Giorgio Bongiovanni
“Procuratore de Raho, grazie per essere intervenuto in diretta al Tg1. Il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro è latitante dal 1993 e questi ventotto anni di fughe non gli hanno impedito di compiere omicidi, stragi, crimini efferati, né di gestire affari milionari nei settori più svariati. Come mai non è ancora stato catturato? Quali sono le protezioni di cui gode? Sono le stesse che per anni hanno protetto Totò Riina e Bernardo Provenzano? Ci sono pezzi deviati dello Stato? La massoneria? Quali interessi si muovono? Lei cosa può dirci in merito?”. Queste sarebbero state le domande che ci saremmo aspettati di sentire questa sera su Rai Uno, rivolte al Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, da parte del giornalista e conduttore Francesco Giorgino.
Domande scomode e non poste.
Solo poche curiosità sulle sensazioni provate nel sentire la voce del superlatitante in quella che è stata la sua ultima deposizione in un’aula di giustizia, a Marsala, e sulle speranze di pervenire ad una sua cattura.
E’ lo specchio di quel che oggi rappresenta la nostra tv di Stato.
Ma di quale Stato?
Quello rappresentato da un Governo che nelle migliori delle ipotesi “non vede, non sente e non parla” di lotta alla mafia, nella peggiore è garante e complice di quella eterna trattativa posta in essere non solo a colpi di bombe.
Lo diciamo con cognizione di causa nel momento in cui viene portata avanti una riforma della giustizia che mette in serio pericolo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e le inchieste più importanti nella lotta al Sistema criminale.
Certo, se dovessimo guardare il lato positivo del servizio andato in onda quest’oggi c’è sicuramente il grande lavoro dell’Associazione Antimafie Rita Atria e della testata “Le Siciliane”, capaci di rinvenire i documenti e la cassetta con la deposizione del latitante di Cosa Nostra più ricercato in Italia.
In quel nastro registrato il 18 marzo 1993, nel processo Accardo, uno dei tanti processi di Mafia nel trapanese, la voce della primula rossa si sente bassa.
All’inizio della registrazione si sente il latitante indicare le proprie generalità. Poi la pm inizia con le domande: “Senta, ricorda se fu sentito dalla squadra mobile di Trapani, dopo la morte di un certo Accardo Francesco da Partanna?”. “Guardi”, risponde l’allora trentunenne boss, “io, in quel periodo, ho subito decine di interrogatori per ogni omicidio che è successo”. Poi la testimonianza prosegue per 30 minuti e termina con il giudice che dice a Messina Denaro che può andare.
Due mesi e mezzo dopo il boss trapanese diventerà latitante e colpirà il Continente con le stragi di Firenze, Roma e Milano.
E da allora ha fatto perdere ogni traccia di sé.
Certo, ci sarebbe piaciuto che anche il Procuratore nazionale de Raho raccontasse qualcosa in più, magari andando oltre al seminato di quelle scarne domande poste dal conduttore (“Certamente sentire la voce di Matteo Messina Denaro è qualcosa di veramente importante. Nei suoi confronti le indagini, di polizia, carabinieri e Guardia di Finanza, si sviluppano da oltre un ventennio e quindi è evidente che anche loro hanno documenti comparativi anche sonori, idonei a effettuare comparazioni. Elementi di questo tipo sono quindi importanti proprio per consentire poi il confronto ogni qualvolta fosse necessario”). Così ci si è dovuti accontentare di argomentazioni sullo stato delle attività in corso. “Negli ultimi anni sono stati arrestati centinaia di appartenenti a Cosa Nostra che costituiscono la rete che agevola e sostiene la sua latitanza. Basti pensare che sono quasi tre i miliardi di euro di beni che sono stati sequestrati nell’ambito di queste indagini”.
Come ha detto de Raho, nella ricerca di Messina Denaro “ci sono tanti filoni della polizia, dei carabinieri e della Guardia di finanza tutti coordinati dal procuratore distrettuale di Palermo”, ma non basta, proprio alla luce delle protezioni fortissime di cui egli gode.
Nel gennaio 2017, il magistrato Teresa Principato, oggi alla Procura nazionale antimafia, quando era procuratore aggiunto a Palermo diede a lungo la caccia al boss trapanese, spiegò in Commissione antimafia che “Messina Denaro è protetto da una rete massonica”.
E le indagini raccontano di un amore, all’interno di Cosa nostra, ancora forte, in particolare nel suo territorio di riferimento.
Proprio la Principato avrebbe potuto spiegare le grandi difficoltà incontrate in anni di indagini.
Sebbene sia sempre importante parlare del boss di Cosa nostra, e la Rai non lo faceva da tempo, la nostra speranza è che possano tornare presto quei programmi di approfondimento che spieghino perché ancora oggi la mafia è forte e potente; che raccontino perché magistrati come Nino Di Matteo, condannato a morte proprio da Matteo Messina Denaro e Totò Riina per conto di altri mandanti (“gli stessi di Borsellino” come raccontato dal pentito Vito Galatolo), siano nel mirino; che diano un contributo nella ricerca della verità sulle stragi raccontando le famigerate trattative e patti che politica ed apparati hanno stretto con le nostre criminalità organizzate.
Un coraggio che la Rai ha dimostrato avere solo in certe occasioni.
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