di Fabio Parenti
La guerra in Ucraina ha aggravato la spinta inflazionistica in Europa, già registratasi nel corso del 2021 a causa della ripresa post-pandemica e dei piani di decarbonizzazione definiti al livello nazionale ed internazionale. Lo stop di Bruxelles al petrolio e al carbone russi, nonché le riduzioni nelle forniture di gas, hanno impresso, più recentemente, un’ulteriore impennata dei prezzi medi alla produzione e al consumo, così come altri effetti determinati da una serie di altre sanzioni contro la Russia. Tutto sembra remare verso una nuova recessione in Europa, da qui a pochissimi mesi. Il combinato distruttivo di una serie di shock, aggravati dalle conseguenze della guerra, ha colpito ovviamente anche la tenuta della valuta comune.
Tra scelte necessarie ed altre indotte dalla postura rigida suggerita da Washington contro la Russia, possiamo asserire in prima battuta che l’Europa stia contribuendo ad affossare se stessa. Sull’altra sponda dell’oceano, invece, si stanno raccogliendo numerosi benefici dal rafforzamento del dollaro rispetto all’euro e dalle nuove commissioni energetiche provenienti dall’Europa.
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Dall’inizio del conflitto, la divisa statunitense si è notevolmente rafforzata proprio a scapito della moneta unica europea. Lo scorso 12 luglio, per la prima volta negli ultimi vent’anni, il Dollaro ha infatti raggiunto la parità rispetto all’Euro. In una situazione normale, ciò potrebbe apparire come una buona notizia per gli esportatori dell’Eurozona grazie ad un cambio più competitivo con le valute estere, in particolare con quella statunitense. Tuttavia, in questa contingenza prevalgono senz’altro i fattori di criticità. Stante l’incertezza globale che regna sul mercato delle materie prime energetiche, proprio con diversi Paesi UE alla disperata ricerca di alternative alle forniture russe, un euro più debole rende le importazioni enormemente sconvenienti. Oltre a questi aspetti, c’è da dire che la svalutazione dell’euro è il riflesso di una perdita di fiducia internazionale verso l’eurozona, che non sembra in grado di perseguire i propri interessi autonomamente, schiacciata com’è sulle posizioni di Washington.
Se poi estendiamo il discorso a tutte le materie prime, comprese quelle agricole e minerarie, la situazione non può che evocare scenari di recessione entro la fine dell’anno. “L’intera portata della perdita di prosperità può essere vista nella bilancia commerciale tedesca a maggio, per la prima volta dal 1991, la Germania ha subito un deficit commerciale”, scriveva il tedesco Welt lo scorso 11 luglio, citato da Europa Today.
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Nello stesso periodo, l’UE nel suo complesso registrava un surplus di appena 37 miliardi di dollari, contro i 290 miliardi del maggio dell’anno precedente. Deutsche Bank, in sostanza, teme che in Europa si stia profilando un periodo prolungato di deficit commerciale e “questo potrebbe portare a una spirale negativa, con l’euro che continuerà a svalutarsi sul dollaro”.
Le manovre della Fed americana per contenere l’inflazione negli Usa stanno di fatto esportando inflazione in Europa, la quale registra un’altra preoccupante tendenza in questi ultimi mesi: lo spostamento di capitali dall’euro al dollaro, dato il differenziale dei tassi di interesse. Insomma, una vera e propria Caporetto per l’eurozona.
Nel frattempo, tra aprile e maggio scorsi era apparsa paradossale ai più la corsa del Rublo nei confronti di Euro e Dollaro. Tra maggio 2021 e maggio 2022, la valuta russa ha infatti guadagnato il 14,23% su quella statunitense, sino a raggiungere uno storico record sul Dollaro lo scorso 29 giugno con un cambio a 50.
La mossa decisa da Putin ad aprile, intimando ai partner UE di acquistare energia in rubli, ha scatenato – con pochissime defezioni, tra cui la Polonia, ormai certa dell’avvio di un nuovo gasdotto dalla Norvegia entro l’autunno – la corsa all’acquisto di valuta russa elevandone il valore sul mercato. La Banca Centrale Russa ha inoltre aumentato i tassi di interesse al 20% e imposto un limite ai prelievi di valuta estera, con l’obbligo per le aziende russe di convertire in rubli l’80% dei loro ricavi in valuta estera.
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Lo scorso 21 luglio, la Banca Centrale Europea ha deciso l’aumento dei tassi di interesse dello 0,5%, dopo l’annuncio, a giugno, di un primo rialzo dello 0,25%. Una mossa storica, a suo modo, dopo undici anni di politiche monetarie “accomodanti”, segnate dal Quantitative Easing e dalla celebre formula Whatever it takes, coniata dall’allora governatore Mario Draghi. L’obiettivo è quello di spegnere il fuoco di un’inflazione ormai prossima alla doppia cifra, per tornare gradualmente verso il parametro-base del 2% nel medio termine. Una mossa assolutamente tardiva ed inefficace, secondo molto osservatori. Inoltre, l’aumento dei tassi avrà ripercussioni sul debito pubblico dei Paesi più esposti, tra cui l’Italia che, dopo gli interventi straordinari per contrastare l’effetto pandemico, ha raggiunto un rapporto debito/PIL pari al 150,8%.
Per questo la BCE ha introdotto il cosiddetto Transmission Protection Instrument (TPI), una specie di “scudo anti-spread”. A questo strumento il Consiglio Direttivo guidato da Christine Lagarde ha assegnato il compito di assicurare che “l’orientamento di politica monetaria sia trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro”.
Eppure, questo non basterà ad escludere i pericoli delle turbolenze sui mercati perché il TPI prevede in ogni caso condizionalità e discrezionalità per il suo utilizzo. Insomma, ancora incertezze.
Sul piano “geo-finanziario”, la situazione che si sta profilando è quella di un Rublo uscito notevolmente rafforzato dallo scontro con l’UE e di un Dollaro più forte rispetto all’Euro. Sin qui una vera e propria Caporetto per la Commissione Von der Leyen, costretta a varare un piano di emergenza che prevede il razionamento del gas in caso di necessità per il prossimo inverno.
In sintesi, stiamo assistendo ad uno scenario europeo paradossale: al fine di seguire alla lettera le strategie statunitensi nello scontro con la Russia – partner economico tradizionalmente molto importante per l’Europa – l’eurozona non sembra in grado di stabilire le proprie priorità interne, contribuendo a lavorare contro se stessa. D’altra parte, l’eurozona sta vivendo una condizione di crisi prolungata che non può che minare ulteriormente la fiducia internazionale sulla sua tenuta generale. Ciò si è già riverberato sulla sfiducia crescente verso l’Euro.
2022-08-11