Segretario del Tesoro USA, Tidjane Thiam, ex CEO di Credit Suisse, Adair Turner, ex Presidente della Financial Services Authority, Mervyn King, Membro della House of lords ed ex Governatore della Bank of England, Jacques de Larosière, ex Direttore del Fondo Monetario Internazionale e, appunto, Mario Draghi, la cui carriera è ben nota.
Caso 1339/2012: il CEO denuncia l’appartenenza di Mario Draghi, allora Presidente della BCE, all’Ombudsman Nikiforos Diamandouros. La motivazione è semplice. La sua appartenenza al G30 entra in contrasto con l’articolo 130 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il quale recita: “Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo”. I ragazzi del CEO, infatti, in quell’occasione hanno sottolineato che “le decisioni importanti riguardanti leadership, appartenenza e politiche del G30” vengono prese “dal suo Consiglio di fondazione, composto da otto membri di cui ben cinque lavoravano per il settore finanziario privato”; insomma, “una circostanza che dimostrava, con la massima evidenza, come il Gruppo dei trenta fosse un’iniziativa promossa dal settore finanziario privato”. Esempio eclatante è stato, secondo il CEO, la stesura di un documento, avente come tema la deregolamentazione dei derivati, ad opera di rappresentanti di JPMorgan, BNP Paribas, Morgan Stanley, e l’ISDA. Quest’ultima società di lobbying, la quale a detta sua “promuove mercati dei derivati sicuri ed efficienti per facilitare una gestione del rischio efficiente per tutti gli utilizzatori dei prodotti derivati”, rappresenta banche ed operatori finanziari come Bridgewater Associates, Unicredit, Goldman Sachs, Credit Suisse, Edmond de Rotschild, Generali, Intesa San Paolo, Deutsche Bank, BlackRock, JPMorgan, BNP Paribas, Barclays, Bank of America, Wells Fargo, Banca d’Italia, Citigroup, solo per citarne alcune. Essa, “grazie alle forti pressioni esercitate durante l’estate (di quel 2010) sui membri del gruppo di esperti appositamente creato dalla Commissione Europea – e denominato Derivatives Expert Group – era riuscita a piazzare ben 29 dei “suoi uomini” tra i 44 membri nominati nella Commissione”. Quest’ultima, il 15 settembre 2010, “elaborava una proposta che, secondo il CEO, si guardava bene dal proibire “i prodotti più pericolosi”, risultando di nuovo viziata da una “logica di autoregolamentazione” che contempla “stanze di compensazione private che appartengono agli stessi attori del mercato” grazie a cui “uno Stato membro non avrà più il diritto di proibire, a livello nazionale, i prodotti nocivi” “. Un dato su tutti dovrebbe far riflettere: oltre ad essere una delle cause principali dell’instabilità finanziaria mondiale, i prodotti derivati hanno oggi raggiunto, a livello globale, una massa di circa €2,2 milioni di miliardi, come riportato da un articolo de Il Sole 24 Ore. Una cifra inimmaginabile, alla cui formazione tali processi di “lobbying” hanno sicuramente fornito un assist non indifferente. Alla luce di tutti gli elementi raccolti, il 1° febbraio 2013, il Mediatore europeo ha respinto l’accusa del CEO, non riscontrando, quindi, alcun segno di cattiva amministrazione da parte della BCE.
Il G30 e Mario Draghi, però, sono stati meno fortunati nel secondo caso aperto dall’Ombudsman, quello del 18 gennaio 2017. L’indagine, avente come punto di partenza una nuova denuncia del CEO “che, per la seconda volta, rilevava come il coinvolgimento di BCE nel G30 fosse incompatibile con l’indipendenza di cui una Banca Centrale doveva godere”, si concluse con una sentenza di “cattiva amministrazione”, a causa della “assenza di disposizioni adeguate nei principi guida, relative al comportamento dei membri del Consiglio di vigilanza della BCE”. Del resto, dalle relazioni fornite da entrambe le parti chiamate in causa (CEO e BCE), emerse che, nel solo 2016, Draghi “aveva incontrato Credit Suisse, Deutsche Bank, Bridgewater Associates, BlackRock, Morgan Stanley, Munich Re ed AXA”.
Tuttavia, nonostante la sua vicinanza alle più grandi banche ed alle più importanti istituzioni finanziarie al mondo, Mario Draghi è oggi Presidente del Consiglio italiano. E la direzione presa dal suo Governo non è affatto promettente, sia in materia di lotta alla mafia, sia in materia di gestione della situazione socio-economica. Infatti, a dicembre 2020, il G30 ha rilasciato un documento dal titolo “Rilanciare e ristrutturare il settore aziendale Post Covid – Disegnare interventi di politica pubblica”. Semplicemente leggendo il titolo ci si può rendere conto del fatto che quanto scritto in tale documento, anche e soprattutto da Mario Draghi, non avrà poca influenza sull’operato dei governi di tutto il mondo. E soprattutto di quello italiano, visto e considerato che l’ex Numero uno della BCE, una volta finito di scrivere quel report, è diventato Primo Ministro del Bel Paese.
McKinsey
Si è recentemente appreso che il governo attualmente in carica si è rivolto al colosso della consulenza strategica McKinsey, il cui fatturato nel 2019 ha superato i $10 miliardi. Non dovrebbe preoccupare tanto l’importo di tale contratto, di €25.000 + IVA, bensì la storia della multinazionale.
Già presente all’interno del Palazzo di Governo con Renzi e Conte, la società McKinsey non ha un passato roseo. “Ripetutamente accusata di aver avuto una forte responsabilità nella crisi finanziaria del 2008, avendo promosso la cartolarizzazione di attivi ipotecari ed incoraggiato le banche a finanziare i propri bilanci con il debito, aumentando così il rischio che ha avvelenato il sistema finanziario globale ed ha fatto precipitare il crollo del credito del 2008”, la società ha appoggiato i dubbi metodi contabili della società americana Enron, fallita nel 2001, ed ha anche avuto grandi responsabilità nell’intensificazione del consumo di oppioidi “consigliata a Johnson&Johnson, che ha portato alla morte di un milione di americani nei primi 14 anni del Terzo millennio”, oltre che nell’incentivazione della estrazione di carbone in Polonia, “eliminando quelle barriere normative che aumentano i costi effettivi e diminuiscono la produttività del lavoro senza migliorare la sicurezza o le condizioni di lavoro, per poi assistere ad una impennata senza precedenti dell’inquinamento dell’aria in Polonia”.
Ma McKinsey è anche molto legata alla Organizzazione Mondiale della Sanità: da quest’ultima, tra il 2017 ed il 2018, la multinazionale ha incassato ben $4,19 milioni. Non solo. “Le consulenze McKinsey hanno spinto Trump a ridurre le spese per cibo e cure mediche nei confronti dei migranti, o a manipolare le statistiche relative alla fatidica prigione di Rikers Island”, oltre che a far nascondere “i conflitti di interesse di Pete Buttigieg, attuale Segretario dei Trasporti sotto l’Amministrazione Biden”.
Corrado Passera, Alessandro Profumo, Roberto Nicastro, Paolo Scaroni, Francesco Caio, Silvio Scaglia, Aldo Bisio, Fabrizio Palermo, Enrico Cucchiani, Gioia Ghezzi, Luca Maiocchi, Francesco Grillo, Massimo Capuano, Mario Greco, Roger Abravanel, Andrea Venzon, Ettore Gotti Tedeschi. Tutti “arrivati da McKinsey”. E, ovviamente, non poteva mancare Vittorio Colao. Oggi Ministro per l’innovazione Tecnologica e la Transizione digitale, egli siede nei Consigli di Amministrazione di General Atlantic, che gestisce un patrimonio di $40 miliardi; Unilever, società dal fatturato di €50 miliardi circa; Verizon, grande multinazionale americana di telecomunicazioni, specializzata nella tecnologia 5G, al centro di continue accuse di lobbismo, ed i cui fatturati superano i $130 miliardi annui. Lo stesso Vittorio Colao che, nell’aprile 2020, è stato nominato dal Governo Conte II a capo della task-force della cosiddetta “Fase 2”, per la ricostruzione economica del Paese nel post-Pandemia. E che, nell’adempienza dei suoi compiti, ha redatto un dossier che prevede l’istituzione di un “Fondo per lo Sviluppo” dal valore compreso tra i 100 ed il 200 miliardi: Stato, Regioni, Province e Comuni dovrebbero conferire immobili, partecipazioni in società e titoli a questo Fondo, le cui quote dovrebbero essere messe a garanzia dei crediti erogati alle imprese, assegnandole dunque alle banche, e vendute agli investitori internazionali ed alla stessa BCE. Del resto, si sa da che parte sta Colao. In una intervista rilasciata all’Università di Verona a marzo 2019, egli ha dichiarato che dobbiamo essere “contenti di come strutturalmente questo meccanismo europeo, quindi quello della parte macroeconomica, gestisce queste crisi” riferendosi alla crisi greca di cui sopra. Una crisi che ha lasciato sul lastrico milioni di famiglie, un Paese in ginocchio, ed un sistema sanitario al collasso, che ha provocato un aumento dei suicidi del 40% tra il 2010 ed il 2015, disoccupazione altissima, soprattutto tra i più giovani. Ogni ulteriore commento risulta superfluo.
E la democrazia?
A questo punto, verrebbe da chiedersi: e la democrazia? Come è possibile che i processi legislativi ed esecutivi, decisivi per la vita di milioni di persone, siano nelle mani di chi fa l’interesse di pochi? Come è possibile che i popoli, pur essendo questa una dinamica palese, non facciano nulla di fronte a un tale scempio? Oggi a governare sono le élites, che hanno trovato un metodo molto efficace per farlo: quello del lobbying. Certo, esistono delle parvenze di regolamentazione, sia in Europa che negli Stati Uniti. Che, però, risultano del tutto inutili, visti i risultati. Nessuno schieramento politico è escluso. Da destra a sinistra al centro, dal sotto al sopra. Nessun uomo politico che sia in posizioni “altolocate” può sfuggire al “lobbying”. Anzi, la sua stessa posizione “altolocata” nel processo di decision making globale è, con tutta probabilità, dovuta proprio alle sue attività di “lobbying”, o quantomeno alla sua attività di preservazione degli interessi di certi gruppi, siano essi bancari, finanziari, farmaceutici, petroliferi, o alimentari.
Pietro Ratto, con questo suo nuovo magistrale libro, svela l’interconnessione che esiste tra il settore privato e quello pubblico; questo è chiamato ad eseguire gli ordini, o le “raccomandazioni”, che arrivano da quello. Sulle spalle di milioni di persone. In un mondo in cui ognuno lavora esclusivamente per il proprio interesse, ciò che ne risulta è un caos inimmaginabile. Esattamente quello che l’umanità ha prodotto. Ciascun operatore economico-finanziario opera con un livello altissimo di razionalità soggettiva ed individuale che, però, si trasforma purtroppo in una aberrante irrazionalità oggettiva e collettiva. Una classe politica che opera, consapevolmente o meno, per l’interesse dei pochi, non ha nulla da offrirci. Ricordiamoci sempre che, però, essa è lo specchio dell’ignavia del popolo, della sua passività e della sua apatia. Per meritarci una vera classe politica, onesta, leale, e che ama il proprio popolo, il popolo deve cambiare. Non possiamo restare zitti a guardare, mentre tutto questo accade davanti ai nostri occhi. E’ ora di alzare la testa.
*Ove non meglio specificato, il testo tra virgolette è tratto dal libro “Lobbying” di Pietro Ratto, Bibliotheka Edizioni (2021)