Negli ultimi mesi, come già ricordato, la stampa mainstream occidentale ha spesso fatto riferimento al rallentamento dell’economia cinese, preconizzando imminenti scenari di crisi nel Paese asiatico. Uno degli ultimi “articoli” che è capitato sotto i miei occhi parlava addirittura di “crescita agonizzante”. Se così fosse, noi dovremmo dichiararci, come Italia ed UE, praticamente morti, comparando i dati tendenziali.
Le recrudescenze pandemiche, che hanno costretto il governo cinese a mantenere un quadro di restrizioni, hanno avuto un impatto significativo sul PIL dello scorso anno, aumentato “solo” del 3%. Tuttavia, la crescita che aveva caratterizzato il boom “a doppia cifra” dell’economia cinese per oltre un trentennio si era già ridimensionata tra il 2013 e il 2015, inaugurando quella che la leadership aveva allora definito come “nuova normalità”, caratterizzata da crescita annuale compresa tra il 5 e il 6%. Una nuova “normalità”, dunque, legata ad un necessario processo evolutivo dell’economia e della società cinese, che rimanda alla trasformazione qualitativa e verde dell’economia del Dragone e che sta già dando i suoi frutti. La Cina, ad esempio, è divenuto il paese leader assoluto al mondo per quel che concerne brevetti ed investimenti nelle energie rinnovabili, distanziando di molto tutte le altre principali potenze mondiali.
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Questa nuova fase è emersa tramite due fattori principali, uno economico e l’altro politico. Se da una parte si è trattato del fisiologico ingresso del mercato cinese in una dimensione in cui sono i consumi interni, oltre agli investimenti fissi nel campo dell’innovazione, e non più l’export, a trainare la crescita, dall’altra tutto ciò va inserito nell’ambito di una strategia politica a lungo termine: finalizzata a costruire un sistema tecnologicamente indipendente di socialismo con caratteristiche cinesi. Il Politburo cinese ha stabilito infatti un nuovo paradigma, riformando il modello di sviluppo in base alle trasformazioni socio-economiche del Paese, a loro volta legate agli obiettivi di autonomia e sviluppo socioeconomico del 2035 e 2049.
Da quel momento, circa dieci anni fa, il modello cinese ha dato priorità alla qualità della crescita, anteponendola alla quantità, criterio che aveva invece contraddistinto la prima ascesa del colosso asiatico sulla scena economica globale. Gli obiettivi prioritari generali hanno subito riscritto l’agenda di politica economica del governo: ridimensionamento dell’industria pesante; razionalizzazione dell’industria manifatturiera; riforma strutturale dell’offerta; stimolo all’innovazione tecnologica; transizione ecologica ed energetica; riconfigurazione del sistema istruzione-formazione-lavoro; ed in ultimo, ma non meno importante, la costruzione di un sistema di welfare state avanzato ed efficiente.
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Pechino ha così messo in campo nuovi piani per lo sgravio fiscale alle piccole e medie imprese, la facilitazione dell’accesso al credito, la semplificazione normativa e amministrativa, la realizzazione di nuove infrastrutture materiali e digitali in tutto il Paese, convogliando gran parte degli investimenti diretti all’estero in alcuni settori ritenuti strategici, a partire proprio dalle infrastrutture e dall’energia, ovverosia nell’Iniziativa Belt and Road (BRI). E’ in tutto questo quadro evolutivo del modello cinese che è possibile comprendere gli assestamenti della sua economia.
Nel 2020, il Comitato Centrale ha poi elaborato più approfonditamente il concetto di doppia circolazione: una rimodulazione del rapporto tra circolazione interna ed esterna allo scopo di rafforzare le catene di approvvigionamento dei beni essenziali. La prima circolazione ha la priorità sulla seconda, che comunque mantiene un ruolo importante, soprattutto nell’ottica degli investimenti esteri in entrata nel mercato cinese e dell’import dall’estero di prodotti e servizi di alta qualità. Una corsa ponderata verso una maggiore autosufficienza che, dunque, significa tutt’altro che “chiusura”.
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Al prevedibile rallentamento dello scorso anno sta ora seguendo per la Cina, uscita da tre anni di difficoltà e volatilità, una fase di consolidamento della ripresa. L’obiettivo del 5% circa fissato a inizio anno dal governo è realisticamente raggiungibile, considerando i dati di crescita su base annua dei primi due trimestri. Pesa il tasso di disoccupazione giovanile registrato a giugno (21,3%), ma la disoccupazione complessiva nelle aree urbane si mantiene piuttosto bassa (5,2%).
Si renderanno necessari nuovi aggiustamenti ed interventi da parte del governo per scongiurare il rischio che certe criticità, al momento più che normali, possano calcificarsi mettendo in pericolo la stabilità sociale ed economica cinese. Ciò nonostante, è davvero tragicomico che certe ipotesi catastrofiste, del tutto ingiustificate, provengano da Paesi in declino, pesantemente colpiti dalle conseguenze delle scelte sulla guerra russo-ucraina, ma anche da un pluridecennale processo di relativa deindustrializzazione, nell’ambito di quella tanto sbandierata globalizzazione che oggi vorrebbero arrestare portando indietro le lancette della storia.
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L’autore Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia
2023-09-26
L’economia della Cina prosegue la “nuova normalità”