Karim El Sadi
Riassunte le attività di Polizia svolte dall’agente prima di essere ucciso e la trasferta di Scotto in Canada
Al processo che si celebra dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo (presidente Sergio Gulotta), contro il boss dell’Arenella Gaetano Scotto (accusato di concorso in omicidio) e Francesco Paolo Rizzuto (accusato di favoreggiamento) per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, sono stati sentiti ufficiali di polizia giudiziaria per ricostruire soprattutto le attività operative compiute da Agostino nelle settimane e mesi precedenti al delitto ma anche per comprendere le dinamiche che hanno riguardato alcuni degli imputati o dei personaggi che dalle carte risultano essere ruotati intorno all’agguato.
Gli esami degli ufficiali di pg sono intercorsi in due udienze, la prima del 23 settembre e la seconda di ieri, 30 settembre. La settimana scorsa sono stati sentiti in aula il Vice Questore di Polizia in servizio nella Dia a Palermo Stefano Maniscalco, il Tenente Colonnello dei Carabinieri di Catania Adolfo Angelosanto, e l’ispettore in servizio alla Dia di Caltanissetta Pietro Ganci. Maniscalco, in passato, si era occupato in prima persona “di effettuare accertamenti in ordine a una verifica di un eventuale coinvolgimento di personale del commissariato di San Lorenzo (dove prestava servizio Agostino, ndr) nell’espletamento di servizi di vigilanza fissa, generica o radiocollegata presso la residenza estiva del giudice Falcone all’Addaura” dove il 21 giugno 1989 si ritiene, secondo la testimonianza dell’ex commissario di San Lorenzo Saverio Montalbano, che Agostino sia riuscito a sventare un attentato dinamitardo di Cosa nostra ai danni del giudice. In questo senso l’ufficio del Vice Questore Maniscalco ha accertato, tramite una disamina di atti, “che da una nota della Squadra Mobile, la 501 del luglio 1989, emergeva effettivamente come personale del commissariato San Lorenzo avesse disimpegnato servizi di vigilanza fissa presso l’Addaura e più precisamente nelle giornate del 20 e del 21”. La circostanza è rilevante in quanto si da atto che Agostino era, appunto, effettivamente collocato temporalmente sul posto in quei giorni di giugno ma non nel servizio di vigilanza fissa quanto in quello di volante: “Denominata “Volante San Lorenzo 1 scorta”. “Il giorno 20 aveva svolto servizio con turno 7-13 unitamente all’agente Sebastiano Arcieri mentre il giorno 21, poco prima dell’intervento per disinnescare l’ordigno bellico, sempre in servizio scorta con l’agente Arceli e all’agente Tirindelli. Erano in tre”, ha spiegato Maniscalco. Non solo. Il teste ha riportato che Agostino in quell’anno ha anche svolto attività di ascolto intercettazioni. “Su delega orale del dottor Roberto Tartaglia ho proceduto personalmente a una rivisitazione della documentazione allora sequestrata all’agente Agostino in occasione del duplice omicidio”, ha ricordato il Vice Questore. Dalla rilettura degli atti “in possesso nel mio ufficio mi sono accorto che nella sua agenda, in cinque giornate del mese di marzo ’89 (22-23-24-25), erano riportate nell’ordine le seguenti diciture ’14-20 ascolto’ ‘8-14 ascolto’ ’14-20 ascolto’ ‘8-14 ascolto’. Ognuna in relazione alle varie giornate”. Sul punto, il teste ha riferito che da un esame cartolare “abbiamo ritrovato ordini di Servizio del commissariato San Lorenzo afferenti ad alcune giornate di marzo e in due ordini di servizio del 24 e del 30 marzo dove c’era scritto effettivamente che Nino Agostino era comandato di servizio di Sala Ascolto”.
Lo scontro sulla produzione della richiesta di archiviazione di Aiello
A seguire è stato il turno dell’ufficiale Adolfo Angelosanto che in passato a Catania fece attività ricognitiva di elementi già acquisiti sul conto di Giovanni Aiello (alias “faccia da mostro” (alias “faccia da mostro”), l’ex poliziotto e agente segreto deceduto nel 2017 che si pensa essere coinvolto nell’agguato del 5 agosto ’89. La deposizione di Angelosanto è avvenuta dopo qualche minuto di dibattito tra le parti, avviato con la richiesta di produzione, da parte dell’avvocato Giuseppe Scozzola (difensore di Scotto), della richiesta di archiviazione e il relativo decreto di archiviazione del fascicolo della procura di Catania contro Aiello e la 007 Virginia Gargano. Un’inchiesta del 2014 in cui si inquadravano i presunti rapporti di Aiello col clan Laudani di Catania. Una richiesta, quella dell’avvocato, analoga a quella avanzata nell’udienza precedente dalla procura generale, sempre su Aiello, circa la produzione dell’ampia richiesta di archiviazione e il relativo decreto di archiviazione redatto a Caltanissetta per il quale Scozzola si era riservato di pronunciarsi mentre l’avvocato di parte civile Fabio Repici si era opposto (in riferimento alla richiesta di archiviazione). Sulla produzione delle carte di Catania la procura si è espressa con favore. “Io penso sia opportuno prendere questo documento e portarlo a visione della corte”, ha detto il pm Umberto De Aglio. “Questa situazione in qualche modo mi consente di fare alcune precisazioni rispetto all’analoga richiesta che abbiamo fatto la scorsa udienza. Noi siamo assolutamente consapevoli del modestissimo rilievo probatorio che può assumere la produzione di un provvedimento di questo tipo, che attesta solamente un fatto solito che in quel contesto investigativo, in base a quelle risultanze, si è arrivati all’archiviazione in una fase di indagine preliminare. Al tempo stesso, nel momento in cui all’interno di questi provvedimenti vengono svolte argomentazioni attinenti al nostro processo e che tendenzialmente possono anche in contrasto con la nostra linea di accusa, per come riteniamo il nostro ruolo, con queste argomentazioni ci vogliamo confrontare, le vogliamo comunque esaminare per dimostrare invece la validità del nostro impianto accusatorio”. La posizione di De Aglio, però, ha trovato il muro di Repici che si è opposto alla richiesta di produzione come nella scorsa udienza.
“Non ho del tutto compreso i limiti indicati dal pubblico ministero”, ha esordito. “E’ stato convocato un testimone che ha riferito su indagini svolte in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, nulla osta all’acquisizione di un provvedimento che prova l’unica cosa che può provare e cioè che le indagini si conclusero con un’archiviazione. Per provare questo si acquisisce un decreto di archiviazione che naturalmente è utilizzabile solo al fine di comprovare che in quella data il gip presso il Tribunale di Catania dispose l’archiviazione. Le motivazioni invece sono del tutto inconferenti con qualunque valenza probatoria”, ha spiegato. “Nel senso che il motivo per cui lo stesso gip, ma ancora meno, il motivo per cui il pubblico ministero ha ritenuto la notizia di reato infondata o comunque non proseguitile, è cosa che a noi non può interessare, tantomeno mi sembra ragionevole quando addirittura una di quelle richieste sia sottoscritta da uno stesso magistrato che poi in questo dibattimento deve sostenere l’accusa contra sé oppure contro le argomentazioni che ha già espresso in passato”. Repici si è quindi opposto alla richiesta tranne per la produzione del decreto di archiviazione.
Aiello e il clan Laudani
Quindi il presidente della Corte ha stabilito la deposizione del teste che ha raccontato di aver svolto “attività investigativa delegata dalla procura di Catania negli anni che vanno dal 2012-2014 e l’attività investigativa è stata rendicontato in un’informativa depositata qualche tempo dopo nell’ambito, appunto, del procedimento penale a carico di Giovanni Aiello”. Angelosanto ha riferito che “è stata fatta una preliminare rivisitazione di un’attività investigativa relativa un procedimento penale della procura di Caltanissetta che aveva delegato la Dia Caltanissetta nell’ambito della quale erano stati sentiti alcuni collaboratori di giustizia che erano state fatte intercettazioni ed era stato individuato Aiello come già appartenente alla Polizia di Stato e poi successivamente individuato come appartenente ai servizi segreti in rapporto con le famiglie di Cosa nostra”.
All’esito di questa rivisitazione degli atti del procedimento nisseno, il teste ha spiegato che era stata fatta “un’analisi delle dichiarazioni che nel tempo erano state rese dai collaboratori di giustizia di Cosa nostra catanese e tra questi rilevavano dichiarazioni rese da appartenenti al clan Laudani, nello specifico di Giuseppe Laudani e Giuseppe Maria Di Giacomo, due esponenti di spicco del clan, che parlavano di appartenenti alle forze di polizia che in qualche modo erano a disposizione e facevano parte di una rete istituzionale di quello che era stato il capo clan, Gaetano Laudani, padre del collaboratore Giuseppe fino al 1992 quando era stato ammazzato”. Dopo le analisi di questi due collaboratori, era “stato sentito per circostanziare meglio il rapporto che Aiello potesse avere con il clan Laudani anche Consolato Villani, del clan Lo Giudice, che in qualche modo fornì indicazioni ulteriori circa i rapporti di Aiello con i Laudani”. Inoltre l’ufficiale ha detto che era stata svolta “un’attività di intercettazione su quelli che erano stati individuati come Giovanni Aiello, Virginia Gargano e la moglie di Aiello che si riteneva potesse in qualche modo sapere quelle che erano state le vicende che avevano coinvolto il marito”. Vennero quindi fatte attività di intercettazione telefoniche e ambientali su questi. E durante questa attività di intercettazione a gennaio 2014 fu fatta una perquisizione delegata dalla procura di Catania e da quella di Reggio Calabria e Caltanissetta in cui furono ritrovati una serie di oggetti e documenti “tra i quali una ventina di orologi, oltre a una serie di documentazione che si riteneva in qualche modo potesse riscontrare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano parlato di pagamenti a titolo di compenso ad Aiello in orologi”. Infine “furono rinvenute due ricevute di depositi di titoli per somme intorno al miliardo di lire”.
Quell’intercettazione mancata nella “baracca” di “faccia da mostro”
Cifre di cui ha parlato anche il teste successivo Pietro Ganci, intervenuto nell’aula bunker dell’Ucciardone dopo la rapida deposizione dell’ufficiale Salvatore Bonferraro. L’ispettore della Dia Ganci è stato sentito, in particolare, in merito alla pubblicazione di un articolo sull’Espresso del 26 maggio 2011 riguardanti le stragi di mafia del ’92 e la figura di Aiello, il quale, intercettato al telefono, venne a conoscenza dell’articolo. “Faccia da mostro” commentò l’articolo con l’amico Giovanni Carrara “che noi sentimmo”. “Aiello addirittura gli disse di comprare L’Espresso perché si parlava di lui… un po’ per vantarsi”, ha raccontato Ganci. Era il 5 giugno. Al tempo, Aiello era sottoposto a intercettazione, con microspie installate nella “baracca” – la “dimora che utilizzava giornalmente a ridosso della spiaggia” a Montauro in Calabria – ma il teste ha detto di non sapere se ne avesse consapevolezza anche se “esternò questa cosa anche con lo stesso Carrara dicendo ‘sicuramente sarò imbottito di microspie’ ma lo disse così…”. “Non so se ne avesse consapevolezza nella realtà”, ha ribadito. Aiello, quindi, contattò Carrara e dopo avergli detto di portare L’Espresso ha fissato un orario per l’incontro intorno alle quattro e mezza. Da quanto risulta nell’informativa la capostazione ambientale nella baracca era cessata l’1 giugno 2010 e fu riattivata solo il 21 settembre. “Quando voi captaste questa telefonata con cui Aiello diede appuntamento a Carrara chiedeste l’attivazione di un decreto di attivazione di urgenza per captare a livello ambientale quell’incontro?”, ha chiesto Repici.
“Anche se non lo chiedevamo… non è una cosa così semplice attivarsi per andare a mettere di nuovo l’ambientale nella baracca.. bisogna predisporre tutto un servizio”, ha risposto il teste. “Ci avete provato?”, ha domandato l’avvocato. “C’è stato un tentativo che non è andato a buon fine e poi abbiamo ritentato dopo”, ha affermato Ganci dicendo che quel giorno il tentativo non venne fatto. “Quindi si perse questa occasione sostanzialmente… Non ci fu occasione di captazione di questo incontro fra i due”, ha chiesto nuovamente il legale. “No, non ci fu”, ha confermato Ganci.
Il teste ha spiegato che la cimice, attiva fino al 1° giugno, smise di funzionare perché si erano scaricate le batterie. “E lei come fa a dire che erano scariche?”, gli ha quindi domandato l’avvocato. “Perché è così… perché le batterie si scaricano”. Quindi sempre l’avvocato di parte civile gli ha domandato, “finché l’intercettazione era autorizzata, fu in essere oppure cessò per carenza di ricarica batterie?”. “Questo non me lo ricordo – ha detto l’ufficiale – ma abbiamo specificato bene che molte volte siccome il segnale andava via ripetitore si verificavano moltissimi guasti dove noi non avevamo conversazioni pur sapendo che là c’erano persone che parlavano”. “I guasti però sono cosa diversa dalla batteria scarica…”, ha puntualizzato Repici. “Sì, questo sì…”. Quindi, a fine esame, il legale ha rivolto una domanda diretta al teste. “La telefonata da voi intercettata il 26 maggio 2010, quella ‘Compra L’Espresso’, quindi intercettata prima dell’intercettazione ambientale della baracca del 1° giugno 2010 è stata fatta oggetto di richieste di proroghe delle intercettazioni diverse da quelle sulla baracca?”. “Sicuramente sì – ha risposto Ganci – se abbiamo continuato un motivo ci sarà stato”.
L’udienza del 30 settembre
All’apertura dell’udienza successiva, quella di venerdì 30 settembre, l’avvocato Scozzola ha sciolto la riserva in merito alla richiesta di produzione della procura generale della richiesta di archiviazione e del decreto di archiviazione del 2018 del fascicolo di Caltanissetta su Aiello dando il consenso. Quindi anche la Corte ha prestato il consenso all’acquisizione nonostante l’opposizione di Repici alla quale si erano associati, nell’udienza precedente, gli altri avvocati di parte civile Monastra, Grassa e Bennici. Quindi è stato dato il via alla deposizione di Rosario Procapo, sostituto commissario della polizia di Stato in servizio a Palermo che nel 1984 conobbe Agostino e ci lavorò insieme per un anno in Polizia. Anche Procapo ha confermato che Agostino nel marzo ’89 svolse attività di ascolto di intercettazioni. Inoltre all’ufficiale è stato chiesto riguardo alla permanenza dell’imputato Scotto a Chiavari dove viveva con la ex compagna Maura Tamagna, conosciuta in un locale intorno alle festività natalizie del ’94, e dove venne arrestato una volta nel 2001. Sulla linea temporale della convivenza la donna, che oggi ha 95 anni, sentita da Procapo aveva fornito date confuse per via della difficoltà di memoria. “Secondo le nostre ipotesi c’è una forbice temporale”, ha detto il teste, che va “dal ’94 al ’96” come periodo di durata della loro relazione e convivenza, il che coinciderebbe, a detta del teste, con il viaggio in Canada del 1995, sul quale si sono concentrate le domande del pm Domenico Gozzo. Tempo dopo quel viaggio, durato tre mesi secondo le ipotesi investigative del teste, Scotto si sarebbe recato a Chiavari, quando era latitante, per “fare ottenere una dichiarazione a Maura Tamagna”. In particolare Scotto avrebbe chiesto alla Tamagna di “avere una conferma che lui nei due anni in cui era stato con la signora non aveva mai lasciato Chiavari, e che quindi era sempre stato presente là”. Tutto ciò nasce, ha spiegato il teste, “perché c’era stato il collaboratore di giustizia Oreste Pagano che aveva dichiarato che nel giugno 1995 Scotto aveva partecipato a un matrimonio in Canada del figlio del vecchio boss di Montreàl Nick Rizzuto in occasione del quale aveva conosciuto Gaetano Scotto che gli era stato indicato da alcuni presenti come soggetto che si sottraeva alla cattura in Italia e che era implicato nell’omicidio di un poliziotto e della moglie”, ha affermato Procapo. “Quindi quando veniamo a conoscenza di questo viaggio di Scotto ci attiviamo e parte un’attività che culmina nel successivo mese di giugno quando facciamo una perquisizione a casa della Tamagna a Chiavari, la sentiamo e sentiamo le due figlie per capire qual era nello specifico questa richiesta del signor Scotto”. Altro elemento interessante, che circoscrive l’argomento della latitanza di Scotto e la sua lontananza dalla località ligure, era che capitava, come ha riferito il teste, che il boss consegnasse il suo cane alla signora Tamagna quando si allontanava da Chiavari. “C’è questo elemento e lei lo afferma con certezza”, ha detto Procapo in aula. L’udienza è stata rinviata al 7 ottobre con l’escussione di altri cinque testi.