di Lorenzo Guadagnucci
Qualcuno l’ha definita «la retata di capodanno» e fa impressione scorrere l’elenco delle persone costrette agli arresti domiciliari: Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Spartaco Mortola, rispettivamente capo dell’Anticrimine, dell’Ufficio analisi dei Servizi segreti e della Polizia postale del Piemonte. Si aggiungono agli altri condannati per la mattanza alla scuola Diaz che il Tribunale di sorveglianza ha reputato immeritovoli di passare in affidamento ai servizi sociali i pochi mesi di pena che devono ancora scontare, una volta sottratti dalle condanne i tre anni di abbuono previsti dall’indulto.
E’ il penoso epilogo di una vicenda gravissima, che il nostro paese non è riuscito ad affrontare e superare in modo degno.
Finiscono ai domiciliari dirigenti altissimi della polizia di stato, mantenuti fino all’ultimo in carica da un potere politico superficiale e corresponsabile di una prepotenza istituzionale senza precedenti. Solo la Cassazione, con la sentenza definitiva del 5 luglio 2012, ha disposto la sospensione dei condannati dai pubblici uffici per 5 anni, senza però riuscire a scuotere il Palazzo dal suo torpore, sinonimo in questo caso di complicità con un vertice di polizia incapace di riconoscere i propri gravi errori e di agire in modo da porvi rimedio.
Vedere agli arresti dirigenti così importanti, e così tutelati dal potere politico, aggiunge sale su una ferita aperta. Sono ai domiciliari, sebbene incensurati, perché hanno rifiutato di chiedere scusa per quanto accaduto alla Diaz, perché hanno dimostrato di non aver capito la gravità di quanto accaduto. In una parola: non hanno accettato la sentenza di condanna. Sapere che Gratteri, Luperi, Caldarozzi e gli altri condannati sono obbligati agli arresti domiciliari, non è una buona notizia per nessuno, a cominciare dalla polizia di stato, che avrebbe invece bisogno di recuperare la credibilità perduta. Non è una buona notizia perché testimonia ancora una volta che la lezione di Genova G8 non è stata capita, che è caduto nel vuoto il grido d’allarme arrivato dai tribunali con le condanne di alti dirigenti per la mattanza alla Diaz e di decine di agenti e funzionari per i maltrattamenti e le torture nella caserma di Bolzaneto.
Il Parlamento non si è chiesto se simili clamorose condanne non richiedano un approfondimento, una verifica della vita interna ai corpi di polizia, dei meccanismi di autocorrezione e sanzione degli abusi. Si è cominciato a discutere una legge ad hoc sulla tortura il cui contenuto sembra piovuto da marte, teso com’è a non irritare gli «ambienti delle forze dell’ordine», come se a Bolzaneto non fosse accaduto niente. Sembra che i condannati nel processo Diaz, sospesi per 5 anni dai pubblici uffici, non siano stati nemmeno sottoposti a provvedimento disciplinare, ma è impossibile avere notizie precise: la polizia di stato non ne dà, come se non fosse cosa di interesse pubblico. Non è così che deve comportarsi un corpo di polizia in un paese democratico. Le sentenze della magistratura, in casi delicati come questi, devono essere accolte e comprese con grande attenzione e con spirito riformatore. Sono state invece considerate – di fatto – come una fastidiosa interferenza. I magistrati che hanno condotto l’inchiesta con rigore esemplare nonostante boicottaggi continui Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini — sono stati considerati dei disturbatori, anziché dei funzionari dello stato da prendere ad esempio.
Domandiamoci allora che tipo di democrazia stiamo costruendo (ossia deformando) nel nostro paese. Chiediamoci se non stiamo per passare quella linea rossa oltre la quale una società è pronta ad accettare che i diritti e le libertà civili siano considerati poco più che un lusso, immeritevole di rigorosa tutela.
3.1.2014