di Gianni Barbacetto
A chi dice che la carcerazione di un vecchio, dopo cinquant’anni, si chiama vendetta e non giustizia; che a mezzo secolo dai fatti, i loro protagonisti sono cambiati; che non si può perseguitare a vita i militanti delle Br, delle altre formazioni combattenti e i condannati per l’omicidio di Luigi Calabresi, rispondo ponendo una domanda: direste le stesse cose a proposito di fascisti, poliziotti e generali coinvolti nelle stragi e nella strategia della tensione?
Carlo Maria Maggi, indagato per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia, era negli ultimi suoi anni vecchio e malato: motivi sufficienti per farlo restare impunito? Molto avanti negli anni è anche il generale Gianadelio Maletti, regista del servizio segreto militare negli anni dell’eversione nera: siete felici che resti tranquillo a fare “l’espatriato” in Sudafrica? Dopo tanti anni, non sono “cambiati” anche Maggi e Maletti?
Eppure: è giusto che Maggi abbia scontato la sua pena; e sarebbe giusto che Maletti tornasse in Italia a rivelare i suoi segreti. Io voglio sapere e voglio giustizia: su piazza Fontana, sull’Italicus, sulla strage di Bologna. Voglio sapere e voglio giustizia anche dopo 40 anni, anche dopo 50 o 60: ci sono ferite che il tempo non può lenire. Voglio verità e giustizia sulla morte di Pinelli e su quella di Calabresi. Come posso pretenderle per l’uno, senza chiederle per l’altro?
La giustizia non può essere selettiva: inflessibile per i “neri” e chi dentro gli apparati dello Stato li ha allevati, finanziati, protetti; e benevola con chi ha ucciso in nome della “giustizia proletaria” e dunque giustificato e da alcuni perfino ammirato. Chi assolve i crimini di una parte, di fatto legittima anche quelli del suo avversario. Perché la giustizia è una. Se si toglie la benda dagli occhi, muore il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge.
Possono darmi del “manettaro” quelli che eseguivano sentenze di morte? Certo, per gli uni e per gli altri la pena non dev’essere tortura o vendetta: un giudice deciderà, secondo le condizioni di salute e i percorsi individuali, chi può stare in cella, o in ospedale, o a casa. Ma comunque soggetto alla giustizia, l’imperfetta giustizia degli uomini, non all’arbitrio di una sgangherata “dottrina Mitterrand” disegnata per chi non avesse ricevuto condanne definitive e commesso delitti di sangue e finita per proteggere invece come “esule” chi ha ucciso e mai rinnegato la lotta armata.
Anch’io ho fatto parte di uno dei movimenti degli anni Settanta (il Ms-Mls di Milano), ma sono convinto che la lotta armata non sia figlia di quei movimenti, ma li abbia uccisi, “professionalizzando” la violenza. Su una cosa sembrerebbero aver ragione i miei amici che protestano contro gli arresti francesi: in Italia la giustizia è stata efficace con alcuni (i “rossi”) e impotente con altri.
È vero: sono rimasti impuniti i neonazisti, i politici e i funzionari dello Stato protagonisti della guerra segreta combattuta a colpi di attentati, stragi, tentati golpe, omicidi politici, accordi con la massoneria, la criminalità, la mafia. Ma l’impunità di alcuni non può giustificare la benevolenza per altri: può pretendere giustizia per tutti solo chi è rigoroso con tutti. In Italia, comunque, non c’è stata una guerra civile tra “rossi” e “neri”, né tra “proletari” e Stato. Per questo non ha senso parlare di pacificazione, di soluzione politica (come faceva Cossiga), di riconciliazione sudafricana.
In Italia c’è stata una guerra asimmetrica, in cui i neonazisti allevati dagli apparati dello Stato hanno ammazzato gente che stava in una banca, su un treno, in una piazza, in una stazione. E poi un’altra guerra in cui alcuni gruppi hanno preso le armi per uccidere poliziotti, giudici, politici, giornalisti. Che riconciliazione è mai possibile? Solo quella volontaria e privatissima tra vittime e carnefici.
1 maggio 2021