Abbiamo molto parlato, noi di “Cumpanis”, delle “condizioni oggettive” che in Italia – e nel mondo intero – sembrerebbero offrire l’humus perfetto per l’avvento del socialismo: la guerra imperialista, fase suprema del capitalismo, la crisi mortale della socialdemocrazia, le enormi problematiche legate alle bibliche migrazioni che dal terzo mondo si riversano inarrestabili nell’Occidente “civilizzato”, l’incipiente disastro climatico, il crollo verticale della cultura e dell’arte e, last but not least, l’idra dalle cento teste di una globalizzazione che ormai pervade tutti i gangli della finanza, dell’economia e della società.
Abbiamo discusso lungamente su cosa siano la classe in sé e la classe per sé, di come ai lavoratori manchi oggigiorno la pur minima parvenza di quella coscienza di classe necessaria a trasformarli da un “volgo disperso” ad un formidabile soggetto rivoluzionario capace di “abolire lo stato di cose presente” e, finalmente, di come tale coscienza sia possibile solo quando all’avanguardia di tale classe si ponga un partito comunista forte, coraggioso, coeso teoricamente e ideologicamente, un partito profondamente antidogmatico e democratico.
Abbiamo instancabilmente lavorato affinché rinascesse in Italia un partito siffatto, abbiamo bussato a tutte le porte, abbiamo lanciato appelli, abbiamo partecipato a riunioni e conferenze capaci di radunare centinaia di intellettuali, militanti e quadri sindacali e operai, abbiamo contribuito a suscitare la necessità di un’unità che nascesse dal lavoro unitario nelle piazze e nei luoghi di lavoro.
È giunto adesso, lo crediamo fortemente, il momento di tirare le fila di tutto questo lavoro, e per poterlo fare non possiamo esimerci dall’analisi concreta della situazione concreta, ovvero innanzitutto di come i partiti comunisti italiani, e particolarmente i tre più importanti – PRC, PCI e PC – hanno risposto all’innegabile entusiasmo e voglia di unità e riscossa che promana come vento impetuoso dai militanti comunisti ormai stanchi di vivacchiare ai margini della vita politica italiana, ricoprendo – sempre nella migliore delle ipotesi – una mera funzione di testimonianza dei “bei tempi che furono”.
Nel farlo, non ce ne vogliano i compagni di questi partiti, saremo franchi fino alla brutalità, ma non per malinteso senso di superiorità o per antipatie personali: no, la nostra franchezza è un atto d’amore e di correttezza, perché tutti sappiamo che nulla come la franchezza è il vero viatico al confronto e alla dialettica.
Lo faremo consci dei nostri limiti e delle nostre mancanze, senza alcun desiderio di accusare o sminuire chicchessia, anzi crediamo che, viceversa, la nostra franchezza sia possibile proprio per la stima e l’affetto che nutriamo verso tutti i compagni, a qualunque partito o associazione appartengano. Et de hoc satis.
Veniamo al dunque: PRC, PCI, PC.
Non vogliamo nascondere – non lo abbiamo mai fatto – la nostra convinzione che il bertinottismo sia stato una tragedia esiziale per il comunismo italiano. Invece di cogliere l’opportunità storica offerta al comunismo dalla crisi della Bolognina, ovvero dall’implosione di un partito ormai governato da quadri dirigenti che di comunista non avevano più nulla – ma ove la base era, di converso, sana e forte – Bertinotti e i suoi adepti hanno dato la stura ad un circo Barnum di improvvisato eclettismo, corrodendo fin dalle fondamenta ogni speranza di solidità teorica e ideologica e, di conseguenza, ogni pur minima speranza di incidere sulla classe dei lavoratori e sulla realtà politica e sociale.
L’agonia è stata lunga e dolorosa, ed è stato quasi intollerabile vedere artisti circensi di ogni genere e specie – trotzkisti, liberalsocialisti, ecologisti/capitalisti, improvvisati spontaneisti dallo sbiadito colore – danzare sulle spoglie di ciò che inizialmente rappresentò per noi comunisti la speranza di una rinascita, di una vera – appunto – rifondazione.
Cosa resta oggi? Un pugno di militanti spesso onesti e pieni di buona volontà, ma confusi dall’ondivago a-comunismo – verrebbe quasi da dire “anticomunismo” -– dei loro dirigenti che, tra un’alleanza carica di opportunismo elettorale e faide interne tra post “estremisti” del ’68 stanno trascinando all’estinzione un partito che fino a qualche decennio fa contava decine di migliaia di tesserati e nutrite rappresentanze in Parlamento e nelle istituzioni locali. Una fine ingloriosa, che dovrebbe profondamente addolorare ogni compagno degno di questo nome.
Una fine che si consuma nell’incapacità di opporsi all’imperialismo USA, nel silenzio – quando non in ipocriti distinguo – sulla responsabilità della NATO nella tragica guerra ucraina, col suo orribile corteo di morte, sciagura e disastro economico il cui conto, come al solito, sarà pagato dal popolo e dai lavoratori.
Il PCI: il grigio dipinto di grigio. Anch’esso pieno – si fa per dire, parliamo di poche centinaia di militanti – di compagni degnissimi e rispettabilissimi.
Compagni degnissimi e rispettabilissimi – militanti e dirigenti – che in molti stanno ormai abbandonando il vascello che affonda, trascinato nell’abisso dall’autoreferenzialità imbelle di una dirigenza che, forse, crede che bastino il glorioso nome e simbolo del P.C.I. storico a supplire ad una congenita assenza di elaborazione teorica e capacità organizzativa.
Un partito purtroppo sordo ad ogni appello all’unità d’azione, un partito che preferisce far comunella con la “sinistra sinistrata” dei centri sociali (quando non direttamente col PD o coi suoi “cespuglietti di sinistra”) oppure con stravaganti realtà come il CARC (dietro cui si nascondono i “clandestini” del (n)PCI) o la macchietta fin de siècle del PMLI, piuttosto che aprirsi al dialogo con le altre reali forze comuniste.
Un partito che ad ogni richiesta d’incontro, di percorso, di collaborazione, ha risposto con sdegno che “l’unità dei comunisti c’è già, ed è il PCI” – condendo spesso queste arroganti e autoreferenziali risposte con durissimi attacchi personali al limite della diffamazione.
Veniamo al PC. Non nasconderemo che abbiamo lungamente riposto delle speranze in questo partito: solido, ben organizzato, ideologicamente coeso, insperatamente aperto al dialogo e capace di rielaborare e mutare radicalmente la sua profondamente errata visione internazionale, specialmente riguardo alla Cina e al socialismo con caratteristiche cinesi.
Un partito con il quale abbiamo proficuamente lavorato, un partito che ha saputo prontamente rispondere al famoso “Appello per l’unità dei comunisti”, offrendo con generosità la sua capacità organizzativa per sostenere la realizzazione di molteplici eventi unitari di lotta e riflessione.
Purtroppo, il suo “peccato originale” – stiamo parlando del suo assoluto e rigido verticismo, così lontano dal vero centralismo democratico tratteggiato da Lenin e magistralmente riassunto da Gramsci e Álvaro Cunhal – non ha tardato a manifestarsi.
E, davanti alle allettanti sirene di stravaganti alleanze tattiche (o forse persino strategiche) con quel populismo di destra che ha tentato di egemonizzare e segnare di sé i no-vax, i sovranisti, i profeti della fine del paradigma destra/sinistra – che hanno fatto forse baluginare la possibilità di raggiungere la massa critica necessaria a rientrare in Parlamento –, la tanto sbandierata “unità dei comunisti” è collassata in men che non si dica, per lasciare il posto ad una prospettiva di mutazione genetica verso qualcosa che, probabilmente, è sentito dalla dirigenza come più vicino al proprio più profondo quadro valoriale.
Ovviamente, il prezzo da pagare è stato anche per essi sia l’abbandono del progetto dell’unità dei comunisti e della ricostruzione di un più forte partito comunista nel nostro Paese, sia il rifiuto di un lavoro volto alla costruzione di un movimento di massa contro la guerra della Nato, sia l’assunzione di una nuova e grande prudenza nell’indicare le responsabilità imperialiste nella crisi ucraina (sola via per valutare in modo diverso dal mainstream generale l’Operazione Z della Russia), che un ulteriore “giro di vite” verso il modello dell’uomo solo al comando. Vedremo come reagiranno il partito e i suoi militanti, di cui abbiamo imparato a conoscere e rispettare la dirittura morale e ideologica.
Un disastro completo, dunque? Tutt’altro.
Come già insegnava Platone, prima di poter costruire il nuovo, bisogna distruggere il vecchio – e tanto meglio se il vecchio ci fa la cortesia di distruggersi da solo.
Dall’implosione – triste e tragica quanto si vuole – di questi tre partiti, scaturisce necessariamente il liberarsi di forze che non attendono altro che trovare un catalizzatore che sappia aggregarle su un progetto più pregnante e avanzato.
Un progetto che potrebbe chiamarsi, “Assemblea costitutiva per l’unità comunista”. Un progetto che, colpevolmente snobbato dalle dirigenze, si rivolga direttamente a tutti i militanti comunisti, traditi e abbandonati dalle segreterie nazionali, un progetto che deve coraggiosamente cogliere le condizioni oggettive che, ancora una volta, si presentano a noi con chiarezza, imponendo ai comunisti – marxisti e leninisti – di abbandonare stolide divisioni e inutili ruggini personali per unirsi ancora una volta sotto la gloriosa bandiera rossa, per lottare insieme per un futuro migliore.