Il muro dell’apartheid, che alcuni chiamano di ‘separazione’ e da un decennio Israele sta costruendo, ha molteplici funzioni. Alcune intenzionali e dichiarate, altre implicite o nascoste ma non meno importanti. Fra le prime mettiamo subito senza indugio il bisogno di sicurezza. In realtà questo è ciò che lo stato di Israele dichiara come unica ragione: impedire che ‘terroristi’ palestinesi possano portare a termine attentati a Tel Aviv o altrove, come accaduto nei primi anni 2000.
Una seconda funzione, meno esplicita ma certamente intenzionale, è creare una separazione non solo fisica fra le due popolazioni. Infatti prima, soprattutto dopo il ’67, gli ebrei e i palestinesi erano più a stretto contatto. Potevano lavorare insieme e anche diventare se non amici buoni conoscenti. Era perciò più difficile far percepire i palestinesi come nemici e terroristi tout court. I sondaggi fra i più giovani ebrei Israeliani, che hanno vissuto prevalentemente nell’era del muro, sono indicativi al riguardo. Per loro i palestinesi sono solo un pericolo da rimuovere.
Agli ultimi negoziati ‘di Pace’ che stanno avendo luogo sotto la guida ‘imparziale’ di John Kerry, pare che il governo Israeliano abbia posto come base di partenza il tracciato del muro stesso. Il tracciato spesso invade la linea verde (armistizio del 1948) che rappresenterebbe addirittura meno del confine riconosciuto dall’ONU del ‘nascente(?)’ stato Palestinese; questo per includere insediamenti già esistenti o in espansione ‘naturale’. Per cui, pare evidente che una funzione non dichiarata ma intenzionale della pianificazione della barriera fosse l’annessione di territorio.
Un’altra funzione, forse più subdola e difficile da identificare, è fare da filtro. Mi spiego meglio. In Israele si trovano, come in qualsiasi parte del mondo, imprenditori che anelano di avere manodopera a basso costo. La alta disoccupazione nei Territori Palestinesi Occupati rende fortissima la necessità di trovare un lavoro qualsiasi per mantenere la famiglia, e non ci si fa scrupoli a farlo per gli occupanti a Tel Aviv o nelle Colonie. Queste due esigenze rappresentano terreno fertile per il fenomeno del caporalato. Un palestinese con un buon contatto si procura perciò gente disponibile dal suo lato, mentre il contatto israeliano si attiva per ottenere i permessi di lavoro dall’altro. L’imprenditore israeliano così ottiene lavoro a basso costo; il caporale si trattiene una parte del salario; il lavoratore palestinese guadagna comunque di più che nei Territori Occupati nonostante l’ulteriore tassa da pagare al governo di Israele per il permesso di lavoro. Quanto sia diffusa questa pratica non è dato sapere per le ovvie difficoltà nel reperire informazioni certe.
Per chi non avesse questa ’fortuna’, rimangono altre opzioni fra le quali lavorare per l’UNRWA (la mamma castrante), per l’Autorità Palestinese (che sopravvive anche essa grazie a fondi internazionali), aprire una delle poche attività private permesse, o infine rassegnarsi alla disoccupazione. Ma il muro è un filtro permeabile in molti punti: dove è tuttora solo una rete metallica e dove è semplicemente una linea immaginaria. Moltissimi palestinesi perciò si prendono il rischio di ‘immigrare’ clandestinamente in Israele per lavorare al nero, ma sempre meglio retribuiti che a casa loro. Se vengono scoperti senza permesso, la prassi è la seguente: il primo evento ha poche conseguenze, reprimenda e poi rimpatrio; il secondo è già più gravoso, un po’ di carcere e magari una multa salata; il terzo può essere pesante, processo con pene carceraria e pecuniaria molte alte. Questo, ad esempio, è ciò che è accaduto al figlio di una donna di Hebron che conosco da anni.
Questi ultimi due aspetti rendono la causa dichiarata della costruzione del muro, il ‘bisogno di sicurezza’, molto meno credibile. Almeno ai miei occhi…
(FD)
17 gen 2014