Alessia Candito
Al via la requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che in aula ricostruisce “corpo e testa” dei clan calabresi e per la prima volta inchioda i vertici invisibili
“Il processo Gotha ha uno scopo ben preciso. Svuotare il pozzo in cui si è rifugiata per anni per cercare quella verità che era scomparsa da troppo tempo”. Parte da qui la requisitoria del procuratore Giuseppe Lombardo al maxiprocesso Gotha, il primo nella storia del contrasto alla ‘Ndrangheta che abbia portato all’individuazione della direzione strategica e della componente invisibile dell’organizzazione. Dieci ore di udienza che sono solo l’inizio di una maratona destinata a durare altre dieci giornate. Tutte necessarie al pool che insieme a Lombardo ha seguito indagine e processo – i pm Sara Amerio, Walter Ignazzitto, Stefano Musolino, Giulia Pantano – per ricostruire un percorso investigativo lungo 12 anni.
Tanto ci è voluto per smontare quelle verità parziali su cui per anni si è fondato il racconto anche giudiziario della ‘Ndrangheta, ciecamente inquadrata come polverizzata in mille famiglie autonome, incapaci di coordinarsi, sì potenti, ricchissime e diffuse in tutto il globo, ma grette e tribali. Un’aporia durata anni, se non decenni, che ha permesso di relegare a meri consigliori le vere menti strategiche dell’organizzazione. Alcune di quelle teste però la maxi-inchiesta Gotha le ha individuate, al pari dell’organismo collegiale di comando in cui da pari siedono.
Le teste della ‘Ndrangheta
Si chiamano Giorgio De Stefano e Paolo Romeo e da più di mezzo secolo – ha ricostruito la procura antimafia – sono il baricentro della vita politica, sociale, economica, finanziaria e criminale di Reggio Calabria e non solo. Uomini di ‘Ndrangheta – di quella che non si balocca con cariche e santini, che non si vede ma governa – eppure in passato inquadrati e condannati come semplici concorrenti esterni. Consigliori, ci hanno tenuto a precisare i diretti interessati e le loro difese nei giudizi che li vedono o hanno visti imputati. Una figura, dice Lombardo, parificabile a quella di “chi passa sul corso Garibaldi e c’è un problema e a cui si dice ‘senti grande saggio, mi spieghi come dobbiamo regolarci in relazione a questo tipo di situazione?’. E quello in maniera spassionata, ad un circuito militare segreto che è quello di ‘Ndrangheta dà il suo consiglio. ‘Si in effetti l’abbinamento fra la giacca e i pantaloni è sbagliato. Cambia modo di vestire’”.Giorgio De Stefano e Paolo Romeo – afferma il procuratore aggiunto Lombardo – sono molto di più. Della ‘Ndrangheta – è il nodo centrale del processo Gotha – sono due delle teste.
Per questa accusa, De Stefano – penalista, ex consigliere comunale, cugino del boss Paolino De Stefano ed espressione limpida dell’omonimo casato di ‘Ndrangheta – è già stato condannato in primo grado e in appello nel processo con rito abbreviato. Romeo – ex deputato del Psdi nonostante la notoria e decennale militanza missina, per i pentiti massone di alto rango, piduista e uomo di Gladio, per sua stessa recente ammissione responsabile della latitanza del terrorista Franco Freda a Reggio Calabria – affronta la medesima accusa nel processo con rito ordinario. E in aula, attento non perde una parola della requisitoria del procuratore Lombardo, alza la testa di scatto quando il magistrato pronuncia il suo nome, scrive, prende appunti. Forse perché per la prima volta si trova di fronte ad una ricostruzione logica, lineare, scevra di contraddizioni dell’organizzazione criminale. Una fotografia dinamica che lo colloca senza contraddizione alcuna in un ruolo di vertice.
Il programma di guerra della direzione strategica
Per i magistrati, insieme a Giorgio De Stefano, è uno dei sette componenti della direzione strategica della ‘Ndrangheta, quell’organismo occulto in grado di determinare le linee guida per tutta l’organizzazione. E i due, sottolinea il procuratore Lombardo, sono “una divinità a due teste” l’unica in grado di mettere in atto “un programma così ambizioso in una città così pericolosa, instabile, scivolosa, inaffidabile, intimamente mafiosa come Reggio Calabria”. Una città che è ed è sempre stata, spiega Lombardo, un “laboratorio criminale a cui tutta la ‘Ndrangheta del mondo è chiamata ad ispirarsi”. E forse l’unica – continua il procuratore – in cui è possibile progettare e portare avanti “un programma di una lunga stagione di sistematica penetrazione del tessuto politico-amministrativo locale, regionale, nazionale e sovranazionale per dare pratica attuazione a un progetto particolarmente evoluto, certamente rischioso, che possa un giorno stabilizzare un modello criminale tanto sofisticato da apparire agli occhi degli stolti estraneo alle logiche predatorie di base”. E qual è il progetto? Utilizzare lo Stato come una gigantesca macchina di riciclaggio in grado di distribuire fra clan e soldati – la struttura visibile – le straordinarie ricchezze di cui la ‘Ndrangheta dispone, in modo da garantire ai vertici il necessario consenso, dunque la tenuta stessa dell’organizzazione. E questo perché – “lo spiega bene Piromalli per come citato nella sentenza Cent’anni di storia” ricorda Lombardo – “noi senza consenso siamo finiti”.
Un sostegno che va cementato di milioni – briciole da distribuire ai soldati – con metodo, per non generare dissapori, e attenzione, per dribblare le attenzioni investigative. “Se tu spendi un miliardo di euro nella città metropolitana di Reggio Calabria anche il più stupido, disinteressato e incapace degli investigatori capisce che c’è qualcosa che non va. L’unica possibilità di ricollocare nei territori d’origine una parte di ricchezza che ha generato – spiega Lombardo – è quella che passa dalla pubblica amministrazione che, per questa ragione, diventa l’interlocutore necessario di questa enorme deviata ed eversiva operazione di riciclaggio e reimpiego attraverso organi dello Stato”.
Un racconto in viva voce
Da qui nasce la fabbrica di politici, amministratori, professionisti della pubblica amministrazione – e sono molti imputati in Gotha, da sottosegretari regionali come Alberto Sarra a senatori come Antonio Caridi – che è stata impiantata ormai decenni orsono a Reggio Calabria. Pedine da muovere – è emerso nel corso di inchiesta e processo – per far funzionare a dovere amministrazioni e governi locali e nazionali, azzerando la democrazia e svuotando di significato e peso le elezioni, le istituzioni, persino l’associazionismo e il terzo settore, diventati strumento e occasione per stringere rapporti, creare legami, costruire alleanze e canali di finanziamento.
Non si tratta di ipotesi di scuola, ma di un lungo rosario di episodi ed eventi ricostruiti dalle indagini, provati da intercettazioni, raccontati dalla viva voce di protagonisti di quella stagione, a partire da Seby Vecchio, un tempo ufficialmente poliziotto e politico, in realtà uomo del clan Serraino, oggi collaboratore di giustizia. Una voce che alle ultime battute del processo è stata in grado di confermare punto per punto, traducendola in circostanze concrete e da lui stesso vissute, l’esistenza della direzione strategica, il suo modo, metodo e programma di intervento, gli uomini che ne sono stati strumento.
Ma forse, ancor più peso nella ricostruzione hanno avuto gli errori che Romeo e De Stefano hanno fatto nell’ultimo decennio, quando per troppa sicurezza o necessità hanno rinunciato a quella comoda collocazione che li preservava da attenzioni investigative. “E noi eravamo lì ad aspettarli” dice Lombardo che ricorda il necessario intervento di Giorgio De Stefanoquando le pretese del clan Serraino nel quartiere polveriera di Santa Caterina hanno rischiato di scatenare una nuova guerra fra clan, l’eccessiva nonchalance di Romeo nel cercare una visibilità politica per la quale viene duramente richiamato dall’avvocato Marra, le chiacchierate – ascoltate in streaming dagli investigatori – dell’avvocato Giorgio, che ricorda il padre Giovanni “che era il re dei re” e già dai tempi in cui la ‘Ndrangheta si chiamava maffia o picciotteria disprezzava chi si baloccava con cariche e santini. Crepe in quell’invisibilità che li ha protetti per anni e che in dodici anni di indagini la Dda ha ricostruito a partire da una domanda: invisibili per chi?
Un vertice invisibile e necessariamente collegiale
“Se Paolo Romeo e Giorgio De Stefano fossero stati dotati dell’invisibilità assoluta non saremmo stati qua. Certamente non sono invisibili per i soggetti che da loro dipendono nelle manifestazioni che segnano la loro necessaria azione e alcuni dei quali sono imputati in questo processo. Per quei soggetti in contesti criminalmente rilevanti sono ben visibili e operativi. In realtà – afferma Lombardo – mantengono la loro invisibilità nei confronti di tutti gli altri. E chi sono questi altri? Tutti quegli uomini e donne di ndrangheta che non devono sapere nulla rispetto a quello che va oltre la struttura criminale di base, cioè quella struttura fatta di doti, cariche, rituali, immaginette”. A emergere è una struttura necessariamente complessa della ‘Ndrangheta, ben lontana dall’immagine al ribasso che per troppi anni è stata contrabbandata e che è stato necessario destrutturare in dodici anni di lavoro investigativo necessario per spazzare via “menzogne vestite da verità” e arrivare a quella “verità che dal pozzo tendeva la mano”.
Ed è stato necessario partire da lontano, dal principio. “Quando abbiamo iniziato a fare questo lavoro – ricorda Lombardo – la ‘Ndrangheta era considerata un insieme di famiglie che avevano tutte lo stesso peso, un insieme di componenti di base che occupavano determinati spazi territoriali, che ogni tanto entravano in conflitto fra di loro. Se il conflitto era estemporaneo e si legava ad un motivo ben preciso, si collocava all’interno di una faida fra due famiglie, se invece coinvolgeva più famiglie diventava una guerra, se non si riusciva a risolvere a livello di macro-area territoriale, cioè di mandamento, diventava conflitto globale. Ma l’orizzontalità pura della ‘Ndrangheta non è mai esistita e la prima sentenza che lo sancisce è del 2 ottobre del 1970”.
Ma se mai c’è stata, quell’organizzazione è morta da oltre mezzo secolo. Una svolta storica, arrivata negli anni Settanta con i Moti di Reggio prima, la spartizione degli appalti del pacchetto Colombo e la guerra di ‘ndrangheta che ne è seguita poi. E che subito ha portato alla costituzione di un organismo di vertice necessariamente collegiale, anche al prezzo dell’omicidio di chi quel primo conflitto lo ha vinto. Era il 1974 e Giorgio De Stefano, fratello di don Paolino – uno dei padri della ‘Ndrangheta nuova – ha pagato con il sangue l’ambizione a diventare il capo dei capi. “La ndrangheta di vertice ha capito, vivendo le stagioni che vi ho raccontato prima – quella indispensabile degli anni Settanta ma quella ugualmente pesante degli anni Ottanta – per essere un modello vincente, il vertice deve avere più componenti tutte indispensabili a garantire la piena operatività a livello mondiale di un sistema complesso” afferma Lombardo.
Sopramondo e sottomondo
“Non c’è e non c’è mai stato un capo unico, perché quello – continua il magistrato – non è un modello vincente. Perché se tu uccidi il capo unico hai difficoltà di relazione con gli apparati ai quali necessariamente sei legato, con cui sei entrato in rapporto e che ti chiederanno: e ora che succede? Chi comanda? Per questo quella del capo unico è una scelta perdente. È una scelta da perdenti. Anche perché la ‘Ndrangheta è talmente ricca e potente che c’è spazio per tutti”. Per chi sa e chi non sa.
Quegli invisibili, motore immobile delle scelte dell’organizzazione tutta, ad alcuni – pochissimi – che con la ‘ndrangheta visibile hanno a che fare e ne sono i capi, sono conosciuti. È questo il ruolo di quelli che il procuratore aggiunto chiama “i grandi generali”, che “hanno il compito di collegare il sovramondo con il sottomondo in una sorta di terra di mezzo in cui il visibile/territoriale si collega all’invisibile/strategico”.
Più giù, c’è la ‘Ndrangheta visibile, quella convinta – come il neopentito Maurizio Cortese ha confermato in aula – che l’organizzazione a quei generali si fermi. Ma non è un caso. Anche questa è una necessità strategica. “La componente riservata e segreta della ‘Ndrangheta deve rimanere distante dalle attenzioni investigative, perché le attenzioni investigative devono esclusivamente colpire la componente di base. Questo non significa – continua a spiegare Lombardo nel suo lungo intervento – che devono cadere soltanto i picciotti, ma tutta la componente di base o componente visibile è a rischio. Ma è un rischio che bisogna correre perché quelle teste pensanti sanno benissimo che non esiste una testa senza corpo e non esiste un corpo senza testa”. Componenti di “un mostro criminale chiamato ‘Ndrangheta” che adesso si inizia ad intravedere nella sua interezza e per questo può essere destrutturato – per la prima volta – a partire dal vertice e non dalla – ad oggi apparentemente inesauribile – base.