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Il gruppo No Labels: Biden e la paura dei partiti minori
Domenico Maceri
Nell’elezione presidenziale del 2000 George Bush figlio vinse lo Stato della Florida con un margine di 537 voti conquistandosi i 25 voti del Collegio Elettorale che gli diedero le chiavi della Casa Bianca. Ralph Nader, il candidato del Green Party, ricevette quasi 100 mila voti, buona parte dei quali sarebbero probabilmente andati a Al Gore, il candidato democratico, il quale avrebbe vinto la presidenza. Nader infatti influenzò anche in maniera negativa l’esito del New Hampshire dove ricevette il 4 percento dei voti. Anche con la sconfitta in Florida, Gore avrebbe probabilmente prevalso solo con i quattro voti del Collegio Elettorale del New Hampshire emergendo vincitore dell’elezione presidenziale con un totale di 270 voti, il minimo per la vittoria.
I più recenti sondaggi per l’elezione del 2024 piazzerebbero Donald Trump a una vittoria risicata negli Stati in bilico che tipicamente decidono l’elezione. Se si considerano i probabili effetti dei candidati minori i risultati favorirebbero Trump in maniera decisiva (Trump 39%, Joe Biden 36%, Robert F. Kennedy Jr. 15% e Cornel West 3%). La paura di Biden non è dunque il suo rivale del 2020 ma la presenza di candidati minori che risucchierebbero voti principalmente dal Partito Democratico invece di quello Repubblicano.
Robert Kennedy Jr., il figlio del fratello del presidente John F. Kennedy, è ovviamente molto noto a causa del nome. Alcuni membri del clan Kennedy hanno però pubblicamente preso le distanze dalle sue attività politiche, specialmente dalle sue idee anti-vaccini. Questa posizione danneggerebbe probabilmente Trump e il Partito Repubblicano lo ha preso di mira dipingendolo come un democratico camuffato da indipendente. Infatti alcuni alleati di Trump hanno già iniziato indagini per trovare aspetti negativi su di lui.
Cornel West, invece, rappresentante dell’ultra sinistra, danneggerebbe Biden con quegli elettori insoddisfatti dalle politiche centriste dell’attuale presidente. West, intellettuale di sinistra e professore universitario, si è descritto come un socialista non marxista. Potrebbe ereditare almeno una parte degli elettori di Bernie Sanders e Elizabeth Warren, che non hanno fatto dichiarazioni di voler sfidare Biden per la nomination.
Il pericolo maggiore di un terzo partito per Biden sarebbe rappresentato da un possibile candidato del gruppo No Labels (Nessuna Etichetta”. Fondato nel 2010 il gruppo include parecchi luminari fra repubblicani e democratici considerati desiderosi di fare compromessi. Fra questi spiccano la senatrice repubblicana Susan Collins del Maine, l’ex governatore del Maryland, il repubblicano Larry Hogan, e Joe Lieberman, ex senatore democratico del Connecticut e già candidato alla vicepresidenza con Al Gore nel 2000. Si tratta di un gruppo bipartisan alla ricerca di compromessi, insoddisfatto dai due maggiori partiti politici visti come estremisti.
Al gruppo No Labels si è recentemente unito il senatore democratico del West Virginia Joe Manchin il quale ha deciso di non ricandidarsi per il Senato, spiegando che esplorerà modi di creare un movimento per “unificare gli americani”. Il gruppo No Labels non ha ancora deciso se nominare un candidato presidenziale ma Manchin potrebbe riempire questo ruolo anche se fino al momento non si è pronunciato al riguardo. Si teme che un candidato di questo gruppo danneggerebbe di più Biden dal lato opposto di West, cioè a dire da quell’ala dei democratici che vedono la politica dell’attuale presidente troppo legata all’ala sinistra del partito.
Uno degli aspetti più pericolosi del gruppo No Labels è la dichiarazione dei suoi vertici che non rivelerebbero le fonti dei loro contributi. La direttrice del gruppo Nancy Jacobson, che in passato aveva lavorato per il Comitato Nazionale del Partito Democratico, ha annunciato che sarebbe disposta a investire 70 milioni di dollari per la campagna di un eventuale candidato.
Preoccupa il fatto che il gruppo No Labels non svela l’identità dei suoi donatori. Alcuni analisti hanno rivelato però che il gruppo metterebbe in risalto gli interessi di ricchi donatori, favorendo una politica di opposizione agli aumenti delle tasse. Si sa però che alcuni dei primi contribuenti includono Dave Morin, ex esecutivo di Facebook e il miliardario Michael Bloomberg, ex sindaco di New York. Un’indagine del giornale Chicago Sun Times ha scoperto che alcuni Super Pacs, gruppi che raccolgono senza nessun limite, tipicamente da corporation pendenti a destra, sostengono i No Labels. E la rivista New Republic ha rivelato che uno dei suoi contribuenti è stato il miliardario Harlan Crowe, noto per le sue donazioni a cause di destra.
I partiti minori sono sempre stati influenti anche se non hanno avuto chances di vincere la presidenza. Il gruppo No Labels però ha tracciato un piano di come un suo eventuale candidato potrebbe conquistare la Casa Bianca. Secondo questo piano Biden uscirebbe vittorioso solo in California e Connecticut mentre Trump vincerebbe 9 Stati conservatori come la Louisiana, il Mississippi e l’Alabama. Il candidato No Label accumulerebbe abbastanza voti del Collegio Elettorale vincendo negli altri 39 Stati.
Si tratta di una prospettiva improbabile ma la ragione principale per cui i partiti minori sono in primo piano è dovuta all’impopolarità dei candidati dei due maggiori partiti. Un sondaggio dell’agenzia Gallup ha rivelato che il 63% degli americani vede l’operato dei due maggiori partiti in termini negativi e la necessità di “un terzo partito”. Solo una minoranza di americani vede Biden e Trump in luce favorevole (Biden 39%, Trump 35%).
La partecipazione attiva dei partiti minori creerebbe più democrazia con una maggiore partecipazione alle elezioni. Paradossalmente favorirebbe Trump, un individuo che ha dato chiari segnali che la democrazia esiste solo quando vince lui.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications