Gianfranco Pala
G. Pala, n. 18.12.1940 – m. 14.11.2023. Già docente di Economia Matematica e Economia Politica presso la Sapienza, Università di Roma, è stato fondatore dell’Associazione marxista Contraddizione, che ha dato luogo alla rivista dello stesso nome, dal 1987 al 2015, conclusa solo per esaurimento delle forze necessarie. Ha lasciato un patrimonio di libri ed articoli su varie tematiche analizzate sulla base rigorosa delle analisi marxiane, in parte interne alla suddetta rivista, in parte pubblicate con editori vari, anche a livello internazionale. Per chi fosse interessato, numerose pubblicazioni sono rintracciabili sul sito internet gianfrancopala.altervista.org/.
L’articolo in questione, “All’operaio non far sapere”, scritto per la rivista Invarianti nel 1994, ha preso in considerazione l’attività svolta da R. Panzieri in merito all’ “Inchiesta operaia”. Nonostante il divario temporale, e pertanto i riferimenti storici menzionati, l’analisi tocca approfonditamente moltissimi aspetti della nostra attualità, e soprattutto indica un metodo rigoroso nel concepire ed affrontare il rapporto capitale/lavoro fondato sullo sfruttamento, all’interno del mercato mondiale. L’inanità politica e sindacale del nostro presente può essere quindi confrontata con i princìpi dell’analisi di Marx, definita obsoleta e mandata al macero dalla ideologizzazione dominante del frazionamento borghese, che altrimenti potrebbe temere di vedersi sottratto il potere di comando sul lavoro e la società tutta.
Si ripropone quindi la pubblicazione di questo articolo non solo in memoria del compagno Gianfranco Pala, ma soprattutto per la memoria, quasi scomparsa o diventata ormai incomprensibile, delle analisi necessarie alla formazione delle coscienze sulle proprie condizioni oggettive di vita, che incanalano sempre più verso il basso le differenze sociali delle classi subalterne, rese ricattabili e inermi.
C.F.
°°
gfp.130 – Invarianti, 25, Roma 1994
ALL’OPERAIO NON FAR SAPERE
quant’è bello il lavoro col potere – per una moderna inchiesta operaia
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L’inchiesta operaia, sì, va bene, purché non si sia catturati dal “mito dell’inchiesta”. La storia non si ripete neppure una volta, senza rischiare la farsa, figuriamoci due o più. Nondimeno la storia ritorna, e nel ricorso si rinnova. Vediamo allora nel nuovo corso del capitale – il nuovo ordine mondiale della sua forma monopolistica finanziaria transnazionale, in un contesto prepotentemente teso verso un assetto neocorporativo – che cosa possa essere “richiesto” ai lavoratori (e perché proprio a loro), per quali ragioni e con quali finalità.
Per rispondere a queste domande, cerchiamo di capire quali caratteri assuma una “inchiesta” per essere, come può essere ancora oggi, uno strumento di grande rilievo per la crescita scientifica – nel senso del socialismo scientifico, l’unica forma possibile di preparazione materiale e sociale del comunismo – della coscienza critica emancipata tra le file del proletariato. Diciamo del proletariato – ossia del lavoro salariato, dipendente – dell’intero proletariato e non solo dei “comunisti” [di chi si ritenga tale o comunque si collochi già, soggettivamente, nel campo socialista o nell’area di sinistra]. Ciò proprio perché la costruzione del soggetto storico sociale rivoluzionario – proletari, e non solo, che antepongano il loro essere comunisti a ogni altra qualificazione sociale – implica un processo “lungo e tormentoso”, direbbe Marx, che non può fermarsi alla coscienza immediata della diversità e dell’antagonismo direttamente poggiati sull’insopportabilità della vita quotidiana.
“La classe operaia non deve esagerare a se stessa il risultato finale della lotta quotidiana, non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale. Essa – disse Marx ai lavoratori della I internazionale – deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società”. Questo commento marxiano conclude opportunamente il nostro primo insieme di osservazioni, che serve a inquadrare subito gli elementi qualificanti, e parimenti quelli illusori e fuorvianti, per lo strumento dell’inchiesta.
Il rispetto dell’aspetto critico scientifico dell’inchiesta comporta allora due determinazioni fondamentali: i) l’oggettività delle conoscenze reali sulle quali, soltanto, il soggetto rivoluzionario può crescere – “quello sviluppo intellettuale della classe operaia che scaturisce dall’azione comune e dalla discussione”, come scrisse Engels confermando tanti anni più tardi, dopo la morte di Marx, le concezioni del suo compagno; ii) la formazione politica e culturale autonomamente organizzata – che comporta, nell’àmbito dello studio più generale, la preparazione, lo svolgimento e soprattutto la discussione, anche dell’inchiesta stessa, tra i lavoratori protagonisti e quanti altri vi partecipino. L’inchiesta come tale, dunque, è concepita per rivestire carattere continuativo e sistematico, non episodico e occasionale, cioè non una inchiesta che cominci e finisca, bensì un metodo complessivo di lavoro politico.
Ma allora, proprio per assicurarle quel suo duplice carattere appena indicato, che le conferisce serietà scientifica e senso politico, segnaliamo anche quei punti che – se lasciati crescere su se stessi, senza arginarli sùbito entro limiti ristretti di tollerabilità, verso un troppo facile convenzionalismo populista e soggettivista – degradano l’inchiesta al suo mito. Diversi richiami recenti, che hanno riproposto o ripropongono l’“inchiesta” come asse portante di intervento politico, scivolano immancabilmente in quella “mitologia” oltre il tollerabile. [E ciò va detto anche per le esperienze che presentano insieme pure gli elementi qualificanti di cui abbiamo detto – come la più conosciuta, incompiuta, avviata dai Quaderni Rossi quasi trent’anni or sono].
L’oggettività delle conoscenze ottenibili da un’inchiesta, quale che sia, è la prima condizione della sua opportunità e validità. Naturalmente, la finalità conoscitiva di essa può essere solo mirata e quindi, per definizione, parziale, sia in quanto circoscritta sia in quanto di parte. Se ciò era già vero il secolo scorso, lo è ancor più oggi – diventando semmai relativamente preponderante il suo esser di parte. Infatti, la maggioranza delle notizie che si traggono dall’inchiesta non possono che riguardare dati oggettivi della condizione operaia. La “parzialità” dunque, nella seconda accezione, consiste principalmente, se non unicamente, nello svelare le “infamie dello sfruttamento capitalistico” – come si legge nella presentazione della famosa “inchiesta operaia” francese sulla Revue socialiste del 20 aprile 1880. Si trattava e si tratta, cioè, portare alla luce quei “fatti e misfatti”, relativi all’organizzazione del lavoro e al processo di produzione e di vita, che il potere borghese deliberatamente occulta o quanto meno mistifica [cfr. documento marxiano].
Tuttavia, occorre considerare la questione in una prospettiva storica. La mera attenzione conoscitiva rivolta ai problemi del lavoro cominciava appena a farsi strada – mossa dalle esigenze immediate del capitale, ma non per questo perdendo di rilevanza oggettiva – alla metà del secolo scorso in Inghilterra. Marx basò gran parte delle sue considerazioni sul sistema di fabbrica per la sua critica dell’economia politica, così come Engels per la sua magistrale “inchiesta” sulla situazione della classe operaia in Inghilterra, proprio a partire dai libri blu che raccoglievano le indagini parlamentari sul tema. Allorché egli propose nel 1866 (come spiegheremo meglio più avanti) alla I internazionale [associazione internazionale dei lavoratori, costituita nel 1864] di dar seguito a una “inchiesta”, intese precisamente indicare la necessità di completare le informazioni ufficiali per le loro manchevolezze, che erano soprattutto dovute alla volontà di parte borghese di ignorare certi ”fatti e misfatti”. Ciononostante, l’”inchiesta ufficiale del governo inglese” all’epoca fu considerata sufficientemente “imparziale e sistematica”, tanto da essere capace di produrre “conseguenze legali” per le “rivelazioni” fatte.
Non a caso quell’indagine ufficiale era presa a esempio per cercare di imporla ai governi degli altri paesi capitalistici. Questo fu anche il caso della ricordata inchiesta francese del 1880. E il “coordinamento internazionale degli sforzi” per portare le conoscenze oggettive sulla condizione operaia nei vari paesi almeno al livello inglese, data l’arretratezza delle indagini altrove, fu proprio il senso dell’indicazione marxiana del 1866. Costretti perciò a contare sulle proprie forze, i lavoratori dell’internazionale furono sollecitati da Marx a compiere quel grande sforzo attraverso “un’inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici di tutti i paesi da istituirsi da parte delle classi lavoratrici stesse”. [È opportuno rammentare che nella stessa situazione di carenza di conoscenze si mosse, tanti anni dopo, l’“inchiesta maoista”]. Sottolineiamo il carattere “statistico” dell’iniziativa proposta da Marx, proprio perché egli era consapevole dell’insufficienza delle informazioni fornite dalla quasi totalità dei governi borghesi (con l’eccezione inglese): l’oggettività statistica allora cercata è dimostrata e confermata dal significato stesso della maggior parte delle domande indicate.
Più dei tre quarti di esse hanno carattere meramente informativo. Solo il restante quarto presenta elementi che, se pur sempre conoscitivi e oggettivi, implicano per il proletariato elementi più spiccatamente di classe. E proprio per tale ragione, codesta parte dei quesiti è forse la più interessante, non reperibile facilmente nelle statistiche borghesi e – per il suo significato in qualche modo precursore dei tempi – anche quella capace di rendere l’inchiesta maggiormente di attualità. Basti qui segnalarne alcune, su temi particolarmente significativi: lavoro a domicilio, funzionale alla grande fabbrica (29), compiti di manutenzione del macchinario (43), rilevanza del cottimo e dei “fuori busta” (53), subordinazione alla “qualità” del salario a cottimo (54), salari pagati da appaltatori di manodopera (60), connessione tra produttività delle macchine e intensità del lavoro (72), abuso della polizia contro i lavoratori (93), mancata applicazione delle leggi sul lavoro (94), gestione padronale dei fondi contributivi dei lavoratori (97), lavoro salariato presso presunte cooperative (98), pretesa partecipazione dei lavoratori al profitto d’impresa (in relazione anche a limitazioni del diritto di sciopero) (99).
Tuttavia – prescindendo per ora da questi ultimi importantissimi aspetti, di cui discuteremo più avanti la specificità – per la maggior parte delle informazioni, statistiche o meno, oggi le cose stanno ben diversamente, in tutto il mondo capitalistico, perché così serve al capitale medesimo su scala mondiale. La conoscenza della realtà produttiva e lavorativa da parte degli agenti pratici del capitale – e non parliamo affatto dei sicofanti accademici, tanto raffinati quanto vuoti, ma dei rozzi tecnici della concreta gestione operativa d’impresa – è oggi vasta e approfondita. Può sembrare strano ad alcuni, ma sono proprio quei “tecnici” – molto più dei sedicenti-critici-di-sinistra – che sanno bene che il profitto dei loro padroni deriva dallo sfruttamento del lavoro, e che quindi l’analisi dettagliata dell’organizzazione del lavoro è alla base di una teoria del valore molto più corretta presso di loro che in quei fatui critici. Dunque, senza conoscere prioritariamente codesta analisi capitalistica del processo di lavoro, non si fa alcun passo avanti: questa oggi è la prima, per così dire, “inchiesta” da fare da parte del proletariato e dei suoi intellettuali organici!
Studiare la gran mole di informazioni e dati, qualitativi e quantitativi, di statistiche ufficiali con cui l’ideologia borghese inonda la stampa e le biblioteche, anche per confondere i non addetti ai lavori: questo è un programma minimo per i comunisti al fine di orientarsi – e orientare – nell’eccesso di informazione che caratterizza la realtà contemporanea. Già, proprio di un “eccesso” si tratta, ormai, e non di una carenza, che solo una forza collettiva ben organizzata è in grado di affrontare. Soltanto partendo di lì si può assumere tutto ciò che è conoscibile oggettivamente – come fecero i nostri maestri, Engels e Marx sull’industria inglese, Lenin e Gramsci sul taylorismo americano, ecc. – per criticarlo nella sua inevitabile ottica di parte, per svelarne gli imbrogli e tapparne i buchi. L’attualità di un’inchiesta sta proprio in ciò, in primo luogo, nel completare cioè l’oggettività delle conoscenze sul rapporto di lavoro – dalla prassi per rovesciarlo di nuovo nella prassi. Se non si segue un processo di tal genere, lo scivolamento lento ma continuo nella “mitologia” dell’inchiesta-panacea è inevitabile.
La presa di contatto che si pretenda invece di stabilire con i lavoratori si presenta quindi come uno dei più pericolosi alibi per sviare la serietà dell’inchiesta. Abbiamo già rammentato quali siano gli aspetti positivi, per la formazione della coscienza di classe, rappresentati dalla riflessione e discussione collettiva che un’inchiesta comporta. Non occorre ripeterlo. Ma al di là di quel punto è in agguato il mito volontaristico e soggettivistico. Lo svolgimento di un’inchiesta richiede la presenza di condizioni ben precise. Sul piano statistico ufficiale, la realtà da esaminare deve poter essere “campionabile” e il campione scelto deve essere rappresentativo, sia per la sua composizione sia per la sua estensione. [E già questa è una condizione banale quasi sempre assente nelle cosiddette inchieste operaie – e c’è poco da contentarsi, su decine di migliaia di questionari, di un centinaio di risposte, quasi tutte da parte di compagni, come anche i Qr mostrarono di fare nella loro prova].
Ma quel che più conta è, sul terreno del campo proletario, la mancata verifica dell’esistenza di condizioni di classe per avviare l’inchiesta. Marx, sia nella proposta del 1866 sia nel progetto del 1880, la collocò all’interno di un’organizzazione già esistente e consolidata (“il nostro partito rivoluzionario continentale”), che fosse la prima internazionale o il partito operaio francese coordinato con le altre organizzazioni proletarie europee. Insomma, il “contatto” ricercato con i lavoratori non può essere determinato dalle interviste, ma, al contrario, queste si possono fare bene solo se già c’è una qualche organizzazione. Il vizio di invertire la causa con l’effetto è caratteristico di chi pone la volontà soggettiva davanti alle condizioni oggettive [tra le quali rientra anche, ovviamente, la soggettività organizzata].
È così che, sull’“infelice” esempio dei Qr, il criterio dell’“inchiesta” è stato caricato di una impropria funzione surrogatoria per stabilire “contatti” che non ci sono e costruire una parvenza di organizzazione che non c’è: il classico carro davanti ai buoi. Pur concedendo l’attenuante dovuta al fatto che i comunisti torinesi di Qr furono estromessi pesantemente dalle esistenti strutture partitiche e sindacali – ormai avviate in una deriva pre-corporativa [cfr. il dibattito dell’epoca cui partecipò quella rivista, con nomi ben noti anche oggi] – quella, purtroppo, non era e non è ragione sufficiente per utilizzare l’inchiesta in tale modo capovolto. Non c’è alcun motivo, qui, per criticare particolarmente l’iniziativa pionieristica dei Qr (peraltro in parte storicamente, se non giustificabile, comprensibile), ma ce ne sono ancora meno per imitarla passivamente.
Il rilancio attuale di un’inchiesta operaia, perciò – come specificheremo più avanti dettagliatamente – sta proprio in questo: nella possibilità e nella necessità che, laddove forme di organizzazione comunista si vadano già ricostruendo, la conoscenza scientifica della condizione proletaria, elemento indispensabile per quella ricostruzione, si arricchisca di quelle informazioni che le abbondanti statistiche borghesi volutamente trascurano. La formazione della coscienza e il contatto con masse crescenti di lavoratori ne è la giusta conseguenza – non la premessa, né ciò consente, a chi è solito non saper dare un ordine alle cose, rifugiarsi nella comoda giustificazione che tutto dipende da tutto, in anodine interdipendenze, e quant’altro così via intrecciando.
In questo stesso senso è corretto considerare l’opportunità della cosiddetta inchiesta “a caldo” – di cui parlava Panzieri – svolta nel corso delle lotte; ma appunto per tenere “calda” una lotta, comprendendone in tempo reale le ragioni e le prospettive, e non per attribuirle un’improbabile funzione maieutica di guida alla spiegazione dello sfruttamento capitalistico. Viceversa, la tendenza “mitologica” vede in simili iniziative l’antagonismo operaio fondato su “valori” proletari presupposti come alternativi, anziché posti dalle contraddizioni reali, materiali e sociali, del modo di produzione capitalistico nel suo divenire. Siffatta mera contrapposizione soffre di assoluta mancanza di oggettività, per l’incapacità intrinseca di seguire lo sviluppo dialettico di entrambi i poli antagonistici attraverso tutte le loro mediazioni.
In effetti, il richiamo a cosiddetti “valori” operai è puramente ideologico, basato su un movimentismo privo di strutturazione, che si oppone al capitale, non realmente come a un rapporto sociale, ma come a qualcosa di “altro”, del tutto esterno. Insomma, così facendo non si rappresenta questo rapporto (per dirla con Marx) come costituito da “forme antitetiche dell’unità sociale” – della medesima unità sociale. Non è certo un caso – per riprendere e continuare il confronto tra la concezione di Marx, non solo dell’inchiesta, e gli scivolamenti “mitologici” – che la lezione marxiana, trattando di quelle forme antitetiche quali basi oggettive dell’antagonismo sociale, non le consideri mai sotto la categoria e la dicitura “anticapitalismo”. Quest’ultima è una in\determinazione, affatto generica e comportamentale, assolutamente priva di concetto. Ed è proprio in tal senso che il rabbassamento della contraddizione a opposizione di “valori” non può che ricorrere al fare appello alla soggettività cosciente e alla volontà di lotta. Ma è pure inevitabile che tale appello – se privo di basi materiali reali pratiche – preluda al “soggettivismo” e al ”volontarismo” [non è un caso che Panzieri, quasi adducendo una excusatio non petita, prendesse le distanze dalla tradizione anarco-sindacalista, i cui mille rivoli possono assumere le forme apparentemente più improbabili].
Il rapporto sociale di capitale che l’inchiesta è chiamata a dissezionare, dunque, pone i suoi promotori di fronte a due possibili criteri di impostazione: quello della sua conoscenza oggettiva, in cui la soggettività stessa si presenta come sua espressione, oppure quello dell’opposizione soggettiva, in cui l’oggettività del dato costituisce solo una base empirica inessenziale. Di fatto, la più diffusa tradizione dell’inchiesta si è radicata in questa seconda linea, fino al suo esito mitizzante. Cerchiamo di capirne le motivazioni, anche senza poter ripercorre qui le tappe che hanno disperso le fila del marxismo in mille interpretazioni: talché l’infinità enumerabile dei marxismi annulli la portata del marxismo – quasi come in un rapporto matematico, per il numeratore, infinitamente suddiviso, per quanto grande esso sia.
Abbiamo considerato poc’anzi come Marx, al di là della precipua occasionalità dell’inchiesta, abbia sviluppato le determinazioni della sua analisi attraverso categorie e concetti posti dalle contraddizioni reali racchiuse nella critica dell’economia politica. La storia, la struttura sociale, la cultura, la riflessione filosofica e ideologica, non sono estranee a quella critica ma assolutamente incluse in essa, in quanto sue articolazioni. Per Marx ed Engels l’economia politica costituiva giustamente, in quanto rappresentazione ideologica, l’apogeo dell’organizzazione borghese fondata sul modo capitalistico della produzione sociale. Quell’economia politica andava innanzitutto compresa compiutamente. E allora, poi, solo la critica di essa – ma attraverso determinazioni del tutto proprie, e non invece mutuate in “negativo”, per opposizione, da quelle borghesi, magari ridotte a “valori” avversi – avrebbe potuto esprimere interamente la scienza del comunismo.
Viceversa, è molto più agevole accettare, per negare con un semplice cambiamento di segno, la concezione borghese dell’“economia” come “tecnica unilaterale”. Cosicché la totalità sociale di riferimento si frammenti in un pluralismo disciplinare – appunto economia, filosofia, storia e via specializzando – incapace di ricostruire nel pensiero riflessivo quella totalità. La marxiana critica dell’economia politica era già, ed è ancora, quel criterio conoscitivo totalizzante della relazionalità causale della società – purché lo si capisca. Ma essa implica un fondamento inaccettabile per il pensiero borghese: l’analisi dei rapporti di proprietà, entro la determinazione storica del modo di produzione, costituito da classi sociali tra loro antagoniste.
Ecco allora che la risposta “progressiva” della borghesia tentò di annullare codesto fondamento “inventando” un’ulteriore disciplina. E proprio in risposta al marxismo – provando a scimmiottarne alcuni aspetti “tecnici” e mutuandone termini e definizioni rese sterili e frammentate – nacque la cosiddetta sociologia. La “proprietà” venne sostituita dal “possesso” e dalla “gestione”, la “produzione” dalla “distribuzione” cosicché il “modo” sociale storico della sua esistenza potesse lasciare il posto a interrelazioni astoriche di “sistema”, dove quindi le “classi” furono rabbassate a meri riscontri statistici, in una generica differenzazione indifferente di “ceti” e “gruppi”: senza l’immanenza del loro antagonismo, la lotta di classe divenne indicibile.
La fortuna di tale disciplina era destinata a divenire nel tempo tanto grande ed espansiva, quanto però immediata e scoperta fu la sua intenzione mistificatoria, per chi aveva occhi per vedere. Se qualcuno dubitasse di quest’ultimo aspetto potrebbe utilmente riguardare le tempestive critiche di Marx ed Engels a Comte e Dühring, come pure le più generali argomentazioni di Lenin contro l’empiriocriticismo. Nondimeno, è prevalsa una tendenza (soprattutto italiana) di pessima lettura dell’opera di Engels – inopinatamente e senza alcun riscontro testuale, un po’ per ignoranza e un po’ per ossequienza alle lezioni di Rodolfo Morandi e Galvano Della Volpe – definita “poco fedele” al pensiero di Marx!, e di livore nei confronti della figura di Lenin (da alcuni quasi considerato colpevolmente come “padre” di Stalin). La dialettica – non solo presso il marxismo, ma già nei suoi fondamenti in Hegel, vilmente consegnato a Croce se non a Heidegger – venne sempre più insistentemente liquidata come “metafisica” e ristretta all’opposizione per “differenze”.
È in un simile clima culturale e ideologico che la sociologia, e soprattutto il “sociologismo”, riuscirono a iniziare la corrosione del marxismo in un certo tipo di pensiero di “sinistra”. Da Weber e Veblen, Durkheim, Berle e Means, fino a Parsons, fu aperto un solco che invadeva il medesimo terreno di indagine che Marx assunse, e che però egli prese come base per le lotte di classe del proletariato mondiale. E lo invadeva non già per svilupparne l’attualità. Bensì, col solito pretesto del completamento e dell’“approfondimento” del marxismo, da tempo denunciato da Lenin, proprio per annullare quelle lotte – onde sostituirle con conflittualità più generiche e non generali, in quanto allo stesso tempo circoscritte e occasionali, anziché immanenti alla struttura sociale. L’operazione di mistificazione della modernità borghese era avviata; le prospettive della post-modernità erano aperte.
Non a caso, minata la diga, fu facile cooptare, a fianco della sociologia, una variopinta congerie di teoresi. Da psicologia e Freud, comportamentismo e Dewey, antropologia e Levi-Strauss, strutturalismo e Piaget, istituzionalismo e Kelsen, e – perché no – “benessere” e Keynes, economismo e Sraffa, termodinamica e Prigogine, caos e Thom, sistemica e Luhmann, storicomondismo e Braudel, fino a “debordare” – se ci capite – nella decostruzione epistemologica delle accomodanti riletture di vitalismo e Bergson, nihilismo e Nietzsche, differenzialismo e Heidegger, e via irrazionalizzando, coinvolgendo nei “marxismi”, Fromm e Arendt, Popper e Heller, Althusser e Gorz, e via pluralizzando. Non che molte di tali congetture teoretiche non vadano conosciute, soprattutto quando rispecchino la realtà che le ha generate, ma – dal punto di vista della critica marxista, radicalmente antitetica e filosoficamente incompatibile con esse – codeste formulazioni possono solo essere “criticate”, in quanto siano ricomprese elementarmente, e non come concezioni complessive, nel corpo storico della dialettica materialistica della critica dell’economia politica.
Sfortunamente, come abbiamo osservato, quella critica marxiana è troppo poco conosciuta, almeno come critica scientifica, essendo perlopiù ridotta all’infimo rango di fideismo, ultimo approdo dell’ideologismo. E così, per quanti cerchino “novità” – vecchie come il cucco – è facile restare volgarmente affascinati dalle teoretizzazioni borghesi, credendo di aver scoperto chissà che. Non solo, ma presso cospicui eruditi e accademici – tra cui peraltro non mancano opportunisti sicofanti e cerretani – quel fascino si fa indiscreto e suadente, fino a trasformarsi in strumento di cattura da parte delle posizioni che inizialmente si presumeva di criticare. Si sa che a forza di dar udienza alle preponderanti sirene avversarie, senza premunirsi sapientemente di essere ben legati all’albero del marxismo, i deboli o fatui, e sono i più, attraversano facili mutazioni di convincimento. È qualcosa di peggio del “pentimento”, di più perverso: è l’attrazione che lega la vittima al suo boia.
Questo pur breve allungamento del filo del discorso, attraverso considerazioni sui “principi”, non sembri una divagazione eccessiva rispetto al nostro tema dell’inchiesta. In effetti, abbiamo voluto riprendere la riflessione proprio alla radice del possibile rischio di deviazione mitizzante dell’inchiesta medesima. Dappoiché fu proprio Panzieri che – con quella e altre iniziative, senza qui volere giudicare l’impostazione dell’intera sua opera – scelse come interlocutore privilegiato la “sociologia” weberiana, restaurata negli Usa. Le riconobbe il rango di dottrina prìncipe, così come i suoi stessi fondatori volevano: naturalmente per “criticarla” – ma, così facendo, introiettando nella sua critica tutto quello statuto epistemologico disciplinare contro il quale abbiamo cercato qui sopra di mettere in guardia. Il conquistatore rischiava di venire conquistato e, di certo, consegnava la maggior parte dei suoi imprudenti seguaci alla mitologia borghese. Non altrimenti si spiega il suo invito a modificare il marxismo in “critica della sociologia”, incomprensibilmente asserendo che la marxiana “critica dell’economia politica” si sarebbe limitata ad aspetti troppo tecnici ed unilaterali: ma dove? ma come? secondo quale angusta, e quindi errata, interpretazione?
Il nuovo ordine mondiale del lavoro costituisce il campo attuale su cui verte l’inchiesta operaia o, meglio, proletaria. Ma questo è il campo precipuo e generalissimo della critica dell’economia politica, come Marx con Engels l’intesero originariamente. È l’economia politica del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, nella fase di universalizzazione del neocorporativismo, per conoscere la quale solo forze collettivamente organizzate e teoricamente molto attrezzate possono ritenersi capaci. L’inchiesta può essere solo un compimento continuo di entrambe quelle condizioni poste da un simile processo, ma nulla più, e soprattutto non può surrogarle.
Conoscere il capitalismo contemporaneo – e rimandiamo alle diverse analisi svolte altrove – significa analizzare una serie non semplice di questioni. L’unificazione del mercato mondiale è il termine di riferimento pratico e concettuale di maggior momento: e non a caso già Marx lo pose come conditio sine qua non per la transizione a un modo di produzione socialmente superiore, e al comunismo. Partire di lì – nella critica dell’economia politica, e non tanto della sociologia – impone di comprendere, per spiegarli, i processi di integrazione transnazionale del capitale, senza nazione, e sovranazionale degli stati nazionali, che ancora contraddittoriamente li rappresentano. Ma codesta integrazione richiede di indagare, tra le file del proletariato mondiale, come si manifestino le differenti rappresentazioni locali di quella medesima totalità: giacché alla coscienza immediata che coglie la differenza quotidiana può sfuggire proprio l’identità globale.
Le più recenti forme del capitale finanziario – dai grandi gruppi di controllo transnazionale (ormai non più nazionali come all’inizio del secolo, ma ancora a base nazionale) della fusione tra industria e banca, alle nuove disposizioni legislative (varate infine anche in Italia) sulla cosiddetta. “banca universale”, fino ai nuovi strumenti dell’intermediazione finanziaria, che favoriscono la cosiddetta “interpenetrazione” azionaria e le operazioni degli investitori istituzionali anche nel campo della speculazione, altrettanto necessario per il capitale quanto quello della produzione e circolazione propriamente dette – forniscono il materiale di indagine sul potere borghese contemporaneo. Tutti gli elementi concernenti codeste forme sono noti, o quanto meno conoscibili, attraverso la gran mole di documentazione ufficiale esistente. Ma è anche vero che proprio dietro tali forme si occultino le più oscure manovre del grande capitale su scala mondiale. La costante e non sporadica verifica degli assetti proprietari, e quindi dell’interconnessione con gli apparati pubblici subordinati agli interessi privati, è tema che rende attuale l’inchiesta.
Insomma, solo se si studia e si conosce scientificamente, come “intellettuale collettivo”, il modus operandi del grande capitale contemporaneo – nella sua oggettività economica, come rapporto sociale di classe – prima dell’inchiesta, allora l’inchiesta si porrà poi come complemento critico dell’economia politica, essenziale per cogliere nella prassi della situazione concreta i caratteri di permanenza e riproduzione della conflittualità intercapitalistica. Di fatti, una peculiarità che pertiene proprio all’indagine di parte proletaria è di far derivare, dalla conoscenza oggettiva della totalità del capitale e del suo rapporto, la sua intrinseca contraddittorietà. E se l’analisi delle contraddizioni ha il suo nucleo imprescindibile nella riflessione teorica, attraverso l’inchiesta essa può ricevere conferma nel suo corpo reale. Una siffatta peculiarità è capace di evidenziare – in netto contrasto con la mitizzazione soggettivistica e, in fondo, romantica – proprio l’oggettività immanente della lotta di concorrenza tra i capitali, dovuta alla loro ineliminabile molteplicità: il capitale appare qual è, non unico, perciò impossibilitato a darsi un “piano”, e tanto meno a diffonderlo come regola “sociale”.
I trent’anni trascorsi dalla prova dei Qr hanno confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, il fallimento del capitale internazionale proprio su questo terreno: all’illimitatezza della sua pervasività sul mercato mondiale unificato ha fatto ogni anno di più riscontro la vacuità di un’ipotesi regolatoria dell’intera relazionalità sociale, vieppiù sfuggente, a seguito dell’acuirsi dello scontro tra “fratelli nemici” – per dirla con Marx. Chi pensava altrimenti, non aveva fatto i conti – neppure, e forse soprattutto, teorici – con la crisi, centro dell’ineliminabile dialettica del capitale, con il suo approfondimento e la sua irresolubilità. La realtà ha rimesso le speculazioni teoretiche con i piedi per terra. Anche qui l’inchiesta può servire molto.
Come pure – per quanto ci può interessare più direttamente, anche per livelli locali parziali – è la verifica delle vie attraverso cui passa la risposta imperialistica alla lunga ultima crisi irrisolta. Ci riferiamo allo studio preliminare, e alla successiva indagine sul campo, riguardante i caratteri di grande omogeneità internazionale portati dalla nuova organizzazione del lavoro [la cosiddetta. “qualità totale”, presto estesa e trasformata, potremmo dire, in “quantità totale” presso qualsiasi settore lavorativo, non necessariamente produttivo e tecnologicamente avanzato]. Qui non possiamo dilungarci neppure su questo tema. Ma è facile ipotizzare alcune domande specifiche sulle sue forme d’attuazione, come “elevazione” del taylorismo e del lavoro a “catena”, in fabbrica e in ufficio, conservazione e superamento non eliminazione di esso. O su tutta la serie di questioni poste dalla flessibilità dell’erogazione del lavoro e della corresponsione del salario (precariato e cottimo), spesso di difficile interpretazione pratica [in particolare dopo il 3 luglio].
Non a caso, quasi all’inizio ricordammo quel gruppetto di domande formulate da Marx, già come segno di anticipazione dei tempi, inerenti proprio molte delle questioni ora qui riprese. Ecco allora chiarito quale possa essere la grandisssima funzione affidata all’inchiesta, come momento complementare, nel disvelamento dei criteri di comando occultati dal potere borghese: soprattutto nel momento storico in cui tale occultamento si avvale, oltre che dei mezzi di comunicazione di massa, direttamente della collaborazione degli apparati sindacali istituzionalizzati per estorcere il consenso coatto al proletariato, disarmato anche intellettualmente. È la lotta contro il neocorporativismo, la “bestia trionfante”. Forse non è male rammentare il criterio maoista dell’inchiesta, strettamente legato alle fasi di lotta – critica – trasformazione.
In questo senso, possiamo recuperare trent’anni dopo l’“intenzione” panzieriana, purché la priorità sia sull’oggettività del modo di produzione capitalistico nelle sue forme contemporanee, parzialmente nuove, poste dall’imperialismo transnazionale: per arrivare alla “soggettività organizzata”, cosciente e critica, e non per partire da essa, nella sua sola autonoma spontaneità immediata. Un partito o un sindacato non si costruiscono a partire da un’“inchiesta operaia”. Ma un partito o un sindacato che si vanno costruendo nella prassi sociale e politica hanno l’inderogabile compito – per conoscere scientificamente la realtà, dopo aver studiato la teoria di classe e esaminato tutti i documenti di analisi e informazione borghese per criticarli – di seguire costantemente il metodo dell’inchiesta.