di Gianni Barbacetto e Antonio Massari
Una sentenza contraddittoria e sbagliata, da ribaltare in appello. È quanto sostengono gli avvocati di Piercamillo Davigo, Francesco Borasi e – nuovo ingresso – Davide Steccanella, nel loro ricorso alla Corte d’appello di Brescia contro la condanna per rivelazione di segreto: 1 anno e 3 mesi per aver diffuso i verbali in cui l’avvocato dell’Eni Piero Amara raccontava le gesta della presunta “loggia Ungheria”.
La sentenza impugnata, scrivono i legali, nella prima parte ricostruisce i fatti “in termini che escludevano in radice, e con assoluta certezza, qualsivoglia rilevanza penale alla condotta dell’imputato”. Nella seconda parte (da pagina 66 in poi) si contraddice, giungendo alla decisione di condannare. Con “conclusioni fattuali e giuridiche (…) del tutto erronee in quanto supportate” da “plurimi travisamenti del dato acquisito”; da “inserzioni suggestive” con “considerazioni ‘dietrologiche’ su asserite ‘motivazioni personali’ o complotti tra colleghi prive di riscontro alcuno”; e da “interpretazioni giuridiche delle norme invocate del tutto non condivisibili”.
Il reato, ovvero la violazione del segreto d’ufficio, si sarebbe consumato nel momento in cui il pm di Milano Paolo Storari affida i verbali segreti a Davigo (in quanto membro del Csm, per tutelarsi nei confronti di quella che ritiene una inerzia investigativa dei suoi superiori a proposito delle rivelazioni di Amara). Ma Storari è stato assolto in via definitiva, mentre Davigo è stato condannato in primo grado per aver “rafforzato il proposito criminoso di Storari”: proposito criminoso già escluso dalla stessa Corte d’appello di Brescia che ha assolto Storari e ora dovrà giudicare Davigo.
La sentenza – continuano i legali – “in più punti adombra” l’“equivoco” che Davigo “fosse mosso da un interesse di natura personale per danneggiare” il collega Sebastiano Ardita, anch’egli membro del Csm, “con cui era in precedenza entrato in attrito”. Ma questa ipotesi viene esclusa tanto da Storari quanto dal vicepresidente del Csm David Ermini. “Ardita era un problema solo perché stava in Prima Commissione” del Csm, cioè quella a cui sarebbe arrivato l’esposto di Davigo, se avesse deciso di seguire le vie formali.
Ma Ardita era citato da Amara come membro della “logga Ungheria”: una calunnia, secondo le indagini successive, ma una buona ragione, allora, per spingere Davigo a scegliere vie informali – le comunicazioni dirette ai vertici del Csm, al vicepresidente David Ermini e al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi – per denunciare un fatto ritenuto rilevante: per mesi, “dal 6 dicembre a metà maggio, la gravissima denuncia di Amara (vera o falsa che fosse) non viene neppure formalizzata dalla Procura di Milano, nonostante le ripetute sollecitazioni”.
L’intento di Davigo era “rimettere il procedimento sui binari della legalità”. E infatti l’iscrizione nel registro degli indagati viene poi fatta “il 12 maggio, solo dopo l’intervento diretto del procuratore generale della Corte di cassazione sul procuratore della Repubblica di Milano del 7 maggio”. Davigo, “come risulta pacificamente dagli atti, si è limitato a riportare al vicepresidente (Ermini), nonché al procuratore generale (Salvi), quanto riferitogli dal dottor Storari, e va da sé che qualora quest’ultimo avesse riferito al consigliere del Csm fatti non veri, ne risponderebbe lui, e non certo il destinatario della notizia”: quand’anche le “preoccupazioni” di Storari “dovessero ritenersi oggi ingiustificate, questo non rileva per chi ebbe a raccoglierle de relato e a seguito di una di lui iniziativa”.
Gli atti giudiziari vengono segretati per tutelare le indagini – ricordano i legali di Davigo – e impedire che vengano danneggiate. È invece “di solare evidenza” che Davigo non ha “illecitamente divulgato notizie riservate su un’indagine in corso per agevolare i diretti interessati”. Aveva semmai “un intendimento esattamente opposto, ossia quello di sollecitare finalmente l’avvio di un’indagine che non era mai iniziata”. Il danno all’indagine scatta semmai molti mesi dopo, nella primavera 2021, dopo che i verbali arrivano anonimamente a due giornali e a un consigliere del Csm che ne parla in una seduta del Consiglio trasmessa da Radio radicale: ma è un danno “pacificamente attribuibile ad altri soggetti”.
Per legge, la violazione del segreto – argomentano i legali – “si riferisce unicamente al contenuto degli atti, e non già alla mera notizia di una loro esistenza”. Così vanno escluse “dalle varie condotte per cui è intervenuta condanna” le rivelazioni ai consiglieri Cavanna, Pepe, Curzio e al presidente della Commissione antimafia Morra. Ma anche a Giulia Befera e Marcella Contrafatto, “collaboratrici amministrative del magistrato, notoriamente addette ad adiuvarlo nell’attività di servizio (spesso sono loro stesse a scrivere i verbali) e alla conservazione degli atti”.
“Restano dunque le condotte di materiale consegna di copia dei verbali a Ermini e Marra, nonché quella di consentita visione a Cascini e Gigliotti”: sono quattro consiglieri del Csm, a cui non è opponibile il segreto: poiché il Csm è un “organo collegiale, una volta appurato che a detto organo di controllo non fosse opponibile la secretazione, nulla impediva la comunicazione a uno dei suoi membri”: “quei verbali erano effettivamente inoltrabili al Csm, e allora non può essere certo la modalità di invio a renderli segreti non rivelabili”.
Sono “modalità irrituali”, ma “senza alternative”, vista la situazione. E “senza dolo”. Modalità irrituali che “non integrerebbero in alcun modo il reato in esame, che punisce la violazione del segreto in qualsiasi forma esso avvenga, e non certo la forma con cui viene divulgato”. La stessa sentenza di condanna ritiene che sia stata legittima la rivelazione al procuratore generale Salvi, ma allora: “a Salvi sì e a Ermini no?”, si chiedono i legali di Davigo, “e perché mai?”.