Una nave pattuglia il Mar Nero in vista delle Olimpiadi di Sochi © Reuters
L’arte della guerra
Manlio Dinucci
Soffiano venti da guerra fredda sulle Olimpiadi invernali di Sochi, anzi sulle «Olimpiadi dello zar Putin» come le chiamano all’unisono i media occidentali. Le splendide prestazioni degli atleti di tutto il mondo, preparatisi per anni ai giochi, vengono messe in secondo piano o ignorate salvo quando a vincere è un atleta nazionale. Mentre si abbuiano le Olimpiadi, frutto di un colossale lavoro collettivo, si forniscono dettagliate notizie sull’eliminazione dei cani randagi a Sochi e sul fatto che nella cerimomia di apertura uno dei cinque cerchi olimpici non si è acceso, mantenendo le sembianze di un fiocco di neve (presagio infausto, avrebbero detto gli antichi).
Viene allo stesso tempo lanciato l’allarme su un attentato terroristico che potrebbe scolvolgere le Olimpiadi, dopo quelli puntualmente verificatisi a Volgograd. A Washington, dove di terrorismo se ne intendono, hanno espresso preoccupazione per un possibile attentato a Sochi decidendo di intervenire militarmente: la Mount Whitney, nave ammiraglia della Sesta flotta, è salpata da Gaeta entrando nel Mar Nero insieme alla fregata Taylor. Tenendosi pronte a evacuare da Sochi gli atleti e gli spettatori statunitensi, le due navi da guerra intanto si esercitano, affiancate da unità georgiane, ai limiti delle acque territoriali russe.
Obama, Cameron e Hollande, strenui difensori dei diritti umani con cui motivano le loro guerre e le relative stragi, hanno fatto capire di non essere andati alle Olimpiadi perché in Russia si vieta la propaganda gay, e Letta ha promesso di ribadire a Sochi la contrarietà dell’Italia a qualunque normativa discriminatoria nei confronti dei gay. Lo ha dichiarato pochi giorni dopo aver lodato ufficialmente a Dubai «la posizione umanitaria degli Emirati» e aver espresso analoghi apprezzamenti nei confronti delle altre monarchie del Golfo, i cui codici penali puniscono i rapporti consenzienti tra adulti dello stesso sesso con dieci anni di carcere e, in Arabia Saudita, con la fustigazione o la lapidazione. Le stesse monarchie, tanto apprezzate da Obama e dagli altri leader occidentali, si preparano ora a sottoporre gli immigrati a non meglio precisati «test medici» per evitare che omosessuali entrino nei paesi del Golfo.
La scesa in campo di Obama, Letta e altri leader a fianco dei gay in Russia è quindi del tutto strumentale. Come lo è l’accusa a Mosca di aver speso troppo per le Olimpiadi e di volerle usare a fini di propaganda nazionale, cosa che fanno tutti i paesi che le ospitano, a causa del meccanismo stesso di questo evento internazionale che andrebbe profondamente rivisto.
Tali accuse, pur avendo una base di verità, hanno un fine ben preciso: alimentare nell’opinione pubblica un nuovo clima da guerra fredda, funzionale alla strategia Usa/Nato che incontra a Mosca una crescente opposizione. Se al potere in Russia ci fosse ancora Eltsin, disponibile a ogni concessione agli Usa e all’Occidente, nessuno definirebbe quelle di Sochi «le Olimpiadi dello zar Eltsin».
A insindacabile giudizio di chi a Washington stabilisce il voto in condotta dei governanti, Eltsin è iscritto nella lista del «buoni», mentre Putin sta finendo in quella dei «cattivi». L’elenco da cui viene scelto di volta in volta «il nemico numero uno» (come è stato Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi), che serve a giustificare l’escalation militare fino alla guerra. Il bersaglio su cui di volta in volta si concentrano gli attacchi politici e mediatici, ingigantendone le malefatte per nascondere quelle ben maggiori di chi si erge a tutore dei diritti umani.