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C’è un doppio registro con il quale provare a tracciare un bilancio della Commissione Economica Mista che ha dato il via all’incontro intergovernativo tra Italia e Cina. Da un lato associazioni di categoria e mondo imprenditoriale che hanno rilanciato in grande stile l’appuntamento del business forum che si è tenuto alla Fiera di Verona venerdì scorso, dall’altro la felpata mossa dei principali media a tenere l’evento sullo sfondo, senza dare grande rilievo, se non alle parole cadenzate del ministro Tajani, che ha sì ribadito l’importanza del rapporto bilaterale con l’obbiettivo di «inaugurare una fase nuova investendo sul partenariato bilaterale», ma sfruttando l’occasione per lanciare messaggi politici. Più agli alleati occidentali che al suo diretto interlocutore, il ministro del commercio cinese Wang Wentao, giunto in Italia per rilanciare un grande stile il rapporto bilaterale economico e culturale tra i due paesi, sull’onda delle celebrazioni per il 700mo anniversario della morte di Marco Polo.
Appare così, almeno ai miei occhi, la decisione di ribadire (in quel contesto che dovrebbe invece celebrare i rapporti bilaterali tra il Belpaese e l’ex Celeste Impero) la reiterata richiesta alla Cina di fare pressioni sulla Russia in merito al conflitto in Ucraina. Un leitmotiv ribadito a più riprese negli ultimi due anni e che, però, tradisce una concezione particolare delle relazioni internazionali, secondo la quale i paesi non godono di piena sovranità ed è pertanto normale esercitare pressioni affinché modifichino il proprio operato. Non esattamente un bel segnale. Perché chi si fa portatore di una visione di questo tipo lascia intendere che sia legittimo ricevere ed accettare le pressioni che giungono da altri paesi, magari contro i propri legittimi interessi.
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Scivoloni a parte, la comunità imprenditoriale italiana ha voluto esprimere invece tutto il proprio interesse ed apprezzamento per la ripresa di un dialogo ad alto livello. Del resto i dati dell’interscambio commerciale nel 2023 evidenziano un aumento dell’export italiano (+16,8%) a fronte di un calo di importazioni, con una tendenza al riequilibrio della bilancia commerciale, fortemente voluta da parte italiana. A questo proposito Barbara Beltrame Giacomello, vice presidente di Confindustria con delega all’internazionalizzazione, ha sottolineato come il valore dei prodotti Made in Italy esportati verso Pechino è più che raddoppiato nell’ultimo decennio, con un interscambio commerciale che nel 2022 ha superato i 74 miliardi di euro. La rappresentante del mondo delle imprese ha sottolineato che l’export italiano verso la Cina è cresciuto di oltre il 500% e il nostro import del 540%, da quando la Cina è entrata nel WTO. «Ma la buona notizia – sottolinea la Beltrame – è che ci sono ancora margini di miglioramento. Secondo le stime del Centro Studi Confindustria, infatti, c’è un potenziale inespresso pari a 2,4 miliardi di Euro di export aggiuntivo per i beni di consumo, e di 2 miliardi per i beni strumentali».
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Ecco palesato, come anticipato, il doppio registro con il quale leggere il successo della Commissione Economica Mista Italia-Cina di quest’anno e che rappresenta anche la chiave interpretativa tra le due linee politiche che si confrontano in Europa, tra quanti quindi inseguono un’agenda politica spesso a discapito dei propri interessi e quanti invece lavorano per rafforzare i rapporti. Come è il caso della Germania il cui cancelliere ritorna in Cina con una folta delegazione di ministri ed imprenditori per stringere ancora di più i rapporti. Del resto sono oltre 5000 le imprese tedesche in Cina e l’interscambio è pari a 253,1 miliardi di dollari. Per l’ottavo anno consecutivo, infatti, la Cina resta il primo partner commerciale di Berlino. Insomma, se i cantori della de-globalizzazione, come abbiamo precedente analizzato (>>>link a: https://italian.cri.cn/2023/07/14/ARTIclNiAoD5Vtks5Jxxxp9h230714.shtml) hanno reso popolari espressioni come re-shoring, friend-shoring o near-shoring, la realtà concreta dell’industria e della produzione spinge la cooperazione tra Europa e Cina verso un maggiore sviluppo sinergico. Del resto il FMI stima che se l’Europa e gli Stati Uniti decidessero di delocalizzare velocemente le proprie produzioni fuori dalla Cina, pagherebbero un prezzo pesantissimo, calcolato in una perdita di Pil tra il 2 ed il 4%.
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Tutto questo ci fa ben sperare. Del resto le nuvole nere della politica europee non sempre portano la pioggia e col tempo una folata di vento è in grado di restituirci il sereno. Che è proprio ciò di cui abbiamo bisogno in questa fase storica, dove solo lungimiranza e capacità di dialogo possono fornici gli strumenti per navigare nei marosi della politica mondiale.
L’autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta
2024-04-15