“Vota il lavoro, scegli il PD!”
“Vota la scienza, scegli il PD!”
“Vota i diritti, scegli il PD!”
“Contro i finti stage, scegli il PD!”
“Un mese di stipendio in più, scegli il PD!”
Ecco, capita che tutte le persone normodotate e non affette da amnesie degenerative di mia conoscenza di fronte a questo exploit di marketing elettorale manifestino una significativa sintomatologia intestinale.
E tuttavia, con tutta evidenza, sondaggi alla mano, c’è una fetta del paese che legge o ascolta quelle frasi, digerisce benissimo e riesce persino a crederci.
C’è di che restare annichiliti.
Il punto, lo voglio dire subito, non è il PD.
Il PD è solo una pars pro toto, una sineddoche, un rappresentante esemplare del blocco dirigente dei liberali di destra e di sinistra che hanno guidato il paese negli ultimi trent’anni. Questo blocco ha fatto politiche perfettamente interscambiabili, e spesso le hanno fatte proprio insieme, salvo dichiarare regolarmente un po’ prima delle elezioni la necessità di “fare fronte”, contro le sinistre a destra, e contro le destre a sinistra.
Incredibilmente questo giochino da scuola d’infanzia funziona sempre (sono celebri le improvvisate “antifasciste” dei progressisti, che tirano fuori i pupazzi con orbace e fez per spaventare i bambini prima delle urne).
Guardando agli slogan di cui sopra, non vorrei offendere l’intelligenza dei lettori ricordando che il PD e l’allegra compagnia di gemelli diversi con cui ha condiviso il potere, sono proprio quelli che hanno, nell’ordine: alimentato orgogliosamente ogni forma di precariato, chiuso entrambi gli occhi di fronte al proliferare delle false partite IVA e dei finti stage, fatto strame dei diritti del lavoro e di quelli di cittadinanza, sostenuto tutti i governi dell’austerity, ridotto la pubblica istruzione ad addestramento alla flessibilità e alla genuflessione, ecc. Non solo, lo hanno fatto nel nome del rilancio economico e sociale del paese.
E più il paese andava a picco, più questa promessa di rilancio suonava vibrante. Lo hanno fatto nel nome di una razionalizzazione del sistema pubblico mentre lo faceva collassare in un caos di formalismi, misurazioni farlocche di prestazione, e annunci preregistrati di quanto sono dispiaciuti per il disservizio.
Ma ricordare queste ed altre cose è inutile, oltre che frustrante, perché chi ha mantenuto lucidità lo sa, e chi ha bisogno che glielo si ricordi nuota in una boccia di pesci rossi, pronto a dimenticarlo tra cinque minuti.
Chi dopo tutti questi anni ci ricasca, merita di essere rappresentato da Pregliasco come scienziato e da Fassino come profeta.
Eppure non può non colpire la completa mancanza di consapevolezza di fatti semplici.
Chi ha un briciolo di memoria ricorderà come per anni ci abbiano decantato le lodi del consumismo, dell’edonismo reaganiano, della mobilità sfrenata e obbligatoria, dell’usa e getta, della crescita economica infinita come unico dio, e a chi criticava quel costante eccesso, quella mancanza di misura si ribatteva sprezzantemente che era un attardato, un nostalgico contrario alla modernità, un arretrato.
Ed ora, con la stessa ferma arroganza, gli stessi che predicavano l’accelerazionismo liberista, dopo averci costretto tutti quanti a giocare con le loro carte fasulle, ci spiegano che dobbiamo contrarre i consumi, smettere di spostarci (mentre a metà popolazione sono stati imposti lavori lontano da casa, nel nome della flessibilità), spegnere i barbecue che inquinano, adottare protempore una francescana povertà.
Per anni l’unico naturale ed inevitabile destino era la differenziazione globale della produzione, la delocalizzazione, la rincorsa alla manodopera cinese, ai microchip di Taiwan, al cibo in container dal Sud America, e a chi criticava gli eccessi di queste dipendenze globali si replicava di nuovo che era un bamba conservatore, magari un po’ fascista, e lo si ridicolizzava come “autarchico”.
Ed ora, proprio gli stessi che fino a un momento fa ti raccontavano la fiaba dell’allegra globalizzazione che avrebbe portato pace e prosperità, e in cui nessuno doveva temere l’iperspecializzazione e la divisione del lavoro, ora questi stessi promuovono una nuova guerra fredda, dove decidono di ritirare la produzione da tutti i paesi autoritari – cioè non occidentali – gli stessi dove fino a ieri delocalizzavamo come se non ci fosse un domani.
Per anni ci hanno spiegato con malcelato disprezzo che gli stati non contavano più nulla, che c’erano solo i mercati e che inoltre eravamo tutti gioiosi cittadini del mondo; e quando gli dicevamo che non esistono mercati senza cornici legali, né cornici legali senza la forza, anche militare, degli stati, e senza confini nazionali, questi ci davano di nuovo degli sciocchi nostalgici, dei “sovranisti” che non avevano capito dove stava andando la storia.
E ora, in tempo reale, quando uno Stato superpotenza di cui siamo protettorato ci mette giù la lista dei paesi con cui possiamo commerciare e dei cittadini stranieri che dobbiamo mettere al bando, immediatamente battiamo i tacchi con tanti saluti ai cittadini del mondo no border.
Per anni ci hanno spiegato che avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, che i debiti pubblici erano il frutto della nostra sconsideratezza, e che i mercati erano giudici infallibili, contro cui nessuno poteva nulla – e che giustamente ci condannavano ad un’esistenza di stenti. E quando obiettavamo che c’erano margini per poter ristrutturare investendo, e per rinforzare il tessuto formativo e produttivo, e per arginare le scorribande dei mercati finanziari ci spiegavano che no, non era possibile, che il sistema nella sua infinita saggezza possedeva una razionalità superiore, e che da noi tutti si richiedeva soltanto di saldare i debiti, giunti oramai a soglie assolutamente insuperabili.
E poi, quando gli speculatori americani hanno fatto saltare il sistema nel 2008, quell’infinita saggezza si è trasformata in sciagurata dabbenaggine che richiedeva l’aiuto degli stati e dell’erario pubblico e di spregiudicate operazioni monetarie, immettendo nel sistema quantità pazzesche di liquidità dove prima non c’era una lira per tenere aperto un ospedale.
E una volta messo in sicurezza l’infinitamente saggio sistema finanziario, d’un tratto di nuovo non c’era più un penny per nessuno, ed eravamo tutti chiamati a ripianare con l’austerity per i nostri peccati.
Questo fino alla successiva “distruzione creativa”, dove, dopo aver distrutto una volta di più l’economia reale con decisioni dogmatiche ed arbitrarie (questa volta per ragioni di “salute pubblica”), hanno ripreso a stringere il cappio del debito, generando magicamente enormi capitali che saremo tenuti a ripianare.
E non avevamo finito di leccarci le ferite per i lockdown e i blocchi selettivi che subito la giostra è ripartita, cercando in tutti i modi la lite con il nostro principale fornitore di materie prime, mentre buttiamo paccate di soldi rifornendo di tecnologia militare a perdere il dark web.
In attesa di essere richiamati al nostro destino eterno e irredimibile di debitori sempre quasi insolventi.
E si potrebbe continuare a lungo di contraddizione in contraddizione, di naufragio in naufragio.
La verità è che la lettura del mondo, della storia, della politica, dell’economia, della cultura, dei rapporti nazionali e militari, che ci ha imposto con immensa spocchia e illimitata arroganza il ceto unico liberale al comando è stata una lettura falsa come Giuda, una sconfinata serie di menzogne e contraddizioni, con esiti sistematicamente fallimentari.
E questa gente, proprio loro, oggi, una volta ancora, ci verrà a dire che dobbiamo fidarci di loro, della loro “moderatezza” estremista, della loro lungimirante miopia, del loro talento di curatori fallimentari di una bancarotta cui ci hanno condotto con mano ferma e paternalistico rimprovero.
Certo il potere ha sempre i mezzi per indurre obbedienza, ma che ci sia gente che continua ad attribuire credibilità a questa omogenea genia neoliberale mi sembra spiegabile solo come una forma estrema di sindrome di Stoccolma.
12 Agosto 2022
* Professore di Filosofia Morale all’Università di Milano