Antonio Scaglione e Maria Scaglione
Il 5 maggio del 1971, in via dei Cipressi, a Palermo, furono uccisi il Procuratore capo della Repubblica, Pietro Scaglione, e l’agente Antonio Lorusso, entrambi riconosciuti con Decreto ministeriale “vittime del dovere e della mafia” e insigniti dal Presidente della Repubblica della “Medaglia d’oro al merito civile alla memoria”.
Nella motivazione del provvedimento si legge: “Fu vittima di un attacco della mafia. Magistrato assurto ai più alti incarichi, sempre impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, perse la vita in un agguato, unitamente all’Appuntato del Corpo degli Agenti di Custodia Antonio Lorusso, mentre era in auto, a seguito di colpi d’arma da fuoco. Straordinario esempio di senso del dovere e di spirito di sacrificio. 5 maggio 1971.Palermo”.
L’ Anniversario del delitto sarà, tra l’altro, ricordato a Palermo, venerdì 5 maggio, nell’ambito del Convegno in memoria sul tema “Mafia e Antimafia: l’attualità delle origini” (che avrà luogo alle ore 16:15 presso il Centro culturale Biotos in Via XII Gennaio, 2 a Palermo), organizzato dai familiari, dalla Fondazione Società siciliana per la Storia Patria e dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (sezioni di Sicilia e di Palermo).
Al Convegno (incentrato in particolare sulle vicende della seconda metà dell’Ottocento e del primo ventennio del Novecento) interverranno i professori Giovanni Puglisi (Presidente della Società siciliana di Storia Patria), Antonio Scaglione, Giuseppe Carlo Marino (storico), Umberto Santino (Presidente del Centro Impastato), Francesco Callari, l’ex Direttore del Dap Bernardo Petralia, il giornalista Dino Paternostro e il Coordinatore dell’Anpi-Sicilia e Presidente dell’Anpi Palermo Ottavio Terranova.
Pietro Scaglione, iniziò la sua lunga carriera di giudice e di pubblico ministero nel 1928, dimostrando “indipendenza di giudizio anche durante il ventennio fascista” (come scrissero i giornalisti Enzo Perrone e Rosario Poma nel volume “La mafia: nonni e nipoti”, Vallecchi, Firenze, 1971).
“Magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluta onestà morale, persecutore spietato della mafia, le cui indiscusse doti morali e professionali risultano chiaramente dagli atti” – così come è stato definito anche in sentenze irrevocabili – si occupò dei più gravi misteri siciliani, per accertarne la verità e assicurarne i colpevoli alla giustizia, impegnandosi anche attivamente in difesa dell’autonomia dei magistrati dal potere esecutivo.
In particolare, con riferimento alla strage di Portella della Ginestra del primo maggio del 1947, Pietro Scaglione, all’epoca Sostituto procuratore generale, nel 1953 definì l’uccisione dei contadini come un “delitto infame, ripugnante e abominevole” e accreditò come principali moventi: la “difesa del latifondo e dei latifondisti”; la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Salvatore Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”; la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”; la “punizione” contro i contadini che occupavano le terre.
Il pubblico ministero Pietro Scaglione aveva pure individuato in quegli anni la rilevante pericolosità criminale della cosca mafiosa corleonese. Tra l’altro, Scaglione chiese e ottenne il rinvio a giudizio per i mafiosi Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, imputati dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto e sostenne anche l’accusa in dibattimento per uno tra i primi delitti commessi da Luciano Liggio, nel 1945, l’omicidio della guardia campestre, Calogero Comajanni.
Si occupò anche degli assassini di altri sindacalisti, tra i quali Salvatore Carnevale, evidenziando, nella requisitoria del 1956, la coraggiosa figura della vittima e le lotte contadine, parlando di “febbre della terra” e scrivendo che l’attività di Carnevale era temuta da coloro che avevano interesse al mantenimento del sistema latifondista e del potere mafioso.
Dopo avere assunto nel 1962 la carica di Procuratore capo della Repubblica di Palermo e dopo la strage di Ciaculli del 1963, Pietro Scaglione promosse con il giudice istruttore Cesare Terranova (ucciso nel 1979 insieme con il maresciallo Lenin Mancuso), un’efficace azione antimafia, a seguito della quale Cosa nostra fu scardinata e dispersa e fu addirittura sciolta la Commissione provinciale.
Il magistrato avviò, anche, numerose inchieste a carico di politici, di amministratori e di colletti bianchi, come risulta dagli atti giudiziari e dalla testimonianza del giornalista Mario Francese (ucciso nel 1979). Come scrisse Francese, infatti, “Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia avesse origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni. E’ il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra l’alto magistrato e i politici, il tempo in cui la linea Scaglione portò ad una serie di procedimenti per peculato o per interesse privato in atti di ufficio nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici”. Il grave riacutizzarsi del fenomeno mafioso, negli anni 1969-1971, “aveva indotto Scaglione ad intensificare la sua opera di bonifica sociale”, infatti, richieste di “misure di prevenzione e procedimenti contro pubblici amministratori …hanno caratterizzato l’ultimo periodo di attività del Procuratore capo della Repubblica” (Il giudice degli anni più caldi, in il Giornale di Sicilia, 6 maggio 1971, p. 3).
Scaglione si occupò anche della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel settembre del 1970: l’intervento della Procura della Repubblica, diretta da Pietro Scaglione fu “attivissimo” come è stato accertato in sede giudiziaria e come dichiarò, anche, la moglie del giornalista scomparso nel periodico “La Domenica del Corriere” del 13/6/1972.
Il Procuratore Scaglione svolse altresì, con impegno e dedizione, la funzione di Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei detenuti ed ai soggetti liberati dal carcere, promuovendo, tra l’altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della Giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro.
Le causali dell’omicidio del Procuratore Scaglione furono plurime: vendicative per il ruolo di inflessibile persecutore della mafia svolto dal magistrato; preventive, per evitare future sue iniziative pericolose per “Cosa Nostra” e i poteri collusi; eversive, in un contesto attuativo anche in Sicilia della “strategia della tensione”, come, tra l’altro, dichiararono anche i principali collaboratori di giustizia.
Lo storico Francesco Renda scrisse che le causali dei delitti Scaglione e De Mauro erano “inequivocabili”: “Si trattava di una ripresa del terrorismo mafioso tipo 1946-1948, non più, però, contro dirigenti sindacali e politici del mondo contadino, bensì contro la stampa e un corpo essenziale dello Stato, come l’organo giudiziario” (Storia della mafia. Come, dove, quando, Palermo, Sigma edizioni, 1997, p. 374).
In questo contesto, “l’uccisione di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo” – come affermò a sua volta Giovanni Falcone – aveva, comunque, “lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino” (in Interventi e proposte, Sansoni, 1994, p. 310; e in La Posta in gioco, edizioni Bur, Rizzoli, 2011, p. 320).
Ed ancora, “a partire dagli anni settanta – come Paolo Borsellino affermò (in La Sicilia, 2 febbraio 1987, p. 1 e in L’Ora, 2 febbraio 1987, p. 10) – la mafia condusse una campagna d’eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione”.