Aurora Caredda
Il quadro che emerge dalle elezioni di novembre
Le elezioni israeliane del primo novembre scorso, la quinta tornata in due anni, segnano un cambiamento storico drammatico. Registrano il trionfale ritorno sulla scena di Benjamin Netanyahu, il cui partito Likud si assicura 24 seggi, e l’affermazione, con 14 seggi, della coalizione elettorale più ultranazionalista, suprematista e razzista della storia di Israele, formata dai seguenti partiti: Sionismo religioso di Bezalel Smotrich, Potere ebraico di Itamar Ben-Gvir e Noam di Avi Maoz. Insieme a loro altri due partiti ultraortodossi: Shas, punto di riferimento degli ebrei provenienti dai paesi arabi (sefarditi e mizrahim) guidato dal pregiudicato Arye Dery (11 seggi) e Ebraismo unito della Torah degli haredim di origine ashkenazita (7 seggi) per un totale di 64 seggi su 120.
Sul fronte opposto, a conferma della crisi della sinistra, Meretz non supera la soglia, il Labour si deve accontentare di 4 seggi mentre Yesh Atid, il partito del Primo Ministro uscente, Yair Lapid, si ferma a 17 seggi. Completano il quadro di un’opposizione che sarebbe difficile immaginare più frammentata e divisa i 5 seggi ottenuti da ciascuno dei due partiti arabi, Hadash e Lista araba unita, e i 6 seggi di Israel Beiteinu, il partito, laico ma antiarabo, dell’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman.
Quattro leader dei principali cinque partiti della coalizione governativa, Netanyahu, Aryeh Deri, Bezahel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, sono in varie forme o pregiudicati o imputati in processi in corso. I partiti ultraortodossi alleati di Netanyahu sono composti esclusivamente da maschi perché entrambi non ammettono donne in ruoli legislativi e perciò le escludono in partenza dalle liste elettorali.
Il pericolo fascista
I 14 seggi guadagnati da Smotrich, Ben-Gvir e Maoz sono, secondo Yossi Klein su Haaretz del 4 novembre (“It’s Official Now: Fascism Is Us”), seggi fascisti, dato che si ispirano in larga parte alle dottrine di Kahane, il rabbino americano eletto in Parlamento nel 1984 e boicottato allora dai colleghi perché razzista, cui fu impedito di ripresentarsi alle elezioni nel 1988 perché considerato un terrorista. Itamar Ben-Gvir, il colono che guida il Partito del potere ebraico, è stato condannato per incitamento al razzismo e per aver sostenuto gruppi terroristici. Fino a qualche mese fa teneva nel suo salotto la foto di Baruch Goldstein, che il 25 febbraio del 1994 uccise 29 palestinesi in una moschea di Hebron, ferendone 125 prima di essere bloccato e ucciso. Ben-Gvir il mese scorso ha commentato come esemplare l’azione di un soldato israeliano che ha ucciso un giovane palestinese durante uno scontro nella West Bank. Bezalel Smotrich, un altro colono, leader del partito del Sionismo religioso, si considera orgogliosamente omofobo ed è perfino favorevole alla segregazione delle donne ebree e palestinesi nei reparti di maternità. In visita in Inghilterra nei mesi scorsi, è stato dichiarato persona non grata dalla stessa comunità ebraica inglese. Come nota Diana Buttu in un articolo apparso sul New York Times il 13 dicembre scorso (“Israelis Have Put Benjamin Netanyahu back In Power. Palestinians Will Surely Pay the Price”), l’atmosfera di razzismo è così pervicace che “io esito a parlare arabo o leggere la stampa araba sui trasporti pubblici”. Secondo una ricerca condotta dal Pew Research Center, il 48 per cento degli ebrei israeliani concorda con l’affermazione per cui gli arabi dovrebbero essere espulsi o trasferiti da Israele. Il dato più preoccupante è che gli Israeliani danno la responsabilità della crescita dell’estremismo e del razzismo ai palestinesi, colpevolizzando le vittime piuttosto che l’aggressore e non chiedendosi come mai il razzismo sia stato legittimato. Razzismo testimoniato dai graffiti sui muri delle moschee a Gerusalemme est che dicono: “L’unico arabo buono è quello morto” e “Kahane vive”.
Anche Esther Solomon, su Haaretz del 30 ottobre scorso (“Israel Is Sleepwalking Into Jewish Fascism”) considera il Kahanismo , una variante ebraica del fascismo, razzista, suprematista, omofobico, teocratico, fino all’altro ieri marginale, ora parte naturale del paesaggio politico israeliano. Questo risultato è da imputare anche all’apatia della sinistra che non ha offerto una valida alternativa al problema consolidato dell’occupazione dei Territori e a quello strettamente correlato dei diritti umani dei palestinesi.
Il problema dei Territori occupati
L’occupazione è invece il problema dei problemi. Netanyahu, come aveva notato Peter Beinart nel suo libro The Crisis of Zionism, del 2012, si è sempre opposto alla creazione di uno stato palestinese perché incompatibile con la sicurezza israeliana e ha promesso solennemente che non avrebbe mai evacuato i coloni, o negoziato un accordo finale con i palestinesi. La West Bank, secondo la sua visione, verrebbe divisa in un insieme di zone economiche palestinesi disconnesse e controllate da Israele. Per Beinart, Netanyahu è sulla stessa linea di Zabotinsky e di suo padre Benzion. Quello che il fondatore del Sionismo revisionista non amava degli ebrei era la credenza che essi portassero un messaggio morale al mondo mentre apprezzava la storia degli ebrei guerrieri, famosi per la fiera resistenza agli imperi del momento. “Nella moralità contemporanea, sosteneva Zabotinsky, non c’è posto per un umanismo infantile”. Nel suo libro A Durable Peace, del 2000, Netanyahu stesso afferma che smantellare gli insediamenti equivarrebbe alla creazione di una West Bank “judenrein”, uno “stato ghetto” con Israele all’interno dei confini del ’67. Eppure sull’oppressione dei palestinesi nella West Bank, ben prima del rapporto di Amnesty International, si erano già espressi Ehud Barak e Ehud Olmert che avevano paragonato la politica israeliana nei territori a una sorta di apartheid.
Israele non ha ancora formalmente annesso i territori come ha fatto con Gerusalemme Est e con le alture del Golan agli inizi degli anni ’80. Il nuovo governo Netanyahu si propone ora di accelerare l’annessione della Cisgiordania. L’accordo sottoscritto da tutta la coalizione dichiara che “il popolo ebraico ha diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le terre di Israele. Il governo promuoverà e svilupperà l’insediamento in tutte le parti della Terra d’Israele: in Galilea, Negev, Golan; in Giudea e Samaria”. Sia Ben-Gvir che Smotrich, rispettivamente Ministro della Sicurezza (che include la Polizia dei Confini attiva in Cisgiordania) e Ministro della Amministrazione Civile (responsabile degli insediamenti, delle restrizioni sulla vita quotidiana dei palestinesi, comprese le demolizioni di case), entrambi estremisti religiosi, sostengono il diritto ebraico a pregare sulla Spianata delle moschee, luogo sacro ai Musulmani, amministrato dalla Giordania secondo un protocollo accettato anche da Israele.
L’editoriale di Haaretz del 7 gennaio (“Israel’s Double Standard: There’s No Occupation, but it’s Temporary”) sottolinea il doppio standard dell’approccio del governo al problema dell’occupazione. Lo stato israeliano non si è mai preoccupato delle risoluzioni della comunità internazionale contro l’occupazione, accusando chiunque osi contestarlo di antisemitismo. Ora il nuovo governo ha imposto una serie di sanzioni contro l’Autorità palestinese per aver promosso una campagna legale presso l’ONU perché chieda alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia un parere sullo stato della prolungata occupazione. In tutta risposta il nuovo governo ha annunciato una punizione collettiva che blocca tutte le costruzioni palestinesi nell’ area C della Cisgiordania e il blocco (Haaretz parla di furto) di 39 milioni di dollari che sarebbe tenuto a trasferire alla Autorità palestinese.
Le condizioni degli arabi in Israele
Gli arabi costituiscono il 21 per cento della popolazione israeliana, circa il 20 per cento dei medici, il 25 per cento degli infermieri e quasi la metà dei farmacisti, mentre al Technion, l’importante istituto di tecnologia di Haifa, il 20 per cento degli studenti è arabo. Questo processo di mobilità ha permesso una più grande integrazione dei ceti medio-alti arabi ma al contempo ha favorito la crescita della destra sciovinista, ultranazionalista. A ciò avrebbe contribuito anche lo scontro militare con Hamas del maggio del 2021, innescato da un’incursione della polizia nella moschea Al-Aqsa e dal piano di evacuazioni dei palestinesi da Sheikh Jarra e dalla conseguente esplosione della violenza nelle città miste. La destra ebraica estremista prese di mira i residenti arabi (al grido di “morte agli arabi”) che a loro volta attaccarono gli ebrei arrivando a bruciare diverse sinagoghe.
C’è da aggiungere che le condizioni tra i beduini nel Negev e nei villaggi arabi all’interno di Israele sono miserevoli. Intere comunità subiscono la brutalità di bande criminali e le autorità amministrative locali denunciano da tempo il totale abbandono dello Stato e la mancanza di prevenzione e repressione della violenza. La qualità dell’istruzione è pessima. Basti pensare che ai test Pisa 2018, il 22 per cento degli scolari arabi israeliani delle elementari non solo si sono attestati ad un livello molto basso in matematica, scienze e comprensione del testo, ma si sono classificati all’ultimo posto della graduatoria riguardante i paesi musulmani che avevano partecipato all’indagine. In più c’è da segnalare che anche un notevole numero di ebrei ultraortodossi si trova in condizione di povertà perché non in grado di inserirsi nel mercato del lavoro a causa della inadeguatezza delle scuole che frequentano, che danno la preferenza allo studio della Torah e poca importanza a quello della matematica, delle scienze e dell’inglese.
Resta da segnalare, come amarissima nota, il numero dei palestinesi uccisi nel 2022: secondo B’Tselem 144, il più alto dal 2005.
Il ruolo della corte suprema
La fragile e disfunzionale democrazia ebraica, ma sarebbe più corretto parlare di una etnocrazia, come eminenti studiosi israeliani sottolineano da tempo, si regge anche sul contropotere esercitato dalla Corte suprema, che ha frenato gli eccessi dei governi e permesso degli avanzamenti importanti sul fronte dei diritti civili. La procuratrice generale, Gali Baharav – Miara, ha di recente messo in guardia contro la proposta di legge dell’attuale coalizione che punta a limitare il potere della Corte. Si tratta della cosiddetta “clausola di superamento”, che consentirebbe al Parlamento di legiferare anche in opposizione a sentenze della Corte. Parlando a una conferenza all’Università di Haifa, la Procuratrice ha ammonito rispetto al fatto che la legge distorcerebbe il sistema di controllo e di equilibrio tra i rami del governo. Annullerebbe aspetti importanti delle Basic laws (le leggi fondamentali) e questo per permettere a Netanyahu di nominare Arye Dery, leader dello Shas e di far parte dell’esecutivo nonostante sia stato condannato a un periodo in carcere per evasione fiscale e frode, sentenza a suo tempo sospesa a seguito delle sue dimissioni da parlamentare. Tale clausola garantirebbe de facto l’immunità a Netanyahu nei processi che lo vedono imputato di presunta corruzione e frode. La nuova legge con una maggioranza di 61 voti su 120 membri del parlamento consentirebbe di ribaltare il giudizio delle Corti, dando al potere esecutivo un potere superiore a quello giudiziario. Come ha ribadito la procuratrice: Israele diverrebbe “una democrazia solo di nome”.
Per esempio, ha spiegato Amir Tibon su Haaretz il 5 gennaio (“Explained: Netanyauhu Government’s Plan to Weaken the Justice System”), se il governo facesse passare una legge che danneggia i diritti delle donne israeliane, la Suprema Corte potrebbe bocciarla perché la discriminazione contraddice la Basic Law on Human Dignity and Liberty. Ma la clausola di superamento consentirebbe al Parlamento di approvarla ugualmente. Teoricamente, avverte il giornalista, il governo potrebbe chiudere Haaretz e mettere fuorilegge i partiti d’opposizione o cambiare le regole delle elezioni. Il governo vorrebbe inoltre poter nominare i giudici per avere il controllo ferreo delle Corti. Basti pensare che i partiti religiosi vedono la Corte Suprema come fumo negli occhi, come una forza liberalizzante della società israeliana. Nelle ultime decadi tutti i progressi, per esempio i diritti LGBTQ, sono avvenuti per decisione della Corte e non per via legislativa.
Secondo il precedente Ministro della Giustizia, Gideon Sa’ar, i cambiamenti drammatici nel sistema legislativo di Israele equivalgono a un colpo di Stato legale.
I riflessi sulla condizione delle donne
Il nuovo governo dà un colpo devastante alla causa del pluralismo religioso in Israele. Ciò comporterà tra l’altro la messa al bando delle Women of the Wall, il gruppo femminista di preghiera di Gerusalemme cui non sarà più consentita la preghiera al Muro del Pianto e cancellerà il riconoscimento di tutte le conversioni non eseguite dal sistema di controllo del Rabbinato, oltre a ridurre il numero di persone che hanno diritto ad emigrare in Israele grazie alla legge del Ritorno.
E’ stato detto anche che il nuovo governo che non ratificherà la Convenzione di Istanbul per combattere la violenza contro le donne. I paesi che stipulano la Convenzione dovrebbero legiferare sulla prevenzione della violenza domestica e la protezione delle vittime. Tra i non firmatari figurano la Bulgaria, l’Ungheria e la stessa Turchia. La Convenzione è stata osteggiata anche per il timore che avrebbe aperto le porte alle donne richiedenti asilo in Israele in fuga dalla violenza domestica.
Il peso dei partiti ultraortodossi provocherà, secondo Yofi Tirosh, giurista dell’Università di Tel Aviv, una profonda regressione: il solo fatto che due dei partiti religiosi non accettino apertamente le donne nelle loro liste è il segnale che ha dato la stura a una mascolinità tossica che ridefinirà l’intera cultura e la società israeliana. Le corti rabbiniche espanderanno il loro potere non solo all’interno della famiglia ma anche nella società civile. Composte da soli maschi e con una visione patriarcale e misogina, legifereranno non solo riguardo al matrimonio (in Israele non esiste quello civile) e al divorzio ma su tutto l’ambito del diritto di famiglia e sul diritto civile. La segregazione di genere verrà allargata in molti luoghi della sfera pubblica, come nei bus, con linee separate o nelle spiagge. Già ora esistono spazi segregati nelle scuole di ogni ordine per gli Haredim e in alcuni campus si tengono corsi per sole donne o per soli maschi. Anche alcune aziende private si stanno adeguando e impiegano solo uomini o solo donne in spazi separati. Si sta proponendo anche la possibilità di rifiutare i servizi medici ai gay, o per un albergatore di rifiutare una camera per motivi di compatibilità religiosa. Queste forme di tribalismo, è importante dirlo, non sono fatte proprie da molti ortodossi religiosi che rimangono fedeli ai principi democratici.
Il Sionismo religioso ha garantito solo tre seggi alle donne su un totale di 14. Anche il Likud ha solo 6 donne nei 32 seggi guadagnati. I gruppi di sostegno delle donne stanno già lanciando l’allarme perché la sottorappresentanza ridurrà la motivazione del governo ad affrontare problemi critici come il femminicidio, la molestia sessuale, la violenza domestica, l’eguaglianza salariale, l’accesso all’aborto. Quaranta dei sessantacinque membri della coalizione sono ebrei ultraortodossi. Il 65 per cento. Lontano dal 17 per cento della porzione loro assegnata nella popolazione generale.
Per tutte le ragioni qui esposte esiste il pericolo fondato che, con questa maggioranza e viste queste premesse, il governo di Israele, oltre che etnonazionalista, si avvii ad assumere le forme di una vera e propria teocrazia. Contro tali prospettive, comincia a realizzarsi l’opposizione della cittadinanza, come dimostra la manifestazione contro le proposte di legge del governo e per la parità tra ebrei e palestinesi, tenutasi a Tel Aviv il 7 gennaio scorso.
9 Ottobre 2023