Giorgio Bongiovanni
Condanne pesanti e relazioni pericolose. E la Premier Meloni che fa?
Preso atto dello stop, il tempo dirà se sarà temporaneo o definitivo, che la Premier Giorgia Meloni ha dato alla folle idea di rimodulazione del concorso esterno in associazione mafiosa del ministro della Giustizia Carlo Nordio, resta comunque evidente che sul fronte della lotta alla mafia questo Governo, al di là delle parole, non avrà particolari spinte antimafia. C’è chi sventolerà la bandiera dell’arresto di Matteo Messina Denaro e di chissà quanti altri capimafia, o ancora l’ultimo intervento in Consiglio di ministri in materia di intercettazioni telefoniche, ma non è solo colpendo l’ala militare che si intacca il potere delle organizzazioni criminali, inserite all’interno di un Sistema che in maniera sempre più integrata dialoga con apparati di potere, della politica, dell’economia, dell’alta finanza, della massoneria e così via. La storia delle mafie è intrisa di questi rapporti.
La litania del Governo fascista è andata in scena nei giorni scorsi a Palermo durante il convegno che abbiamo ribattezzato “anti-antimafia” organizzato da Fratelli d’Italia. L’unica relazione che ha guardato in faccia la realtà è stata quella del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, vera voce fuori dal coro di quella lunga lista di partecipanti che non hanno fatto altro che negare l’esistenza di Sistemi criminali e patti Stato-mafia.
Ma del resto cosa c’era da aspettarsi di fronte ad un Governo che ha accettato ed accetta l’appoggio di un “partito” come Forza Italia, fondato da un uomo della mafia a tutti gli effetti come Marcello Dell’Utri (condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa) e da uno che la mafia l’ha pagata, come Silvio Berlusconi (oggi deceduto), almeno fino al 1992.
Quel Berlusconi che si è incontrato, come riferito dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (testimone oculare), con boss di primissimo piano come Stefano Bontate, Gaetano Cinà e Mimmo Teresi.
Quel Berlusconi che ha avuto ospite in casa propria, come “stalliere”, Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri nel 1974. Quel Mangano, che sempre Berlusconi e Dell’Utri hanno definito più volte come “un eroe” dopo la morte.
Quello stesso Mangano che, così come commentavano i due politici in un’intercettazione del 29 novembre 1986, metteva “bombe affettuose”.
Che Forza Italia è il partito scelto dalla mafia immediatamente dopo le stragi è stato raccontato da decine e decine di collaboratori di giustizia.
Persino gli stessi boss non hanno fatto mistero di quella che fu la loro “scelta”.
Il 24 febbraio del 1994, mentre era in corso la campagna elettorale, al tribunale di Palmi, durante un processo, Giuseppe Piromalli – capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato “Facciazza”) che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest – prese la parola gridando dalla cella: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.
Un’indicazione di voto a cui Berlusconi replicherà senza prendere le distanze: “Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito”.
Anni dopo, grazie ad altre intercettazioni, si è appreso anche altro.
I carabinieri del Ros il 21 luglio 2018, grazie ad un virus informatico inoculato in uno dei dispositivi elettronici, registrano la viva voce di Giancarlo Pittelli, oggi a processo a Catanzaro nel processo Rinascita Scott con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d’ufficio (il Procuratore capo Gratteri ha chiesto una condanna a 17 anni, ndr). “Ragazzi, ragazzi, Dell’Utri… Io lo so… Perché Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia, fu Piromalli a Gioia Tauro. Non so se ci… Se ragioniamo – diceva parlando con i suoi interlocutori – Tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli. L’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… L’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni…”.
Singolare che quelle parole su Dell’Utri venivano precedute da una battuta, quanto mai eloquente, sulle motivazioni della sentenza di primo grado sulla Trattativa Stato-mafia: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul ‘Fatto Quotidiano’ della trattativa stato Mafia… Berlusconi è fottuto. Berlusconi è fottuto…”.
In primo grado Dell’Utri era stato condannato così come gli ufficiali del Ros, Mori, De Donno e Subranni. Nei successivi gradi di giudizio la sentenza è stata ribaltata con l’arrivo delle assoluzioni, ma come abbiamo scritto più volte ciò non significa che la trattativa tra Stato e mafia non ci sia stata.
Tuttavia la figura di Dell’Utri resta al centro di un’importantissima indagine a Firenze, sui mandanti esterni delle stragi che lo vedeva indagato assieme a Silvio Berlusconi, almeno fino al decesso.
Ma la storia dei politici di Forza Italia che hanno avuto a che fare con le organizzazioni criminali non si esauriscono certo qui.
Un altro politico di prima grandezza condannato definitivo a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa è Antonino D’Alì, ex senatore ed ex sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2006. Per i giudici è considerato vicino alla mafia trapanese e a Matteo Messina Denaro. Dallo scorso dicembre è rinchiuso nel carcere di Opera.
Altro politico colpito dal reato di contiguità con la criminalità organizzata è Nicola Cosentino. Napoletano di Casal di Principe è stato deputato dal 1996 al 2013 per Forza Italia e PDL e nel quarto governo Berlusconi è stato sottosegretario all’Economia e Finanze. In primo grado venne condannato a 9 anni per concorso esterno, divenuti poi 10 in Appello e infine confermati in Cassazione lo scorso aprile. Le sentenze lo ritengono il referente del clan dei Casalesi.
Non va poi dimenticato il ruolo avuto da Amedeo Matacena, deputato di Forza Italia dal 1994 al 2002 e condannato in via definitiva nel 2014 a tre anni di reclusione per essere stato contiguo alle ‘ndrine reggine. Matacena, morto a Dubai nel 2022, era accusato di avere richiesto l’appoggio elettorale della ‘Ndrangheta alla famiglia dei Rosmini.
Possibile che la Premier Giorgia Meloni, che dice di essere cresciuta con gli insegnamenti di Paolo Borsellino, non provi quantomeno imbarazzo ad avere l’appoggio di un partito che ha sempre contato su certi appoggi?
Evidentemente no se si pensa anche agli accordi stretti nelle elezioni siciliane per la Regione o per le comunali a Palermo con il sostegno dato a Renato Schifani e a Roberto Lagalla.
Entrambi, in qualche modo, hanno goduto degli “endorsement” più o meno velati di Marcello Dell’Utri (appunto uomo cerniera, secondo i giudici che lo hanno condannato in via definitiva per concorso esterno in mafia, tra i boss di Cosa nostra e Berlusconi quando il cavaliere si occupava ancora solo di televisioni e li finanziava a suon di milioni) e Totò Cuffaro (condannato a sette anni per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale aggravato dall’aver agevolato la mafia).
Nei confronti di Schifani, che ancora oggi è imputato a Caltanissetta per violazione di segreto nell’ambito del processo Montante, nel 2014 fu archiviata l’indagine per concorso esterno.
Nel decreto di archiviazione del gip Vittorio Anania si sottolineava che “in definitiva sono emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo in cui lo Schifani era attivamente impegnato nella sua attività di legale civilista ed esperto in diritto amministrativo”. Quelle relazioni, scriveva sempre il giudice, seppur intrattenute “non assumono un livello probatorio minimo per sostenere un’accusa in giudizio tanto più che, a prescindere dalla consapevolezza dell’indagato dell’effettiva caratura mafiosa dei suoi interlocutori, tali condotte si collocano per lo più in un periodo ormai lontano nel tempo (primi anni ’90) fatti per i quali opererebbe, in ogni caso, la prescrizione”.
Ciò significa che Schifani ha avuto rapporti con uomini vicini a Cosa Nostra, che però non bastano per portarlo a processo per concorso esterno alla mafia. Non era provata infatti la consapevolezza della caratura criminale dei suoi interlocutori. E anche se lo fosse stato, quei fatti (avvenuti secondo il racconto di alcuni collaboratori di giustizia tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta) erano ormai troppo lontani nel tempo e quindi già prescritti.
E tanto per parlare di altre “relazioni pericolose” non si possono dimenticare quelle che hanno riguardato Gianfranco Miccichè, ex presidente dell’Ars e oggi parlamentare, che, seppur non indagato, è finito nuovamente al centro di uno scandalo per l’acquisto di dosi di droga a Palermo, dopo quegli scandali che erano già emersi negli anni in cui era al Ministero dell’Economia.
Inutile ricordare che chi acquista cocaina non fa altro che alimentare gli affari proprio di quelle mafie che ne detengono il monopolio del mercato.
Alla luce di tutti questi fatti, vedendo questi rapporti costanti di figure di spicco della politica che hanno trovato posto anche nel nostro Parlamento, è chiaro che il concetto di Stato-Mafia e di Mafia-Stato si fa concreto. Ovviamente il rapporto mafia-politica si è consumato anche con altri partiti nel corso del tempo, ma guardando ai personaggi che abbiamo elencato è evidente che Forza Italia possa essere provocatoriamente definito come il “partito della mafia”.
Del resto qualche anno fa un altro ministro celebre del secondo governo Berlusconi, eletto sempre nelle file di Forza Italia, aveva dichiarato che con la mafia bisognava convivere. Un’idea distorta quanto grave.
Un governo che accetta l’appoggio di certi partiti che hanno sempre avuto nel proprio Dna il compromesso con certi am bienti, ostacolando quei magistrati che non hanno fatto altro che ricercare la verità, non solo rischia di essere ricattabile, ma persino complice. Chi si dice “cresciuto” come la Premier, nei valori di Paolo Borsellino dovrebbe tagliare completamente ogni tipo di laccio e lacciuolo con certe figure.
E poi diciamola la verità una volta per tutte. Forza Italia è il partito della mafia al Governo. E la mafia aspetta le risposte giuste. Altrimenti, come ha sempre fatto, potrebbe riprendere ad utilizzare quel linguaggio di bombe e violenza, così come accadde tragicamente e drammaticamente con quelle sette stragi che, tra il ’92 ed il ’94, hanno flagellato lo Stato italiano ed il suo popolo.